
Il talento difensivo, seguendo la formula di Piero Calamandrei sulla libertà, è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.
Prendiamo il Benevento: gioca una partita di grande personalità in trasferta a San Siro contro l’Inter, in cui concede soltanto due tiri all’interno dell’area di rigore, per di più due colpi di testa, conclusioni a basso indice di trasformazione. Ma tanto basta per perdere 2-0. In questa stagione, il Benevento detiene il primato per i gol di testa concessi, ben 15, uno di questi segnato da Benali, 168 centimetri per 66 chili di leggiadra inconsistenza.
È difficile tracciare una linea di merito, o demerito che sia, tra collettivo e singoli giocatori per quanto riguarda l’efficacia difensiva: una grande giocata di un difensore è tendenzialmente meno visibile rispetto a quella di un attaccante, anzitutto perché può anche essere eseguita non direttamente sulla palla, come un fuorigioco applicato coi tempi giusti, o un accenno di pressione che induce all’errore, o magari perché, più banalmente, viene tagliata fuori dagli highlights, quindi conserva un’influenza minore nella memoria collettiva.
Le statistiche difensive, com’è noto, rendono meno di quelle offensive. Non ci sono indici come gli xG e gli xA per gli attaccanti e i centrocampisti più creativi, e i dati grezzi sono influenzati dai volumi, per cui i difensori delle piccole squadre avranno necessariamente più intercetti e contrasti di quelli delle grandi squadre. Anche le percentuali di riuscita, essendo avulse dall’esito dell’azione, e a loro volta influenzate dai volumi, non aiutano molto.
Insomma, i numeri consentono di vedere le eccellenze ed effettuare confronti interessanti, tra difensori della stessa squadra, o tra tipologie di difensori diverse, ma richiedono sempre una stretta contestualizzazione.
La sintesi è che è difficile valutare i difensori.
Ma la lezione che possiamo trarne è anche che, esattamente per gli stessi motivi, ce ne sono molti che rischiano di venire sottovalutati. Tra le pagine del nostro campionato si nascondono specie di difensori che meritano di essere apprezzate nella loro unicità, per capire in quante forme possa presentarsi il talento difensivo.
Rafael Tolói, o dell’importanza del contesto
Tutto quello che rende Tolói un difensore speciale era già ben visibile ai tempi del San Paolo: l’attenzione rivolta sempre verso la palla, l’aggressività dei contrasti, la ricerca ossessiva dell’anticipo, l’ostinazione a portare l’azione in avanti.
Quest’anno Tolói è il secondo difensore del campionato, con ampio margine sul terzo, nella somma di contrasti vinti e intercetti (5.1 in media ogni 90’ - il primo è Ajeti, che è però condizionato favorevolmente dal fatto che ha giocato la metà dei minuti di Tolói).
Per questa statistica, così come per tutte le seguenti, si tiene conto dei difensori con almeno 1000 minuti giocati in questa stagione. Nella classifica dei palloni intercettati, Tolói si posiziona settimo (2.4 p90), un paio di gradini sopra Benatia, il giocatore che avrebbe dovuto sostituire all’occorrenza quando Sabatini lo portò per la prima volta in Italia.
Quando arriva a Roma, in prestito dal San Paolo, Tolói «ha 24 anni ma è imbolsito come se ne avesse 34». È un giocatore simile a Benatia ma non è rapido, né elegante o forte fisicamente come Benatia. Dopo sei mesi in cui fatica a vedere il campo, la Roma preferisce risparmiarsi i 5,5 milioni del riscatto. Un anno dopo l’Atalanta lo rileva per una cifra inferiore, intorno ai 3,5 milioni.
Reja ne nota subito le «grandi qualità», ma dice anche che «dovrebbe mantenere per più tempo la concentrazione». Al centro della difesa a quattro, in una squadra dalla forte vocazione contropiedista, gli preferisce inizialmente il più roccioso Stendardo.
Nelle prime giornate, Tolói raccoglie qualche presenza da terzino, commette gravi leggerezze, si dispera con le mani sulla faccia, fatica ad allontanare lo stereotipo del centrale brasiliano lento e svagato. Reja lo bastona: «È abituato ai ritmi blandi del Brasile, dove si può sbagliare. Ecco, qui no».
Gasperini arriva a Bergamo e se lo ritrova per caso. Il primo giorno di allenamenti lo prova sul centro-destra, con Caldara al centro e Masiello sul centro-sinistra, e l’assortimento mostra da subito segnali incoraggianti: oggi sappiamo che, due anni dopo, quella sarebbe diventata la difesa titolare di una delle squadre più sorprendenti del campionato.
Dopo appena tre settimane di ritiro, Tolói sembra sinceramente esaltato: racconta che sta provando «nuovi stimoli e metodi di lavoro», che gli piace «uscire con il pallone tra i piedi, aiutare la squadra in fase offensiva», che gli è stato chiesto di «pressare forte senza lasciar giocare gli avversari».

Contro l’Inter, ad esempio, ha giocato 62 passaggi in totale, quasi tutti in avanti (41) e con una precisione “da centrocampista” superiore all’80%.
Tolói è un difensore in continuo movimento: se un attaccante si muove per ricevere spalle alla porta, lo tallona per prendere contatto, sporcargli il primo controllo, portarlo fuori equilibrio. Il suo stile difensivo è rischioso, ma si incastra così bene nei princìpi di Gasperini che si fa fatica a credere che sia stato quest’ultimo a raggiungere il primo, e non viceversa.
La fluidità con cui interpreta fase offensiva e difensiva è probabilmente il suo pregio più riconoscibile, ed è difficile quantificare in quale delle due fasi rivesta una maggiore influenza.
Tra i difensori del campionato, Tolói è secondo per dribbling tentati (1 p90, con il 79% di successo), primo per passaggi chiave (0.5 p90), e dodicesimo per passaggi tentati (58.5 p90), con una precisione (81%) molto inferiore rispetto alla media del ruolo, perché raramente rinuncia a giocare il pallone in verticale, quando ne ha occasione.

La heatmap di Tolói a confronto con quella di un altro difensore stabilmente impiegato sul centro-destra di una difesa a 3, eppure quasi ininfluente nella metà campo avversaria (via Wyscout).
Come dimostra il complicato processo di ambientamento di Tolói, il talento difensivo ha bisogno del contesto adatto per emergere, in misura maggiore rispetto al talento offensivo.
Quando giocava al centro di una difesa a quattro, quella tendenza a uscire dalla linea liberava spazi pericolosi, restituendoci il profilo di un difensore anarchico e con scarse capacità di lettura. Al contrario, nella difesa a tre di Gasperini può permettersi di fare quello che più gli piace fare, circondato da compagni che sanno esattamente cosa aspettarsi da lui, all’interno di un sistema che da quei rischi trae soprattutto benefici.
Ceccherini e Ferrari, o dell’importanza della gavetta
Oltre al contesto tattico ideale, i difensori differiscono anche nella curva di sviluppo.
Guardando ai punti fermi del prossimo ciclo della Nazionale, alcuni di loro a vent’anni erano già titolari in Serie A (Chiellini, Rugani, Romagnoli), mentre gli altri lottavano per ritagliarsi un posto da titolare in Serie B (Bonucci e Caldara). Alle loro spalle, tanto nelle gerarchie di Ventura quanto in quelle di Di Biagio, stanno emergendo Ceccherini e Ferrari, due giocatori che a vent’anni erano parcheggiati rispettivamente in Serie D e nella vecchia Serie C2.
Ceccherini e Ferrari hanno condiviso una gavetta con molti punti in comune: giovanili della squadra della loro città, anni in prestito tra le categorie del dilettantismo e del professionismo italiano, la Serie B come rampa di lancio, finché si sono trovati fianco a fianco nella miracolosa volata salvezza del Crotone.
Nel percorso che li ha portati in Serie A e agli stage della Nazionale non c’è traccia della predestinazione, ma il destino gioca un ruolo altrettanto importante, sotto forma della fiducia di un estimatore, o di un prestito giusto al momento giusto.
Ferrari è cresciuto nel Parma di Ghirardi e Leonardi, ed è stato gettato giovanissimo nella rupe dei prestiti senza fine, arricchendo un curriculum discretamente barocco sui campi del Monticelli Terme o del Crociati Noceto. Il Crotone lo ottenne in prestito dopo averlo ammirato in Lega Pro nel Gubbio di Bucchi, dove era diventato capitano a 21 anni, e l’anno seguente approfittò del fallimento del Parma per riscattarlo. «Il salto in serie B non fu traumatico», ricorda Drago, il suo primo allenatore in Calabria.
La carriera di Ceccherini si lega a quella da allenatore di Davide Nicola, che lo ha incontrato a Livorno, in Serie B. Dopo un anno in prestito a Pistoia, Nicola si impose perché restasse in prima squadra, lo fece esordire, conquistò la promozione e arrivò a schierarlo dal primo minuto all’esordio in Serie A. Poi il Livorno retrocesse, Nicola fu esonerato e Ceccherini non trovò più spazio. Nicola provò a portarlo a Bari ma fu esonerato anche lì, e riuscì infine a portarlo a Crotone, di nuovo in Serie A.
Nel passato di entrambi si trovano tracce dei giocatori che sono diventati. Nella prima intervista da professionista, Ceccherini annota tra i punti di forza «abile nell'anticipo, attento nelle chiusure, e ho una buona elevazione».
Già durante la prima stagione con Drago, invece, Ferrari si distingue perché «è molto bravo in fase di costruzione della manovra da dietro, assumendosi responsabilità importanti».
In effetti, Ceccherini e Ferrari sono due difensori diversi e discretamente complementari: il primo è molto reattivo, elastico, presente su ogni palla vagante, anche molto impulsivo; il secondo è più elegante, mancino naturale, più affidabile nell’uno contro uno e nella copertura della profondità, per come tiene le distanze dall’avversario e lo accompagna senza scoprire il fianco.

La partita di Ferrari in casa contro il Crotone: 120/126 passaggi completati (via Wyscout).
Anche le statistiche aiutano a delineare queste differenze. Ceccherini colleziona il doppio degli intercetti di Ferrari (2 a 1 p90, circa), ma è anche il secondo difensore del campionato per falli commessi, mentre Ferrari commette meno di un fallo a partita.
Ceccherini è secondo per numero di palloni spazzati (più di 7 ogni 90 minuti), mentre Ferrari gravita intorno ai primi dieci sia per precisione dei passaggi che per precisione dei passaggi lunghi, nel club dei Bonucci e degli Albiol: la cifra tecnica è molto differente, e differenti di conseguenza sono le responsabilità con il pallone.
Entrambi hanno statistiche mediocri sui contrasti, ma quelle di Ferrari vanno contestualizzate all’interno del sistema difensivo della Sampdoria: Ferrari e Silvestre sono i difensori che tentano e vincono meno contrasti del campionato (bonus: dell’intera Serie A, Silvestre è contemporaneamente il difensore che tenta meno contrasti, intercetta meno palloni e commette meno falli - praticamente non difende).
In compenso, Ferrari è il quinto difensore del campionato per tiri bloccati, dato che sottolinea come mantenga il controllo del corpo nell’uno contro uno, evitando di rischiare l’affondo.
Al netto delle rispettive peculiarità e amnesie, Ferrari - che ha avuto un calo in questo finale di stagione, insieme a tutta la Samp - e Ceccherini hanno dimostrato di meritare la massima categoria, e sembrano aver trovato la propria dimensione ideale.
Ferrari può imporsi come difensore centrale mancino di qualità, una rarità, utilizzando l’intelligenza tattica al servizio dei movimenti della linea. Ceccherini può guidare la difesa di una medio-piccola che non si può permettere cali di tensione, esaltarsi con la forza della disperazione e rispedire al mittente ogni attacco avversario.
È difficile stabilire se sia merito del tempo speso sui campi di provincia, ma entrambi nobilitano l’antica arte della scivolata, e anche solo per questo meritano di giocarsi la loro occasione ai margini della Nazionale maggiore.

Con quello stile difensivo sempre votato all’estremo, Ceccherini cancella una grossa occasione dai piedi di Pandev.
Vicari e gli altri, o dell’importanza della continuità
Per i difensori non esiste la stagione da venti gol.
Emergere richiede pazienza, specialmente nelle categorie inferiori, dove il mercato segue le regole dell’economia domestica, e le rose vengono rammendate sulla base delle opportunità e dei rapporti personali.
Oggi Vicari è insostituibile al centro della difesa della Spal, primo tra gli emuli di Bonucci, oggetto delle voci di calciomercato, ma neanche due anni fa era stato presentato con un certo disincanto, descritto da Semplici come un riempitivo: «purtroppo per varie esigenze non abbiamo potuto ottenere quei giocatori che volevamo inizialmente».
Vicari credeva che il suo momento fosse arrivato, dopo due buone stagioni con la maglia del Novara e le prime convocazioni nell’U20 e nell’U21, poi dopo la promozione in Serie B si è ritrovato a raccogliere poche presenze dalla panchina, chiuso da giocatori più esperti come Troest, Poli e Mantovani.
Nel frattempo è cresciuto molto (chi lo seguiva ai tempi delle giovanili lo descriveva «tecnicamente discreto, anche se meno bello da vedere rispetto ad altri difensori»), ma ha soprattutto trovato stabilità, in quella che sembra la sua posizione ideale.

Schiattarella è schermato da due uomini, allora la Spal ricorre alla sua fonte di gioco secondaria: il lancio di Vicari per Lazzari.
Vicari non è particolarmente rapido, né forte fisicamente, anche se è molto alto. Si distingue per la morbidezza del piede destro, con cui pennella lanci verso gli esterni per liberare la Spal dalla pressione.
La precisione dei passaggi lunghi (58.4%) è l’unica voce statistica in cui spicca sopra la media dei difensori, posizionandosi decimo, unico rappresentante della bassa classifica.
All’efficienza difensiva della Spal, la più solida tra le squadre in lotta per la salvezza, contribuisce principalmente con le braccia e con la voce, guidando le distanze del pacchetto arretrato.
La vocazione alla leadership è un talento che sentiva naturale («ho la capacità di comandare, di chiamare, parlo tanto ai compagni», diceva nel giorno della presentazione), ma che poteva sviluppare soltanto con la presenza fissa in campo, affinando l’intesa con i compagni («io ci metto sempre tutto, e ciò a volte non è apprezzato, viene considerata gente più vecchia», commentava con amarezza durante la stessa conferenza, riferendosi all’esperienza novarese).
Alla destra di Vicari, prima dell’arrivo di Thiago Cionek, giocava Salamon, un altro difensore di spiccata personalità, anche lui alla prima stagione con un buon minutaggio in Serie A nonostante siano passati oltre dieci anni dal suo arrivo in Italia (è un ‘91) e nonostante sia Mino Raiola a curarne gli interessi.
Con tanti difensori di bassa classifica, Salamon condivide un cartellino dai trascorsi avventurosi, incastrato in una giungla di prestiti e comproprietà, e un cambio di ruolo che ne ha influenzato lo sviluppo.
Ai tempi del Foggia, Zeman lo schierava davanti alla difesa, quello che considerava il suo ruolo naturale, fin dalle giovanili del Lech Poznan. Quando lo acquista il Milan, ha appena compiuto ventun anni e si sente già difensore. Dice di dover «migliorare molto, ad esempio sulla velocità».
Nel mezzo sono trascorse due stagioni che ha passato al Brescia, in Serie B, dove era sembrato troppo macchinoso per agire da regista, e più adatto a sfruttare i 196 centimetri di altezza per fare volume in area di rigore.
La forza e l’imponente elevazione sono qualità che ha facilmente traslato con il salto di categoria: oggi Salamon è il quinto difensore del campionato per percentuale di duelli aerei vinti (72%). Non si può dire lo stesso del repertorio da regista, dal momento che si sforza pochissimo di giocare il pallone sotto pressione: è primo davanti a Ceccherini per spazzate ogni 90 minuti (7.8).
Non è però scomparsa la sensibilità tecnica, ancora superiore alla media del ruolo. Per questo, quando ha dovuto fare a meno di Vicari, Semplici ha sempre preferito spostare Salamon al centro della difesa. Il principale difetto di Salamon, figlio del corpo pesante da spostare, è la reattività. Quando ha dovuto contenere attaccanti esplosivi come Cutrone, è arrivato vistosamente in ritardo su ogni palla vagante, come rallentato da una scheda grafica inferiore.
Anche se sta chiudendo la stagione in panchina, Salamon ha dimostrato di meritare la massima serie dopo averla a lungo inseguita. Qualche anno fa confessava i suoi due grandi sogni da bambino: diventare un calciatore e acquistare un quadro fiammingo del ‘500, di Bruegel il Vecchio. Per il momento ha realizzato solo il primo.

Contro il Napoli Salamon ha effettuato 10 respinte, di cui 6 di testa. Ma guardate anche quanti passaggi verticali e diagonali ha tentato, pur sbagliandone molto (era sempre Spal-Napoli…).
Antonio Caracciolo, difensore dalle più modeste velleità, sognava invece la Serie A e soltanto la Serie A, «da 27 anni». Anche lui ci è arrivato nell’età della maturità, dopo aver attraversato da nord a sud lo stivale in cerca di minuti e visibilità (è stato anche una comproprietà del Genoa, poi risolta con la busta vuota, una sorta di rito del fuoco per i giovani italiani ai margini del professionismo).
Ha esordito soltanto alla quinta giornata, dopo aver saltato tutta la preparazione estiva per un infortunio muscolare, e ha giocato benissimo, contribuendo a bloccare sullo 0-0 la Sampdoria, dopo che il Verona aveva subito 11 gol nelle prime quattro giornate. Da quel momento in poi, non ha più perso il posto da titolare.
In una squadra in cui si faticano a rilevare parametri vitali, Caracciolo si sta ritagliando una reputazione da roccioso stopper di bassa classifica.
È il primo difensore del campionato per azioni respinte (tiri, passaggi e cross bloccati con il corpo: 2.2 p90) ed è sesto per percentuale di contrasti vinti (85.7%), un dato notevole considerando che tutti i difensori sopra di lui sostengono un volume di contrasti tentati inferiore.
Pur non essendo particolarmente veloce, o rapido con le gambe, Caracciolo dispone di un’ottima visione di gioco, che per un difensore si tramuta nella capacità di tenere contemporaneamente presente la posizione della palla e i movimenti degli attaccanti, per arrivare per primo sul pallone, o comunque per mantenersi a contatto per disturbare l’azione.

Contro la Roma El Shaarawy si infila tra Caracciolo e Ferrari alla massima velocità, quando sembra già averli superati, Caracciolo ripara con una scivolata pulita sul pallone.
Quest’anno Caracciolo ha dimostrato di potersi disimpegnare con mestiere al cospetto di attaccanti molto più rapidi come Icardi, o molto più grossi come Dzeko, ma non è chiaro se avremo occasione di rivederlo in Serie A (ovvero: se qualche dirigente avrà voglia di rovistare nell’atmosfera desolante che avvolge il Verona, destinato a una probabile retrocessione).
Tra i suoi estimatori c’è Perinetti, che ha provato a portarlo al Genoa durante il mercato invernale, e già lo aveva portato al Bari per fare da riserva a Bonucci e Ranocchia. Anche quell’opportunità si rivelò illusoria: finì aggregato alla Primavera e non giocò mai con la prima squadra.
È spesso la fortuna a indirizzare le carriere dei difensori poco appariscenti come Caracciolo. Nella maggior parte dei casi, per gli stessi giocatori è difficile realizzare la misura del proprio valore.
«È sempre una questione di fiducia. Il ruolo è delicato e al primo errore rischi di finire fuori», commentava quando giocava nel Brescia, dove a un certo punto si ritrovò fuori rosa, poi fu reintegrato, poi diventò vice-capitano, il tutto nel giro di un anno.
La loro reputazione è volubile, e volubili sono i fattori che la determinano: lo sviluppo fisico, il contesto tattico, le gerarchie nello spogliatoio, la situazione contrattuale.
Qualcuno arriva ai vertici da giovane e ci rimane, qualcuno termina la gavetta soltanto verso i trent’anni, qualcuno è costretto a fare un passo indietro per poter fare due passi in avanti. Il traguardo per tutti è il nostro campionato, osservatorio privilegiato da cui esaminare il talento difensivo.