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I migliori dribblatori (2000-2020)
28 mag 2020
Abbiamo scelto i giocatori più imprendibili palla al piede degli ultimi vent'anni.
(articolo)
18 min
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Ok, questa categoria del “secolo brevissimo” avrebbe potuto includere venti o trenta nomi e sarebbero stati tutti meritevoli del loro posto come migliori dribblatori degli ultimi venti anni. Stavolta abbiamo privilegiato la varietà nello stile, scegliendo dieci giocatori che in modo diverso hanno segnato questi anni con i loro dribbling.

In generale i dribbling si possono dividere in due categorie: quelli fisici, in cui un giocatore sfrutta le proprie qualità atletiche, e quelli tecnici, in cui il dribbling è un’illusione, un rebus, per il difensore che lo subisce. E poi ci sono tutte le sfumature possibili tra questi due estremi. Abbiamo tenuto fuori grandi nomi (Denilson, a cui però abbiamo dedicato un articolo intero poco tempo fa, D’Alessandro, Ribery, Bale, Mahrez, Alexis Sanchez, Ilicic, Gomez, Iniesta, Zidane, Douglas Costa) e come sempre non è stato facile, ma i dieci che abbiamo scelto sono quelli che, secondo noi, hanno davvero segnato un’epoca con i loro dribbling.

Ronaldinho

Nessuno più di Ronaldinho ha saputo unire il calcio ballato brasiliano con le skills da PlayStation di questo secolo. Era Samba e hip hop insieme, lento e veloce. Negli anni migliori avevi bisogno del ralenti per capire i suoi dribbling, momenti metafisici in cui il tempo e lo spazio perdevano di senso. L’elastico - il dribbling con cui lo ricordiamo per eccellenza - è forse la sublimazione di questa doppia anima, un gesto che per funzionare andava fatto a mille all’ora, ma in cui allo stesso tempo il pallone doveva rimanere attaccato al piede per riuscire. E riusciva davvero bene solo a lui.

Guardare i video dei suoi dribbling oggi è quasi ridicolo, offensivo per chi è venuto dopo. Ronaldinho è stato il dribblatore più completo di ogni epoca: poteva saltare l’avversario allungandosi il pallone con uno strappo in quei primi passi velocissimi o muovendo un sopracciglio nella maniera giusta come un'onda. Ha umiliato i migliori difensori al mondo, perché semplicemente non c’era un modo per fermarlo, non esisteva un pattern per provare a contenerlo. Come esempio potete guardare la partita contro il Real Madrid nel 2005: un’intera squadra che prova a fermarlo senza riuscirci. In un momento di cambiamenti nel mondo del calcio, Ronaldinho ha dimostrato che poteva esistere una versione di Denilson efficiente. Che un giocoliere poteva essere il miglior giocatore al mondo, perché avere il gusto per il dribbling, per la giocata non era un limite, ma il modo in cui rompere difese sempre più organizzate. Per alcuni anni - forse troppo pochi - Ronaldinho è stato il migliore in tutto quello che fa stropicciare gli occhi ai tifosi e i suoi dribbling rimangono una delle cose più belle che si possono guardare su un campo da calcio ancora oggi.


Arjen Robben

Quando parliamo di Arjen Robben dobbiamo parlare anche di Franck Ribery, i due giocatori che hanno dominato il nostro immaginario nel ruolo delle ali a piede invertito. Per anni hanno rappresentato l’unica fonte creativa di una squadra altrimenti sobria se non scolastica come il Bayern Monaco. Le differenze stilistiche tra i dribbling di Robben e quelli di Ribery sono interessanti da discutere in un pezzo come questo, in cui vogliamo scendere a fondo nei dettagli dell’arte del dribbling.

Ribery ha affinato la sua arte del dribbling per strada, per questo è formidabile soprattutto nello stretto. È più creativo e imprevedibile di Robben, converge verso il centro con meno insistenza, amando spesso venire a ricevere nel mezzo spazio di sinistra.

L’olandese invece ha uno stile più meccanico. Ma è stato forse il giocatore più in grado di elevare la meccanicità del dribbling a una forma d’arte. La sua efficacia, davvero devastante nel prime della carriera, è ciò che ce lo ha fatto preferire in questa classifica.

Robben si estraniava spesso dal gioco per andare a ricevere largo, con i piedi fino alla linea laterale. Da lì poi partiva sul suo solito binario diagonale che lo portava a concludere a giro sul secondo palo. Un’azione sempre prevedibile eppure mai fermata. Robben spingeva i suoi marcatori fino a una condizione cognitiva particolare: sapevano cosa aspettarsi, ma Robben era in grado di capire i più precipitosi per punirli rientrando sul destro. In più a contare nel suo dribbling non era il cosa avrebbe fatto ma il come. I marcatori sapevano della sua corsa da destra verso il centro, ma Robben la eseguiva a una velocità e con una precisione tale che non riuscivano comunque ad arginarlo. Di Robben si sottolinea la sensibilità del suo esterno sinistro in conduzione, e anche giustamente, ma si dimenticano spesso le sue eccezionali qualità fisiche. Robben era veloce, pur non avendo una corsa esplosiva e potente: la sua corsa, leggera, aerea aveva qualcosa di anacronistico. Quando Robben correva tra le maglie dei difensori sembrava stare a due metri da terra, come se beneficiasse di leggi della fisica diverse dagli altri. La stessa leggerezza impossibile che esprimeva nella corsa, è forse la stessa che lo ha reso così fragile e prono agli infortuni negli ultimi anni.

Un connubio di forza e fragilità tipico di altri talenti della nostra epoca (Bale, Ronaldo, Pato), ma che per Robben ha avuto un’ulteriore patina romantica.


Cristiano Ronaldo

Ormai associamo in maniera così forte l’immagine di Cristiano Ronaldo a quella della macchina efficientissima da esserci quasi dimenticati che la sua carriera era nata sotto il segno dell’inefficacia, dello sfarzo inutile.

Il 7 che porta sulle spalle, entratogli quasi sotto pelle, è il ricordo dell’epoca in cui Ronaldo giocava ala destra e la sua presenza in campo era giustificata soprattutto dalla capacità di saltare l’uomo. Doveva ancora convertirsi alla religione del gol, per certi versi simile a quella capitalistica del profitto, e le sue partite erano piene di ricami inutili e senza senso. Ronaldo però non era Denilson e la sua tecnica e la sua capacità di saltare l’uomo erano così sbalorditive che gli permettevano di essere il cardine anche di una delle squadre più efficientiste della storia, cioè lo United di Ferguson. Per il giovane Ronaldo, ricorda Boloni, l’allenatore che lo lanciò allo Sporting Lisbona, «La cosa più importante era dribblare, non concepiva il calcio senza. Io gli dicevo che dribblare un difensore poteva essere importante, anche due, ma cinque erano troppi!».

Se siete in fissa con Cristiano Ronaldo scommetto che avrete 20 minuti da dedicare al video sopra, che vi mostra il periodo in cui scendeva sulle fasce attraverso continui assoli di finte e doppi passi. Aveva la genetica del dribblatore: la frequenza di passo, l’elasticità muscolare, la reattività nel breve, ma anche la creatività. Ronaldo viveva per superare l’avversario, e lo si vede bene in particolare all’inizio del video, quando gioca contro il Benfica e si lascia caricare dai fischi che lo accompagnano a ogni tocco di palla. Oggi pensiamo a Ronaldo come a una persona che vive in funzione del gol: nel video vediamo invece un ragazzo che vive in funzione del dribbling.

Su Whoscored i dati risalgono fino al 2009/10, quando Ronaldo si era già trasformato in una punta e aveva ridotto i suoi volumi di dribbling. Eppure la diminuzione che notiamo nel numero di tentativi totali è progressiva, a parte qualche eccezione. Dovremmo però ricordarci di quando Ronaldo in dribbling era semplicemente imprendibile.


Adama Traoré

Guardiola ha definito il dribbling “un trucco”, qualcosa che quindi rimane per lo più invisibile, ma il talento di Adama Traoré è tutto visibile nei suoi nei suoi quadricipiti sovradimensionati, nelle spalle e nelle braccia da body builder. Traoré è il contrario della nostra idea di dribblatore leggero come l’aria e sottile come un fuscello (Robinho, Neymar). Ma di loro ha quasi la stessa sensibilità nel tocco palla. Rappresenta una congiunzione quasi irreplicabile, direi fantascientifica, di doti fisiche e tecniche. Ha meno motivi di altri per stare in questa lista. Finora ha giocato in contesti relativamente minori (con lo sforzo di considerare minore una squadra che gioca in Europa e in Premier come il Wolverhampton) e sono solo un paio di stagioni che si sta esprimendo al massimo. In particolare quest’anno, però, Traoré è stato una furia. Oggi, fra i cinque campionati europei, Traoré è il giocatore con più dribbling riusciti: 145, 6.3 ogni 90 minuti, più di campioni indiscussi della categoria come Messi e Neymar. Contro il Watford ha stabilito il record di maggior numero di dribbling in una singola partita di Premier da quando si raccolgono le statistiche, 15.

Per dribblare Traoré usa soprattutto la sua esplosività nei primi passi, ma anche nello stretto è tremendamente efficace. D’altronde senza questa abilità sarebbe un giocatore normale, se non mediocre. Traoré, insomma, è un autentico specialista.

Oggi i giocatori abili a saltare l’uomo sono rari e sempre più ricercati, ed è per questo che potrebbe trovare spazio nel futuro prossimo anche in una squadra di alto livello, pur con tutti i limiti che il suo stile eccentrico si porta dietro.


Neymar

C’è stato un momento nella carriera di Neymar in cui sembrava potesse davvero coniugare l’arte del calcio ballato brasiliano di Ronaldinho con la verticalità e l’efficacia di Kaká. Una capacità di eludere gli avversari che si ispirava a Robinho ma che sembrava potesse inclinare le partite anche nel calcio d’élite, e che è arrivata al suo apice nella grande prestazione con la maglia del Barcellona contro il PSG nella leggendaria rimonta per 6-1 negli ottavi di finale di Champions League del 2017. Dopo quella partita Emanuele Atturo scriveva: «Ieri Neymar ha toccato molti più palloni di Messi: 109 tocchi, contro i 68 dell’argentino. Ma Neymar ha anche realizzato 3 dribbling in più, 2 tiri in più, 2 passaggi decisivi in più. Per tutto questo, ma anche per un’impressione più generale – come il fatto che gli ha lasciato battere il rigore del 5 a 1 – la partita di ieri è stata interpretata come un passaggio di consegne, come leader tecnico del Barcellona, da Messi a Neymar».

A oltre tre anni da quella partita quell’impressione è del tutto svanita: Neymar si è chiuso nella prigione dorata del PSG e a livello internazionale non ha mai raggiunto nemmeno lontanamente momenti di brillantezza simile. Nella Ligue 1 sembra costantemente un adulto che si diverte a dribblare 11 bambini per pura ostentazione di superiorità, come se il dribbling fosse diventato ormai un fine e non più un mezzo. In questo senso, il suo trasferimento in Francia ha forse rafforzato ancora di più la sua posizione in questa classifica: da quando è al PSG, infatti, Neymar è costantemente sul podio dei maggiori dribblatori dei cinque principali campionati europei. Quest’anno, ad esempio, tra i giocatori con almeno 760 minuti di gioco, è secondo per dribbling riusciti per 90 minuti dietro al solo Adama Traoré (6.3) e primo per dribbling tentati (10.1). Le sue compilation di dribbling da quando è in Francia sono uno dei sottogeneri più divertenti di YouTube: una sequela infinita di tunnel di suola, cambi di passo d’esterno e soprattutto pause e ripartenze improvvise a lasciare sul posto il diretto marcatore sulla fascia sinistra, forse il movimento con cui più identifico il suo gioco d’elusione. Anche se forse non è diventato quello che in molti si aspettavano, Neymar rimane uno spettacolo a sé stante quasi unico all’interno del panorama calcistico europeo che, mettendo da parte pregiudizi e antipatie, ti riappacifica con la gioia di giocare a calcio. O meglio, con la gioia di giocare con il pallone.


Lionel Messi

Se il dribbling di per sé è qualcosa di difficilmente definibile, se non nei casi più evidenti, con Messi diventa proprio un enigma. Il suo gioco manca quasi del tutto di finte di corpo, doppi passi, pause. In definitiva manca di illusione e apparentemente è del tutto trasparente: Messi semplicemente prende il pallone e va verso la porta eludendo gli avversari, senza che questi riescano nemmeno a toccarlo - forse la dimostrazione più evidente della sua superiorità rispetto al resto del mondo, come ha notato giustamente anche Daniele V. Morrone nel suo pezzo sul famoso gol al Bernabeu nel Clasico di Champions League del 2011.

Si potrebbe parlare del baricentro basso o della forza nelle gambe sui primi passi ma il prestigio inestricabile del dribbling di Messi sta soprattutto nella differenza tra la frequenza di corsa e la frequenza con cui tocca il pallone, entrambe regolari ma a un ritmo diverso. Come un batterista che va a due tempi diversi, ma contemporaneamente. È questo che crea l’illusione senza illusione dei suoi dribbling: vanno seguite le gambe o il pallone? Ha senso seguire il pallone senza le gambe? Non esiste una risposta razionale a queste domande e l’unico modo che hanno trovato le squadre per arginare Messi quando ha il pallone tra i piedi è quello di non farlo girare verso la porta. Perché questo basta per inclinare il piano che lo porterà verso la porta, ad arrivare fino a un centimetro dal portiere e poi a superarlo con quello scavino di mezzo esterno che riesce a fare solo lui e che fa sembrare il suo sinistro composto da una materia diversa dalla carne e dalle ossa di tutti noi, o con un tiro a giro sul palo più lontano - sempre uguale e sempre perfetto.

Tutti i dribbling di Messi sembrano assurdi e assolutamente essenziali al tempo stesso. Se ne potrebbero citare tanti, ma per me il più incredibile rimane quello realizzato contro l'Espanyol nella stagione 2016/17 poco prima del gol di Suarez (per onestà intellettuale la Liga avrebbe dovuto assegnare il gol a Messi, ma tant’è). Se si vede il replay, soprattutto, si noterà l’incredibile capacità di Messi di toccare il pallone sempre precisamente un attimo prima che i quattro difensori avversari che si frappongono tra lui e la porta prima che tiri riescano a intervenire. Più che dei giocatori in carne e ossa, sembrano degli spettri senza consistenza che si agitano intorno a lui senza nessuna possibilità materiale di toccare il pallone.


Eden Hazard

Madre natura sembra aver plasmato Hazard per scherzare gli avversari con i suoi dribbling. Baricentro basso, gambe forti, culo grande, Hazard potrebbe tranquillamente uscire con il pallone tra i piedi da un ingorgo in autostrada. Il belga è uno specialista nell’uso del dribbling non solo come arma offensiva, ma anche come modo per difendere il pallone. «Non dribbla per far impazzire il suo avversario diretto (come Neymar) né sempre e comunque per lanciarsi verso la porta (come Mbappé) o per crossare/tirare una volta rientrato (come Douglas Costa). Molti dei suoi dribbling possono essere considerati dribbling difensivi» così scriveva Daniele Manusia dopo che Hazard aveva completato 9 dribbling su 9 nei quarti di finale del Mondiale 2018 contro il Brasile. In quella competizione Hazard riusciva in 7 dribbling ogni 90 minuti, più di Messi e Mbappé.

Ovviamente non basta avere il fisico delle incudini dei cartoni di Willy il coyote per essere un ottimo dribblatore. Hazard ha una sensibilità fuori dal comune che gli permette di manipolare gli avversari con i suoi tocchi d’interno e di esterno, oltre a un repertorio di finte e controfinte eseguite nello spazio di pochi centesimi di secondo. Non a caso i video dei suoi dribbling usano spesso l’aggettivo umiliante, perché certo ogni dribbling è umiliante, ma alcuni lo sono di più, come potrebbero raccontarvi i giocatori dell’Arsenal.


Hatem Ben Arfa

Hatem Ben Arfa è uno dei migliori dribblatori della storia del calcio, che ha avuto la fortuna di giocare in un’epoca in cui le imprese di quelli come lui vengono eternizzate da YouTube, ma anche la sfortuna di raggiungere pochi traguardi oltre ad avere compilation di video su YouTube in cui si dice che è uno dei migliori dribblatori della storia del calcio. Che lo sia è fuori dal dubbio, pochissimi altri giocatori hanno, oppure hanno avuto, il suo controllo tecnico e la sua velocità palla al piede, insieme alla sua imprevedibilità. Ben Arfa gioca (o giocava?) davvero provando a prendere palla, smarcare tutti gli avversari e fare gol. E ogni tanto ci è anche riuscito, in un calcio in cui non basta andare dritto e prendere sul tempo due difensori con l’agilità di una credenza piena di piatti per poter dire di aver fatto «tutto da solo». Le linee che lascia sul campo Ben Arfa sono spezzate, i suoi disegni sono pieni di ripensamenti, di cambi di direzione. I giocatori che salta sono polverizzati sul posto, diventano impalpabili, fatti d’aria, dei fantasmi, mentre il solo essere vivente, di carne e sangue, è Ben Arfa stesso, che oltre al talento del dribblatore aveva anche il desiderio di fare gol (non come Denilson, insomma).

Hatem Ben Arfa sembra tenere la palla in mano mentre corre in mezzo agli avversari. Se il campo da calcio fosse grande due terzi di quello che è, se ci fossero dentro la metà delle persone, Ben Arfa sarebbe uno dei due o tre più forti al mondo. Nel calcio per come effettivamente si gioca, però, sappiamo che poter battere qualsiasi difensore nell’uno contro uno, e poi anche il secondo difensore dietro quello, può comunque non essere abbastanza. Non sempre almeno. Ma non è il caso, qui, di parlare dei problemi di Ben Arfa a relazionarsi con il resto della squadra (o, più in generale, con le persone). Va ricordato piuttosto come sia ancora oggi - che è di proprietà del Valladolid il cui presidente, Ronaldo il Fenomeno, ha voluto scommettere su di lui, se non fosse che il Covid 19 non gli ha permesso di esordire - uno dei giocatori professionisti più vicini all’ideale infantile di calcio, al calcio «di strada», come si dice con un po’ retorica nostalgia. Se negli ultimi anni è sembrato persino triste della sua vita da professionista, in campo Ben Arfa è un inno alla gioia di avere la palla tra i piedi. Ibrahimovic da giovane si guadagnava qualche soldo con i ragazzi più grandi sfidandoli a togliergli la palla: se questo fosse un lavoro serio Ben Arfa (che invece da ragazzino era già inserito nel circuito per professionisti francese) sarebbe milionario. Probabilmente, anzi, nessuno sarebbe ancora riuscito a togliergli la palla, se il calcio fosse un’arte marziale con tanto di cinture, fatta di duelli individuali palla al piede, sarebbe ancora imbattuto. Ben Arfa è il Pallone d’Oro di un calcio che non esiste, che andrebbe giocato uno contro uno nei saloni vuoti di Versailles, con la parrucca e i gilet ricamati.


Ricardo Kaká

Nessuno come Kaká ha reso tangibile l’idea di un giocatore in grado di inclinare il piano di gioco, di correre nella metà campo offensiva come se fosse in discesa. Nel caso di Kaká, a dir la verità, il campo si piegava verso la porta avversaria anche se prendeva palla al limite della propria area. Parliamo di un numero dieci (anche se giocava con il 22 o con l’8, di solito) di un metro e ottantacinque, con un passo più lungo di quasi tutti gli altri giocatori in campo e in grado di mangiarsi letteralmente trequarti di campo in pochi secondi. Kaká era velocissimo per quanto era alto e aveva un controllo sulla palla semplicemente fuori dal mondo, sembrava calcolare esattamente quanti metri aveva a disposizione prima dell’arrivo del difensore più vicino e la palla si allontanava da lui esattamente quanto serviva. Il controllo di Kaká e la sua velocità erano tali che non sembrava fosse lui a raggiungere la palla quanto quella a tornargli sui piedi come se fosse stata legata a un elastico.

https://twitter.com/SkySport/status/1258121905254653959

Il primo tocco di Kaká, quello che metteva tutto in moto, era la scintilla del suo genio. Il resto era gestione. Ma il modo in cui si preparava con il corpo all’arrivo della palla e poi se l’allungava nello spazio aveva del soprannaturale: se era così facile, perché solo lui ci riusciva? Poi ovviamente c’erano le frenate, i tocchi nello stretto, e una notte a Old Trafford persino un dribbling di testa che ha fatto scontrare Heinze ed Evra come due carrelli della spesa lanciati l’uno contro l’altro nel parcheggio di un supermercato. Per Kaká il calcio era una corsa a ostacoli, solo che gli ostacoli potevano muoversi (appena appena, in confronto a lui). Ovviamente stiamo parlando del meglio che Kaká sapeva realizzare in campo, non che gli riuscisse ogni singola volta che voleva. Ma evidentemente è stato sufficiente a farlo ricordare come uno dei migliori giocatori del calcio moderno.


Luis Figo

Ricordiamo l’ultimo Figo con la maglia dell’Inter, diventato quasi una mezzala. Un centrocampista che giocava da fermo usando la sua visione di gioco e la sensibilità del suo destro. Abbiamo forse in parte dimenticato quando Figo era l’ala destra più forte al mondo, con la maglia prima del Barcellona e poi del Real Madrid. In realtà, a un primo sguardo, non era un giocatore troppo diverso. Sin da ragazzo Figo sembrava un uomo dall’aria navigata, e il suo corpo pareva riflettere questa maturità. Non era esplosivo ed elettrico come le migliori ali, sembrava muoversi sempre con grande stanchezza, eppure non riuscivano a prenderlo.

Come altri grandi dribblatori lenti come Ilicic o Riquelme, Figo usava soprattutto la tecnica e l’elusività per superare gli avversari. Non era lento come i giocatori citati, soprattutto in allungo nei primi anni di carriera aveva una velocità notevole, ma i primi passi erano sempre faticosi e rendevano inspiegabili i suoi dribbling. La compilation che vedete sopra è piena di situazioni in cui Figo supera l’uomo proprio nel momento in cui ci aspettiamo perda palla.

La sua finta preferita quando giocava a sinistra era la gambeta, la più minimale e classica delle finte. Quando era a destra invece era formidabile nel cambio di passo lungolinea, portandosela avanti con l’esterno dopo una leggera esitazione. Oppure approfittava del fatto che i difensori si aspettassero quella decisione per sterzare all’improvviso verso l’interno del campo. Aveva un’eleganza anti-agonistica davvero rara nei calciatori. Oggi che indossa sempre giacca e cravatta sembra più naturale di quando in maglietta e calzoncini giocava sulla fascia.

Intervistato sul dribbling il portoghese ha definito il dribbling una qualità naturale, non allenabile.

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