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I re saltatori
02 ott 2015
La storia di Sergey Bubka, Jonathan Edwards, Mike Powell e Javier Sotomayor, mai spodestati dalle loro fortezze dell'aria.
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14 min
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Questa è la storia di quattro re saltatori che da due decenni attendono che qualcuno li spodesti dalle loro fortezze dell’aria e finalmente li consegni al mito, senza più il peso della cronaca, senza più dover essere metro di paragone per generazioni di atleti di belle speranze. Parliamo di Javier Sotomayor (salto in alto), Mike Powell (salto in lungo), Jonathan Edwards (salto triplo) e Sergey Bubka (salto con l’asta).

Zar di un impero in disfacimento

C’è una foto sul sito personale di Sergey Bubka che dice tutto. Lo zar stringe con calore le mani del suo allievo migliore e del suo sfidante più accreditato: Bubka rende omaggio a Renaud Lavillenie nel giorno in cui il regicidio si è compiuto. L’astista francese ha scelto il palasport di Donetsk per alzare di un centimetro i cancelli del cielo e volare a 6.16 metri. Record mondiale, per di più al chiuso. Si tratta della misura migliore mai realizzata da un uomo dotato di asta flessibile, per di più realizzata nella casa dello zar, proprio lo stesso palazzo in cui il mito è nato.

I sorrisi sono calorosi, le strette di mano sincere. Bubka è dirigente del CIO e sa che nessuno scalfirà il suo mito, fatto di sei Mondiali vinti consecutivamente e di 43 salti oltre la soglia dei 6 metri. Il suo record mondiale di 6.14 all’aperto non appare superabile ancora da nessuno. Sembra felice di aver trovato un erede degno in quella specialità che è stata tutta la sua vita e che lui stesso ha portato in un altro millennio ben prima del calendario. Renaud Lavillenie è gioia pura, riceve la sua corona direttamente a casa del re.

Eppure qualcosa si rompe, e quella foto così serena è destinata a rimanere un momento unico e irripetibile. Renaud Lavillenie non riesce a ripetersi, domina ma non vola e fallisce anche a Pechino l’assalto all’iride. Per lui quattro medaglie mondiali e nessuna d’oro. Eppure il canadese Barber vince con una misura piuttosto misera: un 5.90 che dovrebbe impallidire al cospetto di colui che ha cancellato lo zar in casa sua,

Renaud sembra avere un problema con l’aria aperta, nel 2015 a Eugene stabilisce il suo record personale, ma è “solo” 6.05, una quota che Bubka ha saltato nel 1988 e che per l’ucraino rappresenta appena la decima miglior prestazione in carriera. È come se vedendo il cielo l’astista francese si sentisse oppresso.

Il re del salto con l’asta rimane Sergey Bubka, anche senza più una casa, visto che la sua Donetsk è sconvolta dall’aprile del 2014 da una guerra civile. Il palazzo in cui fu scattata la foto che doveva inaugurare il nuovo regno di Renaud non accoglie più atleti, ma è in balia delle bombe.

Sergey Nazarovic Bubka nasce sovietico a Lugansk il 4 dicembre 1963. Inizia a saltare all’età di nove anni. Il suo allenatore è un certo Vitaliy Petrov, che poi sarà allenatore anche di Yelena Isinbayeva e del nostro Giuseppe Gibilisco. Un uomo da cinque ori mondiali e due titoli olimpici. A quindici anni Sergey è fuori di casa, si trasferisce definitivamente a Donetsk e a diciannove è già campione del mondo, a Helsinki con la misura di 5.70. Il suo regno ha inizio così e si concluderà soltanto nel 2001, con una giornata di salti con gli amici di una vita nel palazzo di Donetsk, quello del regicidio di Lavillenie, quello che non esiste più.

Nel mezzo ci sono 6 titoli mondiali consecutivi, 43 salti oltre i sei metri e 35 miglioramenti del record mondiale. L’ultimo, quello che resiste ancora oggi, realizzato al meeting del Sestriere, in un sonnacchioso pomeriggio di fine luglio del 1994. Bubka non si è mai fatto problemi ad alzare l’asticella anche su pedane secondarie, i suoi record si consumano un centimetro alla volta, quando c’è un premio da guadagnare lui aggiorna il libro dei record. C’è chi lo ha accusato di essere più interessato ai soldi che ad abbattere i confini, lui ha sempre risposto saltando e incassando. Parliamo pur sempre di uno zar figlio di un impero in disfacimento.

Le sue bandiere hanno sventolato più in alto di tutte per vent’anni: Bubka ha fatto la gioia prima dell’URSS, poi della CSI e infine dell’Ucraina, il suo paese. Ha vissuto l’ultima grande stagione dell’impero di madre Russia, il caos dell’implosione e la travagliata nascita della nuova Repubblica. Figlio di un paese enorme nel quale «non dovevamo preoccuparci, i ruoli erano chiari, la filosofia dello sport anche. Quando siamo passati sotto la bandiera delle Repubbliche indipendenti tutto è cambiato, non si capiva più niente, non si sapeva a chi bisognasse dare retta, ognuno aveva i suoi programmi, le sue gerarchie. È stato il momento peggiore, quello più incerto, più difficile per chi è atleta e ha bisogno di calma e sicurezza».

Dal 1983 al 1993 nessuno è capace di batterlo a un Mondiale. Bubka è il primo uomo sopra i 6 metri ed è il 1985, seguiranno altri 42 voli. Dopo di lui ce la faranno soltanto in diciotto, il primo dei quali, Rodion Gataullin, ci arriva nel 1989, il secondo addirittura sarà il sudafricano Okkert Brits dieci anni dopo. Nel frattempo Bubka è su un altro pianeta. D’altronde non si viene soprannominati Sputnik, Terminator e Re dei cieli senza un motivo. Il suo regno ha solo un buco, durato sei minuti, anno secondo dell’impero: estate romana 1984, fine agosto. Il francese Thierry Vigneron, capelli lunghi e biondi salta 5.91 metri e si prende il record. Il suo regno dura circa 360 secondi, dopodiché lo zar sposta le stelle a 5.94 e si riprende il cielo.

Sergey Bubka, finché è rimasto sulla pedana, è stato un alieno per i suoi avversari: correva i 100 metri in 10’’3 e saltava 8 metri nel lungo. Ha vinto il Mondiale di Tokyo nel ’93 con un’infiltrazione alla caviglia. Solo alle Olimpiadi ha ottenuto meno del dovuto: una vittoria appena, a Seul nel 1988, con 5.90 all’ultimo tentativo, quando il rischio era di essere eliminato e umiliato.

Nel nome del Padre

Niente salti nel giorno del Signore. Per anni Jonathan Edwards campione di salto triplo londinese, figlio di un pastore della Chiesa anglicana, non ha partecipato a competizioni che si svolgessero di domenica, in ossequio a un antico precetto del protestantesimo che trasferisce ai fedeli cristiani le stesse imposizioni del sabato di riposo ebraico. Per questo motivo Edwards perdette il treno che lo avrebbe portato al Mondiale del 1991. Come è scritto nel libro dell’Esodo, nel giorno di domenica è vietata ogni forma di lavoro, e quindi anche l'attività sportiva professionale. Quella stessa convinzione aveva segnato la carriera dell’olimpionico britannico sui 400 metri piani Eric Liddell, reso immortale dal film Momenti di gloria.

Il suo momento di gloria Jonathan lo vivrà quattro anni dopo in Svezia, quando ritoccherà il primato mondiale per tre volte: la prima in luglio a Salamanca, con un 17.98 che superava di un solo centimetro il record dello statunitense Willie Banks, vecchio di dieci anni; la seconda sulla pista di Göteborg in un pomeriggio d’agosto tipicamente nordico, senza sole e con una leggera brezza alle spalle. Sarà prima un 18.16 che molti accoglieranno come un miracolo, e poi al salto successivo il colpo del fuoriclasse: 18 metri e 29 centimetri, un metro virgola tre di vento a favore. Perfetto per far decollare l’airone di Londra e farlo resistere in volo per venti anni.

Il vero capolavoro sarebbe in realtà a Lilla, durante una gara di Coppa Europa, questa sì di domenica, quando salterà 18.46 metri: un hop, step e jump che non si schioderà mai dal ricordo di chi lo ha visto. Edwards non atterra più, a un certo punto anche la buca di sabbia sembra non bastare a contenerlo. Purtroppo i 2.4 metri al secondo di vento a favore non consentono di eternare il momento.

Edwards pare imbattibile. Eppure, proprio alle Olimpiadi di Atlanta dell’anno successivo, l’americano Kenny Harrison piazzerà la seconda miglior prestazione della storia del salto triplo (fino ad allora) per strappargli dal collo un oro che sembrava scontato: 18.09. La delusione è grande, al punto che Jonathan pensa di aver perso il tocco. Però poi arriva il colpo di coda: l’oro alle Olimpiadi di Sydney 2000 e il titolo iridato a Edmonton dell’anno successivo. Le primavere sono ormai 35, i capelli parecchio brizzolati e le misure ben al di sotto dei 18 metri, ma la classe non scolora mai. Due vittorie con salti minori, ma che suggellano la straordinaria carriera di un fuoriclasse dell’atletica leggera.

I 18.09 di Kenny Harrison ad Atlanta sono rimasti imbattuti fino al mese scorso, a Pechino, quando Christian Taylor è atterrato ad una spanna dal record ventennale, facendo sbiancare Edwards in postazione di telecronaca della BBC.

Mai come oggi il record di salto triplo maschile appare battibile da una serie di atleti forti e molto giovani: sono in tre ben al di sotto dei trent’anni e con personali al di sopra dei 18 metri, pronti a prendersi il trono del re pallido. Il già citato Taylor che ha venticinque anni, il ventiseienne francese Teddy Tamgho e il ventiduenne cubano Pedro Pablo Pichardo. Edwards da qualche anno dice di sé: «Sono ateo. Sono diventato evoluzionista. Darwinista. Credo che la vita progredisca. Come potevo credere all'esistenza di un essere superiore che ha creato l'universo? Non c'è prova. Sono stupito dalla mia ingenuità, anzi dalla mia fesseria. Però mi perdono. Il mondo dello sport rimpicciolisce tutto».

Il figlio del popolo

Il figlio del vento lo batti solo per un soffio, mordendo l’aria. Così ha fatto Mike Powell decollando una notte a Tokyo nel 1991 e atterrando 8 metri, 95 centimetri e un millennio dopo. In quella sera il record di Bob Beamon a Città del Messico 1968 (8.90) venne infranto da una gara epica. La miglior del lungo dal giorno in cui l’uomo decise di saltare. In una sola notte furono cancellati non solo un primato che durava da 23 anni, ma pure i miti dell’altura e di un’Olimpiade che aveva segnato un’epoca, di un periodo storico in cui chi aveva la pelle nera doveva lottare per venire riconosciuto umano tanto quanto l’uomo bianco.

In quella sera di Tokyo c’erano solo due atleti splendidi al massimo della forma che si sfidavano con le proprie armi: salti come fossero pugni su un ring lungo 40 metri e largo 3. Sugli spalti un pubblico in religioso silenzio, commosso dalla grandezza di una sfida senza precedenti, con una serie di balzi oltre gli 8.80 metri, mai più eguagliati.

A vincerla però non fu Carl Lewis, imbattuto da 10 anni e 65 gare, il campione bello ed elegante, amato da tutte e tutti (con insinuazioni sui gusti sessuali annesse), tranne che dai suoi connazionali. Troppo raffinato, troppo bianco, troppo poco nero per un paese come gli Stati Uniti, che ammira i suoi atleti d’ebano, ma che li vuole al loro posto, a recitare la parte del campione fortissimo perché nero. Lewis invece era quello che volava solo in business class, che amava i cristalli Baccarat e il suo cane Ramsete, impegnato nel sociale e mai fotografato con una donna al fianco. Anzi, si fece fotografare in tacchi a spillo rossi per una campagna pubblicitaria, all’epoca molto celebre e molto chiacchierata.

Talmente poco nero Carl che un giorno il presidente Reagan incontrandolo gli disse: «Ho fatto tanto per voi». Lewis: «Per noi neri?». Reagan: «No, per voi ricchi». Lewis non piaceva ai suoi “fratelli”; i giocatori del Dream Team ne soffrivano la presenza alle Olimpiadi di Barcellona. Jesse Owens, che con Lewis condivide il record di quattro medaglie d’oro in una sola Olimpiade, disse di lui: «Non vorrei rimpiangere il fatto di avergli stretto la mano, in lui ho visto solo egoismo e arroganza». E lo era egoista e arrogante, Carl Lewis, come lo sono quasi tutti i fuoriclasse.

Ma quella sera a Tokyo vinse l’esatto opposto di Carl, il figlio del popolo, il ragazzo venuto dal basket, il folletto di Filadelfia. Non erano amici, Mike Powell e Lewis: «Lo siamo diventati dopo», ha detto Powell un paio di anni fa. Ora i due insieme cercano di insegnare agli americani a saltare, ma in quella sera erano in lotta totale: «All'epoca Carl era una leggenda vivente nella mia specialità, come potevo misurarmi con lui? Voglio dire, come si poteva avvicinarlo senza creare, anche involontariamente, un attrito? Se mi avvicinavo lui ruggiva, era pieno di sé e lo capivo».

Infatti Powell non si avvicinò a Lewis, saltò lontano. Talmente lontano da essere irraggiungibile: 8.95 con solo 0.8 metri al secondo di vento favorevole. Poco prima il figlio del vento si era “fermato” a 8.91, ma con un vento troppo forte: 2.9 m/s, per poter registrare il primato. Di lui resterà traccia grazie a uno stratosferico 8.87, terza misura di ogni epoca, a rendere l’idea di un duello in cui anche gli altri partecipanti alla finale scomparvero nel buio della notte di Tokyo. Con quel volo Powell ha sigillato un’epoca, chiudendola in una di quelle scatole che vengono seppellite per essere tramandate alle civiltà successive. Oggi non si vede nessuno all’orizzonte in grado non solo di superare, ma anche solo di eguagliare le misure di quei primi anni ’90.

«Avevo già pianificato tutto prima: nel 1992 avrei fatto 9,15 nel lungo e il record del mondo sui 200», disse Powell, ma non andò proprio così. Nessun nuovo record, niente atterraggio oltre i nove metri. Certo ci sarà il bis ai Mondiali di Stoccarda due anni dopo, ma lì Lewis non c’è. C’è invece a Barcellona, dove si riprende il gradino più alto del podio per tre centimetri. E così per Mike non ci sarà mai una gioia a cinque cerchi, ma solo due argenti dietro al dio in tacchi a spillo, che di Olimpiadi ne ha vinte quattro consecutivamente. L’ultima ad Atlanta, a 35 anni, di fronte alla sua gente che non lo aveva mai amato fino a quel giorno.

Lewis vince la quarta Olimpiade e trattiene a stento le lacrime sul podio.

La Revolucion di Sotomayor

Javier Sotomayor Sanabria da Limonar, classe 1967, oggi è un bel signore alto e in gran forma, con i riccioli color cioccolato sempre ingellati, il sorriso maliardo e gli occhiali da sole d’ordinanza. Venti anni fa era il più grande saltatore in alto in circolazione, e pure oggi. Se è vero come è vero che detiene sia il record all’aperto (2.45 a Salamanca 1993), che quello indoor (Budapest 1989, 2.43). Nessuno è arrivato a eguagliarlo, nonostante i tanti atleti fermati a un soffio da quel moloch.

Eppure Sotomayor nella sua carriera non ha vinto quanto avrebbe potuto, quanto le sue misure micidiali gli avrebbero consentito. Il salto in alto è una specialità con troppe variabili, basta pochissimo per trasformare la giornata perfetta in un disastro, o viceversa. Javier innanzitutto è cubano, il che vuol dire niente Olimpiadi di Los Angeles. Peccato, perché nel 1984, a 17 anni, lui saltava 2.33, record juniores e sicura medaglia nella rassegna a cinque cerchi. Ma pure niente Seul, per solidarietà con la Corea del Nord. A Barcellona ci va, finalmente, ed è oro con un 2.34 che non è niente di che se paragonato ai suoi standard, ma il suo percorso netto senza errori gli consente di mettere in fila tutti quanti. Tornerà sul podio di un’Olimpiade solo a Sydney 2000, dopo le brutte storie di doping che ancora lo addolorano.

Sotomayor spicca il salto vincente a Barcellona ’92.

Essere cubano per Javier, come per tutti gli altri atleti della Rivoluzione, significa andare a saltare ovunque per portare titoli e soldi alla causa, alla Patria, al lider maximo. «Ho dato il 50% di me stesso a Fidel, ma non mi pentirò mai di averlo fatto», ha detto recentemente in un’intervista a la Repubblica. Saltare tanto vuol dire stancarsi, programmare con difficoltà gli eventi importanti e rischiare di rompersi. Tutte cose accadute a Sotomayor, talento assoluto, fisico fatto per spiccare il volo.

Il record del mondo per Javier è una vera ossessione. «Ci penso ogni giorno, magari se lo prendesse qualcun altro… ma in fondo è una bella compagnia». Scherza spesso Sotomayor e non si perde un appuntamento mondano. Era anche a Pechino il mese scorso, a fremere per quel suo primato messo in discussione, a suo stesso dire, dagli aironi Barshim e Bondarenko. Gli unici che in questi ultimi anni si sono avvicinati al moloch. Ma non è stato il momento, nemmeno lontanamente, e lui se la rideva al fianco dell’altro alfiere della Rivoluzione cubana, il mitico Alberto Juantorena.

Proprio il campione olimpico su 400 e 800 metri a Montreal ’76 scatenò una battaglia legale in veste di presidente della federazione cubana contro la IAAF, che aveva squalificato Sotomayor per positività alla cocaina nel 1999. Dovevano essere ventiquattro mesi di stop, praticamente un addio per un atleta di 33 anni. L’intervento di Juantorena fece ridurre la squalifica a un anno, ufficialmente per “circostanze eccezionali”, cioè la sua carriera clamorosa e sempre pulita. Sotomayor poté tornare in tempo per l’ultima Olimpiade, Sydney 2000, e vincere l’argento. Meglio di lui solo il russo Kljugin.

Ci sarebbe anche la brutta storia della positività al nandrolone dell’anno successivo, che gli sarebbe costata la squalifica a vita, se non si fosse già ritirato prima. Sotomayor non ha mai chiarito ciò che è successo, ma ha sempre vissuto le storie di “droga” come dei colpi bassi, come l’asticella che si conficca nelle costole. Ricordargliele è l’unico modo per fargli perdere il sorriso.

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