Con internet a disposizione è facile sviluppare un feticismo, se non un vero e proprio amore, per calciatori che non abbiamo mai visto giocare, o di cui magari abbiamo un ricordo vago e indefinito. Non sempre YouTube a dire il vero ci può accontentare. Credo di essere pronto a commettere un reato per avere più video di Lamberto Zauli a disposizione. E se potessimo tornare indietro nel tempo la prima cosa che chiederei sarebbe che venga data una consistenza più concreta al passaggio di figure leggendarie come Matthias Sindelar, “l’uomo di carta velina”, o Alfredo Di Stefano, la “Saeta rubia”, con una sfacciata compilation di loro giocate su YouTube.
Per fortuna ci sono calciatori più vicini, che hanno lasciato più un numero maggiore di tracce sulle pellicole, e il cui culto è stato così grande che le loro gesta non potevano essere trascurate. Per questo, nelle ultime settimane ho sviluppato una piccola ossessione per Ian Wright. Devo ringraziare account Twitter arcani ma di grande eleganza, come Proper Football, le cui caption da pub mi stendono ogni volta; TheHighburyYears, per nostalgici "gunners"; o il più classico 90’s football. Ma devo ringraziare anche l’account personale di Ian Wright, che retwitta tutte le sue gesta tecniche con grande positività.
Certo ad appassionarmi non c’è solo lui e i suoi gol, piuttosto i video delle sue partite in generale, l’atmosfera che trasmettono. Video che tutti insieme sono un piccolo mausoleo dedicato alla Premier League degli anni ’90, e in particolare ad Highbury negli anni ’90. Le gradinate spioventi sul prato verdissimo, o invece rotto in grosse chiazze marroni vicino alla porta; la massa indistinta di tifosi che si alza in piedi con le braccia alte come gli omini dipinti del Subbuteo. Gli sponsor che raccontano di un’economia non ancora davvero globale: OCB, Lucozade, Ranham Steel, GOLA, Wilkinson Sword. La voce della telecronaca, un accento inglese purissimo, che esce dal video a stento, ovattata come se fosse stata registrata dentro una bottiglia vuota. Uno stile sempre flemmatico, di cui bisogna imparare ad apprezzare la precisione delle sfumature.
Ian Wright è nato nel 1963 a Wolwich, proprio dove sorge l’edificio in mattoncini rossi della Royal Arsenal, l’armeria da cui ha preso il nome la squadra che ha sullo stemma un cannone. Ha vissuto il picco della sua carriera con i “gunners”, tra il 1991 e il 1998, gli anni in cui è nato e si consolidato il mito della Cool Britannia.
Molti avranno presente l’immaginario a cui faccio riferimento. I dischi degli Elastica, gli occhiali grossi e i pantaloni a zampa di Jarvis Cocker, Tony Blair, Febbre a 90, le polo Fred Perry e Ben Sherman, i parka verdi, il video di Cigarettes&Alchool degli Oasis, il carnevale di Notting Hill, l’esultanza di Alan Shearer con il braccio alzato a Euro 96, la Hooper’s Hooc, la maglia Umbro dell’Inghilterra coi tre leoni e in testa il cappello Kangol bucket. La Vespa, Geri Halliwell col corpetto dell’Union Jack, la copertina di Vanity Fair con Liam Gallagher e Patsy Kensit, Richard Ashcroft che dà spallate per strada, tutti i film con Robert Carlyle.
Quando, nel 1996, il Newsweek titolava “London Rules” e la definiva “La città più fica del mondo”, Ian Wright aveva appena concluso una stagione da 25 gol. Io avevo 8 anni e non avevo neanche idea di tutto quello che vi sto raccontando. Il primo disco degli Oasis che ho comprato era Heathen Chemistry e quando ci siamo tutti radunati per il loro concerto a Roma fuori dal Palalottomatica, con la frangia e i capelli stirati sui lati a coprire le basette, eravamo già tutti fuori tempo massimo. Eravamo già nostalgici, di un’epoca finita pochi anni prima e che a sua volta era nostalgica di un’altra epoca, quella della Swinging London. Una nostalgia al quadrato, quindi, che personalmente proiettavo verso due epoche diverse che non avevo mai vissuto.
È un concetto sintetizzato nel termine Anemoia, che idealizza un passato distante considerato intrinsecamente migliore e rispetto a cui abbiamo perso qualcosa di cruciale. Il passato verso cui proviamo questo senso di nostalgia ovviamente è del tutto immaginario, costruito dalla nostra fantasia, approssimativo, vago.
Scoprire i video di Ian Wright è stato come riaprire un vaso di pandora di nostalgia, che a quel punto era anche nostalgia della mia pre-adolescenza. Nei suoi video riconosco la working class sugli spalti, i difensori scoordinati e gonfi di birra in mezzo a cui Wright passava con una leggerezza infantile.
Per attivare la nostalgia non servono neanche tutti questi riferimenti: basta la grana fotografica del video che scolorisce, rende tutto più indefinito e onirico. È l’archivio video a rendere possibile la nostalgia verso epoche mai vissute, anche molto vicine a noi, dove possiamo innamorarci di calciatori che non ci hanno trasmesso nessuna emozione immediata, ancorata al presente. È una possibilità che prima di noi nessuna generazione ha avuto.
La nostalgia è spesso reazionaria, e se molti di noi sono nostalgici di quell’epoca è perché ci manca una Premier League meno proiettata nell’iperuranio finanziario, dove un biglietto allo stadio non costava 150 sterline e dove i calciatori sembravano veraci e imperfetti come li vorremmo ancora oggi. Dove Lee Dixon e Ray Parlour bevevano latte di birra negli spogliatoi. È più facile immedesimarsi in loro che nelle Lambo gialle di Benzema. Ma se dal punto di vista umano e culturale la nostalgia è comprensibile, lo è meno dal punto di vista calcistico. Qualche giorno fa circolava su Twitter un video di un Arsenal-Chelsea del 2004, quindi quasi un decennio dopo quello che stiamo raccontando, in cui due delle migliori squadre al mondo faticavano a provare due passaggi corti di seguito. Qualcuno sotto il video si chiedeva cosa facevano le persone per divertirsi prima che il calcio fosse inventato nel 2006.
È una nostalgia, quindi, non solo verso un’epoca che non abbiamo mai vissuto, ma anche verso una che di sicuro non avrebbe potuto piacerci. Come Morrissey che canta la nostalgia verso una Manchester in cui non è mai stato felice; come quelle signore rumene che rimpiangono i sapori poveri e acquosi delle minestre ai tempi di Caeucescu.
Dei video di Ian Wright mi piacciono quelli in cui sembra l’unico giocatore di calcio vero e proprio. L’unica persona a cui pare interessare l’aspetto ludico, o persino artistico, del calcio. L’unico che sa toccare il pallone, che lo sa trattare con gentilezza in mezzo a persone che sembrano così scoordinate e violente da farci dubitare abbiano solo la minima intenzione di toccare la palla. In certi video stupisce la testarda idiozia con cui i difensori provavano a falciarlo, e lo stoicismo di Wright a rimanere in piedi, a non chiedere niente, rialzarsi, segnare, esultare senza un briciolo di rabbia in corpo.
Wright era un artista della finalizzazione, è anche questo che mi affascina dei suoi video. Quella parte del gioco del calcio che tendiamo a considerare una delle più pratiche, lui la elevava a una forma di genio. Quando toccava la palla in una zona almeno a 25 metri dalla porta, Wright pensava subito al modo con cui può metterla in porta. Il modo in cui poteva battere una difesa e in cui può ingannare un portiere. La sua è era un’abilità quasi strategica.
Con i suoi video mi sono appassionato anche alla sua storia. Wright è innanzitutto una leggenda dell’Arsenal: lo è prima di essere un grande attaccante, prima di essere un ex Nazionale inglese, prima di essere uno dei migliori finalizzatori della storia della Premier League. Con l’Arsenal, Wright ha segnato 185 gol in 288 partite e ha vinto tanto. Ha vinto prima che arrivasse Wenger, e anche dopo il suo arrivo. È stato l’attaccante di un Arsenal ancora brutto e cattivo, e attaccante di un Arsenal continentalizzato, raffinato. Al suo esordio con i “gunners”, nel 1991, ha segnato una tripletta.
Ian Wright, poi, era genuinamente cool. Tra i suoi video uno di quelli che guardo più spesso non riguarda un suo gol ma una sua esultanza al termine di un Leeds Arsenal nella FA Cup del 1993. Un’epoca in cui la FA Cup era ancora più importante, o comunque più affascinante, della Premier League. Wright indossa la maglia “Bruised banana”, esulta con delle giravolte da danzatrice classica, fa un saluto street con Paul Davies, si tocca il cuore.
Wright ha indossato tante maglie bellissime dell’Arsenal verso cui provo, naturalmente, una grande nostalgia. Vorrei comprarle tutte: quella col vecchio logo con la trama fiorita, quella con le bande rosse e blu sulle maniche bianche, quella gialla con le righe diagonali blu, quella blu con le maniche azzurre, quella gialla e blu spaccata dai fulmini. Ma la maglia Bruised Banana è quella che più leghiamo a Ian Wright, che infatti è stato scelto come volto della campagna di Adidas quest’anno che è stata rilanciato quel modello.
Oggi Ian Wright commenta le partite in televisione, è uno dei tifosi più iconici e rappresentativi di un Arsenal che dà più dolori che gioie. Poco dopo il suo ritiro la BBC gli ha concesso uno spazio televisivo nel format “Right Here, Wright now”. L’emittente voleva rendere meno “bianca” la propria immagine, e decise di affidarsi al carisma naturale e la simpatia di Wright. La durezza della sua vita ha contribuito a formare un carattere speciale.
Qualche settimana fa circolava un’intervista alla BBC in cui ricordava il suo insegnante, una persona importante per lui, che la tv gli aveva dato già modo di incontrare nel 2010. È un video incredibile, più bello persino di quelli sui suoi gol. Wright è sugli spalti e quando vede comparire il suo insegnante si toglie il cappello istintivamente. Pensava fosse morto e scoppia a piangere, si nasconde la faccia nel cappello. È un video che riguarda un calciatore che non ho mai vissuto in prima persona, che conoscevo giusto di nome fino a qualche mese fa, e che ora ha finito per commuovermi. Wright confessa che il suo insegnante è stata la prima vera figura maschile importante della sua vita.
Wright è stato abbandonato dal padre quando era piccolo. È cresciuto con la madre e un padrino che lo picchiava e torturava. Dice che quando c’era la trasmissione Match of the day, sapendo la loro passione per il calcio, li costringeva a stare faccia al muro durante tutto il programma. «Mio fratello mi copriva le orecchie per non farmi sentire i rumori del campo che mi facevano impazzire». Voleva diventare un calciatore sin da piccolo ma a 19 anni ancora lavorava da muratore e solo a 22 ottenne il suo primo contratto professionistico col Crystal Palace. Di quegli anni ricorda come la madre cercasse di convincerlo a smettere.
In un pezzo di due anni fa su The Player’s Tribune, dove Wright veniva presentato semplicemente come “Arsenal legend”, invitava a non stereotipare la sua storia, a non dimenticarne i lati oscuri: «Alla gente piace usare la mia storia come una di quelle “non è mai troppo tardi! Non abbandonare i tuoi sogni”. Questo tipo di cose. A volte però dimenticano quanto inseguire qualcosa finisca per scavare le persone».
Wright, vestito elegante ma casual, con gli occhi cerchiati da un’elegante montatura nera, dice che il suo sorriso se lo è conquistato.