Lunedì, con una conferenza stampa a New York, i presidenti della federazione statunitense, messicana e canadese hanno presentato ufficialmente una candidatura congiunta per ospitare i Mondiali del 2026 in tutto il continente nordamericano. Sarà un’edizione storica: la prima con il nuovo formato a 48 squadre e, se la candidatura andrà a buon fine, la prima ospitata da più di due paesi (l’unico Mondiale ospitato da più paesi per adesso rimane quello nippo-coreano del 2002).
È un passo in avanti fondamentale per gli Stati Uniti nella sottile guerra fredda che ha intrapreso ormai da diversi anni con la Cina, nell’ambito molto specifico del soft power sportivo. La candidatura di Stati Uniti, Messico e Canada non ha avversari credibili (potrebbe presentarsi il Marocco, che però non ha ancora fatto sapere niente), il che le dà un vantaggio competitivo determinante, visto che la decisione finale verrà presa nel maggio del 2020 (anche se il comitato organizzatore ha chiesto di anticiparla addirittura a giugno del 2018, cioè praticamente tra un anno).
La mossa di associarsi con Messico e Canada è stata machiavellica. Dopo la bruciante sconfitta subita con l’assegnazione dei Mondiali del 2022 al Qatar, gli Stati Uniti, che spingevano per ospitare un Mondiale già dall’edizione 2018, hanno in questo modo “battuto” automaticamente quella che sembrava la minaccia principale alla propria candidatura, e cioè proprio il Canada. E il tutto ad un costo d’immagine decisamente contenuto, visto che delle 80 partite totali ben 60 si giocheranno negli Stati Uniti mentre solo 10 si disputeranno in Canada.
Associandosi con i suoi partner regionali, inoltre, gli Stati Uniti sono venuti incontro ai desideri di Gianni Infantino, eletto a presidente della FIFA con un programma che prevedeva proprio l’organizzazione di Mondiali regionali, sempre più necessari con l’allargamento dei partecipanti a 48 squadre, e con l’aumento consequenziale delle partite da giocare.
Quella che potrebbe diventare una grande vittoria per gli Stati Uniti potrebbe però trasformarsi in un fastidioso problema politico per il suo presidente, Donald Trump. Non è certo un segreto che i rapporti tra gli Stati Uniti e Canada, e soprattutto Messico, siano notevolmente peggiorati con l’insediamento del nuovo presidente repubblicano.
Il presidente del Messico, Enrique Peña Nieto, ha cancellato una visita ufficiale a Washington nemmeno tre mesi fa, dopo che Trump aveva firmato un ordine esecutivo che dava sostanza alla sua promessa elettorale di costruire un muro sul confine tra gli Stati Uniti e il Messico, che secondo il presidente statunitense viene usato dai messicani per mandare in America «droga, crimine e stupratori». Nel frattempo, mentre Trump impediva l’ingresso su suolo statunitense di cittadini di sei paesi musulmani diversi (Iran, Siria, Somalia, Yemen, Sudan e Libia), il Canada di Trudeau ha cercato di presentarsi come modello d’accoglienza alternativo.
In un momento in cui Trump vuole presentarsi come uomo politico forte in grado di realizzare le sue promesse elettorali, soprattutto a scapito dell’internazionalismo economico e politico degli Stati Uniti, un Mondiale congiunto con Canada e Messico non è proprio coerente con questo tipo di messaggio. In questo senso, non bisogna nemmeno sottovalutare la vicinanza simbolica di un progetto simile al NAFTA, il trattato di libero scambio firmato da Bill Clinton nel 1994 proprio con Canada e Messico, che è stato ripetutamente individuato da Trump come origine del declino economico americano nell’ultima campagna elettorale.
Ma i problemi di Trump vanno molto oltre il semplice piano simbolico. Se è vero che l’organizzazione dei Mondiali del 2026 non toccherà direttamente l’amministrazione Trump, che al massimo vedrà il proprio tramonto nel 2024, è anche vero che l’eventuale annuncio della loro assegnazione avverrà in un momento cruciale di questo primo suo mandato: a metà del 2020, cioè nel pieno della campagna elettorale per la rielezione.
Infantino ha già fatto sapere esplicitamente che le 48 squadre finaliste, comprese di giocatori, dirigenti e staff, «dovranno poter entrare nel paese, altrimenti non ci sarà nessuna Coppa del Mondo». Questo vuol dire che il successo della candidatura ai Mondiali del 2026 passa inevitabilmente per il fallimento del cosiddetto muslim ban (a meno che non si qualificasse nessuno dei paesi interessati, un’eventualità molto improbabile vista l’inclusione dell’Iran e che comunque l’amministrazione Trump non farà in tempo a conoscere). Un progetto politico, se si può chiamare così, che ha già avuto diversi ostacoli all’interno degli stessi Stati Uniti, è vero, ma sarebbe ironico se la pietra tombale fosse rappresentata da un Mondiale di calcio, uno sport che in America rimane comunque secondario.
Se ciò non bastasse, il Messico ha già fatto sapere di voler ospitare la cerimonia di inaugurazione, per compensare il fatto che il paese latinoamericano ospiterà soltanto 10 delle 80 partite totali (e nemmeno tra le più importanti, visto che tutte le partite dai quarti di finale in poi si terranno negli Stati Uniti). Una cerimonia di inaugurazione che, tra l’altro, il Messico sente molto visto che nel 2026 si festeggerà il quarantesimo anniversario dello storico Mondiale messicano del 1986.
L’ironia della situazione potrebbe portare Trump a dover festeggiare in campagna elettorale per l’assegnazione di un torneo plurinazionale, con il suo evento più mediatico e celebrativo che potrebbe tenersi in Messico, e che lo costringerebbe a rinunciare a parte delle proprie promesse elettorali.
Non bisogna stupirsi quindi che Trump lunedì non abbia proprio festeggiato e che anzi abbia accolto l’annuncio della sua stessa federazione con grossa freddezza. Sui suoi profili Twitter, su cui si può trovare un suo commento praticamente su qualsiasi cosa, non si fa mai riferimento alla conferenza stampa di lunedì. E l’agenzia di stampa AP, che ha chiesto specificamente un commento alla Casa Bianca sulla questione, non ha ricevuto risposta.
Il presidente della federazione statunitense, Sunil Gulati, durante la conferenza di presentazione della candidatura, ha inizialmente dichiarato che Trump «appoggia pienamente la candidatura congiunta, l’ha incoraggiata, ed è specialmente compiaciuto del fatto che il Messico ne faccia parte». Incalzato dai giornalisti sulla questione, forse incuriositi dall’assurdità di quest’ultima frase, Gulati è stato però costretto ad ammettere di non aver parlato direttamente con Trump: «Non parlo al telefono col presidente o ceno con lui, ma sa cosa vogliamo fare».
Forse non rendendosi conto dell’ambiguità delle sue parole nel contesto politico attuale, Gulati nella stessa conferenza stampa ha anche dichiarato: «Con quello che sta accadendo in questi giorni nel mondo, crediamo che questa candidatura possa essere un segnale e un simbolo enormemente positivo di cosa possiamo fare unendo le persone, in special modo nei nostri tre paesi». Forse non tutti alla Casa Bianca la pensano allo stesso modo.