Intorno al cinquantanovesimo minuto dell'ultimo Liverpool-Manchester City, i cassetti della memoria di moltissimi appassionati di calcio inglese si sono aperti di colpo, come una finestra appena accostata che cede sulla spinta di una folata improvvisa di vento. La palla in profondità di Oxlade-Chamberlain per Firmino, il duello fisico vinto con Stones, il pallonetto rientrando verso il centro dell'area per superare il portiere con l’interno piede.
Il gol ha dato uno scossone a tutti i tifosi dei Reds riportatandoli all'ottobre del 1995, quando l'idolo di Anfield era un ragazzino poco più che ventenne, con le orecchie a sventola e una capacità innata di trovare la via del gol.
Da un R.F. all’altro.
Il soprannome di Robert Bernard Fowler, decisamente più conosciuto come Robbie, non era di quelli da portare con leggerezza. Gli piombò addosso a diciotto anni, poco dopo aver segnato cinque gol al Fulham in Coppa di Lega.
God, trovò scritto su quello che in Inghilterra chiamano training bib e che in italiano può essere tradotto con casacca o fratino.
Con una vena realizzativa sconvolgente per l'epoca, Fowler sfondò il muro delle 100 reti in maglia Reds in appena 165 gare ufficiali. Rileggere i suoi numeri restituisce solo in minima parte la portata del suo istinto sotto porta: Fowler è ancora oggi il sesto miglior marcatore di tutti i tempi in Premier League, con 163 reti, alle spalle di Shearer, Rooney, Cole, Lampard e Henry. Bottino tutto sommato magro, nel complesso delle diciotto stagioni da professionista in Premier, per uno che dopo solo 140 presenze nelle prime quattro stagioni era già a quota 83.
È molto facile cerchiare in rosso la data che ha trasformato la carriera di un attaccante che, nei suoi primi anni di carriera, spuntava da ogni angolo dell’area di rigore per punire portieri e difensori.
“My knee was fucked”
Lo scontro con Myhre in un Merseyside Derby, gli tolse quel mezzo secondo di rapidità con cui ridicolizzava gli avversari nei sedici metri che contano e la possibilità di un ruolo da protagonista a Francia ’98, Mondiale che i tifosi inglesi ricordano più per il calcetto di Beckham a Simeone che per il rigore decisivo sbagliato da Batty. Anche in quella circostanza, Fowler aveva cercato di anticipare difensori e portiere dell’Everton su un cross da destra. Myhre uscì di pugno nel tentativo di colpire il pallone, e a rivedere lo scontro tra i due pare ancora impossibile una conseguenza terribile come quella dell’infortunio al legamento del ginocchio.
«Non colpevolizzo Myhre perché buona parte del danno l’ho subita cadendo. Cercai di alzarmi e la gamba cedette. Capii la gravità dell’infortunio vedendo la faccia del nostro fisioterapista, Mark Leather: diventò bianco». Ripercorrendo le ore post-partita nella sua autobiografia, Fowler cita la frase testuale del medico durante la visita: «Your knee is fucked».
I fantasmi iniziano ad aggirarsi nella mente di Fowler, diventando una parte integrante del suo futuro. «Non pensavo di poter tornare a giocare a calcio perché il mio fu un infortunio particolare. La lesione del legamento crociato anteriore è abbastanza comune, io mi ero fatto male anche a quello posteriore. Conoscevo soltanto un altro calciatore con quel tipo di problema, Julian Dicks. Non era più tornato quello di prima».
Prima dell’infortunio, era stato molte cose: l’uomo del popolo, figlio prediletto del sobborgo proletario di Toxteth, punito dalla UEFA per aver mostrato, dopo un gol in Coppa delle Coppe, una t-shirt a supporto dei portuali in sciopero per dei licenziamenti di massa; il vincitore di un riconoscimento della Uefa per aver convinto l’arbitro Gerald Ashby a non assegnare un rigore per un fallo inesistente di David Seaman ai suoi danni; il detentore di un record apparentemente imbattibile, con la tripletta segnata all’Arsenal in 4 minuti e 33 secondi (migliorato poi nel 2015 da Sadio Mané con la maglia del Southampton, tre gol in 2’56”).
Lo schianto con Myhre non provocò solamente la rottura del legamento crociato anteriore del suo ginocchio, ma ruppe anche qualcosa a livello psicologico. Quello che doveva essere il suo Mondiale, divenne il palcoscenico dell’esplosione di Michael Owen, compagno di squadra e futuro Pallone d’Oro. «Ero deluso perché stavo giocando bene, ero giovane. Mi svegliai dopo l’intervento con un buco nella mia gamba, ero convinto di essere un calciatore finito. Iniziai a piangere».
Con un infortunio alle spalle e i tabloid che iniziavano a pizzicarlo con il nomignolo di Spice Boy - definizione dispregiativa scaturita in parte dal suo presunto flirt con Emma Bunton e dal look sfoggiato insieme ai compagni in occasione della finale di Fa Cup del 1996 - la strada di Robbie si era messa in salita da un giorno all’altro.
«Se avessimo vinto quella partita - disse riferendosi al completo della finale del '96 - sarebbero diventati gli abiti più belli del mondo. Ma abbiamo perso e non è andata così. I calciatori sono sempre un po’ arroganti e sicuramente serve personalità per indossare quei vestiti. Non li scelsi io, ero soltanto un ragazzino, ma so chi lo fece e non ne dirò il nome».
Al rientro, nella stagione 1998-99, God doveva dimostrare a tutti di essere tornato ai livelli pre infortunio. Un carico di pressioni eccessivo, che lo portò a vivere i due mesi più difficili di tutta la sua carriera. Anche in quegli anni, per passare da goleador implacabile a volto degenere del calcio inglese il passo era brevissimo.
“Get up, you poof!”
Dopo una partenza a rilento (i primi gol arrivano solamente alla sesta di campionato, con la doppietta al Charlton in un 3-3) e all’ombra di Michael Owen, Fowler si riprende in autunno segnando una tripletta in casa dell’Aston Villa. Gerard Houllier, affiancato a Roy Evans in una bizzarra doppia gestione tecnica della squadra fino a novembre, e poi manager in solitaria per le dimissioni dell’allenatore che aveva lanciato proprio Fowler, lo mette spesso in competizione con Karl-Heinz Riedle. A metà gennaio arriva un’altra tripletta con il Southampton, match che lo proietta a quota 100 gol in Premier League e gli vale una bella fetta del rinnovo quinquennale con il club.
Poi arriva il 27 febbraio 1999, giorno in cui, incredibile a dirsi, su Stamford Bridge splende il sole. Chelsea e Liverpool sono pronte a darsi battaglia, senza avere la più pallida percezione di quello che sta per accadere tra Fowler e Graeme Le Saux. Il terzino dei Blues, sin dai primissimi anni della sua carriera, ha dovuto combattere alcune dicerie sulla sua presunta omosessualità: un pregiudizio nato da una vacanza con il compagno di squadra Ken Monkou. Le false voci corrono e Le Saux viene spesso accolto dai tifosi avversari con il coro Le Saux takes it up the arse, del quale è opportuno evitare la pur semplice traduzione.
«Quando ho sentito per la prima volta quel coro, ho capito che avrebbe reso la mia vita un inferno. Justin Fashanu aveva fatto coming out un anno prima. Nonostante la sua carriera fosse praticamente giunta al termine venne ridicolizzato per la sua confessione, fino ad arrivare al suicidio qualche anno più tardi», avrebbe poi raccontato Le Saux nella sua biografia. Dai tifosi ai calciatori il passo è breve: uno dei primi ad andarci giù duro è Paul Ince, compagno di squadra di Fowler al Liverpool, in una sfida del 1997.
Quando tocca a Robbie, Le Saux perde la testa. Dopo uno scontro in campo, l’attaccante dei Reds viene ammonito e urla al terzino: “Get up, you poof!”, traducibile con un “Alzati, checca!”. Le versioni delle due parti in causa, su quanto successo nei minuti seguenti, differiscono.
La mimica di Fowler lascia pochissimo spazio alle interpretazioni, così come la vendetta di Le Saux.
Le Saux sostiene di aver cercato di frenare gli insulti di Fowler appellandosi al fatto che sugli spalti ci fosse la sua famiglia. Nella ricostruzione del centravanti, questi avrebbe risposto all’affermazione: «Robbie, sono sposato», con: «Lo è anche Elton John».
Il difensore del Chelsea non vuole riprendere il match e viene ammonito per perdita di tempo. Una gomitata a palla lontana di Le Saux a Fowler chiude la questione in campo, scatenando il polverone sulle pagine dei tabloid e nei programmi sportivi. La Football Association apre un’inchiesta, i due si scambiano lettere di reciproche scuse decisamente poco convinte prima di ritrovarsi in Nazionale, convocati da Kevin Keegan per il match con la Polonia. Il commissario tecnico dichiara la pace, contravvenendo alla volontà di Le Saux.
«Voleva che ci fosse una riconciliazione pubblica davanti alla stampa, dissi immediatamente che non vi avrei preso parte se Robbie non si fosse scusato in privato con me. Si rifiutò, dicendo di non aver fatto nulla di sbagliato. Gli dissi che se avesse fatto quel tipo di scena a Soho, dove si trovano i club per gay a Londra, sarebbe stato picchiato e lasciato in strada. Non riuscì a resistere e mi rispose solamente che sapevo molto bene dove trovare i club…».
Il derby della discordia
A distanza di poco più di un anno dal derby dell’infortunio, Fowler torna protagonista in una sfida contro l’Everton, la squadra che aveva tifato durante la sua infanzia. «Alla gente piace raccontare la mia storia di giovane tifoso dell’Everton, ma il mio atteggiamento era totalmente cambiato una volta arrivato al Liverpool».
Il match si apre con un minuto di silenzio per il decennale della tragedia di Hillsborough, i Toffees passano in vantaggio immediatamente con un pezzo per collezionisti: sberla mancina di Olivier Dacourt da lontano e pallone sotto l’incrocio dei pali. Nell’Everton milita anche un giovane Marco Materazzi, che in area di rigore abbatte Paul Ince. Sul dischetto si presenta Robbie Fowler, che incrocia il sinistro, firma l’1-1 e va a festeggiare con un’esultanza passata alla storia.
Accusato dai tifosi dell’Everton di essere un cocainomane, Fowler si esibisce in mondovisione in una sniffata della linea di fondo.
La sua doppietta nel 3-2 finale passa in secondo piano, tutti parlano dell’ennesimo eccesso di un personaggio ormai incontrollabile. Stavolta, a differenza della lite con Le Saux, Robbie capisce immediatamente di aver passato il segno.
Mentre l’attaccante si scusa con un rapido comunicato, il suo allenatore, Gerard Houllier, va in sala stampa fornendo una versione inspiegabile dell’accaduto: secondo il francese, l’esultanza di Fowler sarebbe un omaggio a Rigobert Song, difensore camerunense arrivato dalla Salernitana, e alle esultanze buffe come le danze intorno alla bandierina e il gesto di mangiare l’erba.
Scrive Fowler sulla sua auto-biografia: «Se ne uscì davanti ai giornalisti con quella storia incredibile sul mangiare l’erba e sul fatto di Rigobert Song e dell’esultanza portata direttamente dall’Africa. Secondo Houllier, avevo visto quel gesto durante un allenamento per poi ripeterlo in una sorta di tributo». Un improbabile cerimoniale importato dal Metz, squadra in cui Song aveva militato. «Avrebbe avuto molto più senso se non fosse stato il 3 aprile ma il primo aprile», si legge sull’Independent.
Quando viene convocato dalla Football Association, con due inchieste pronte a fondersi in una sola udienza e una multa di 32.000 sterline già inflitta dalla dirigenza del Liverpool per l’esultanza contro l’Everton, Fowler è un dead man walking. Decide di non appellarsi all’ulteriore sanzione di 32.000 sterline imposta dalla F.A. e alle sei giornate di squalifica: due per il diverbio con Le Saux, quattro per lo show nel derby.
Da lì a due giorni finisce in una rissa dai contorni nebulosi in un albergo del centro di Liverpool, il Moat House Hotel. Non viene arrestato ma ne esce con il naso rotto e alcune lesioni sul viso.
L’epilogo
Nonostante tutti i problemi in campo e fuori, la stagione 1998-99 di Robbie Fowler è l’ultima in grado di richiamare parzialmente i fasti dei primi anni della sua carriera, con 14 gol in Premier League. Dopo aver raggiunto la doppia cifra per cinque stagioni su sei (unica eccezione le 9 reti di un 1997-98 troncato dall’infortunio) e aver stregato l’Inghilterra, Fowler sembra travolto dall’eccessiva fama e condizionato dal pessimo rapporto con Houllier, oltre che dai tanti problemi fisici, pur riuscendo a marchiare a fuoco una delle finali europee più rocambolesche di sempre: il 5-4 contro l’Alaves di Cosmin Contra, Jordi Cruijff e un indiavolato Javi Moreno. Una Coppa Uefa vinta anche grazie al suo gol, per il momentaneo 4-3.
Il Liverpool, per Fowler, ha significato molto, forse tutto. Da tifoso, era a Istanbul nella notte della clamorosa rimonta contro il Milan. E proprio da tifoso ha ragionato quando, nel gennaio 2006, è tornato ai Reds durante la sua fase calante, quasi a voler riassaporare l’innocenza dei primi anni.
«Non ero pronto per tutta la fama e l’attenzione che ho ricevuto quando sono esploso con la maglia del Liverpool. […] Io volevo solamente scendere in campo e giocare a calcio, non ero preparato per essere un modello da seguire. Ho fatto delle cose stupide. Solamente con il passare degli anni capisci di essere un esempio, che a te piaccia o meno. Non ho mai capito fino in fondo questo lato dello sport». Nella visione di Fowler, l’infortunio ha inciso sulla sua carriera: «Probabilmente mi ha cambiato, anche se come calciatore devo accettarlo. Sono stato uno dei giocatori più sfortunati per quanto riguarda infortuni e operazioni. Potevo diventare uno dei più forti al mondo, nell’estate del 1998 c’era il Mondiale, oppure no. Non puoi stare troppo tempo a pensarci».
Contro ogni pronostico, il centravanti bizzoso è diventato un imprenditore di successo. Molti sportivi tornano sulle prime pagine dopo essere finiti sul lastrico, Fowler ha saputo creare un impero immobiliare, mentre alcuni lo accusavano di essere andato a giocare in Australia e Thailandia a fine carriera solo per soldi: i tifosi del Manchester City, club in cui ha militato dal 2002 al 2005, talvolta intonano ancora il coro We all live in a Robbie Fowler home, sulla melodia dei Beatles: "We all live live in a yellow submarine".
Ingrassato e arricchito, ha aperto la Robbie Fowler Property Academy, per dare lezioni di mercato immobiliare anche a chi non può contare sulla ricchezza di base di uno stipendio da calciatore. Nessuno, in quei due mesi roventi del 1999, ci avrebbe scommesso una sterlina.