
L’ingresso in scena
Se state leggendo queste righe è molto probabile che nella notte della vigilia di Pasqua abbiate twittato, o condiviso nelle chat Whatsapp del vostro fantacalcio, calcetto o giro di amici football-addicted, un video a più o meno alta definizione di questo gol di Zlatan Ibrahimovic:
Probabilmente l’avrete visto un miliardo di volte, da ogni angolazione: qua la parte interessante non è il gol in sé, ma il contesto in cui arriva. Se grattiamo la superficie delle cose scopriamo che questa gemma ha un significato che va oltre la semplice fascinazione da social network.
Perché poi cosa è che definisce l’eccezionalità di un gol? L’irripetibilità del gesto tecnico, la sua bellezza, ma anche, e soprattutto, il contesto.
Zlatan, meglio di tutti, sa maneggiare l’epica, con una capacità unica di distorcere la realtà per piegarla alla propria narrazione personale. Quando questa epifania si realizza siamo al settantasettesimo minuto di una partita già di per sé discretamente eccezionale. È il primo derby di Los Angeles, il primo “El Trafico”. I LAFC, la nuova franchise losangelina, sulla quale gravita un sentimento di aspettativa altissimo, è riuscita a portarsi sul 3-0 grazie a una doppietta di Carlos Vela, che rappresenta un po’ il Re Nero di questa saga che ha preso tutta un’altra piega da quando Ibra ha scelto Los Angeles come sua nuova casa. Vela segna una doppietta, dicevamo, il primo dei due è davvero molto bello:
Poi il LAFC si adagia, i Galaxy hanno una reazione, si portano sul 3-2 ed allora sì che arriva il momento di Zlatan. Stando alle sue parole: «Ho sentito la gente sugli spalti gridare “Vogliamo Zlatan! Vogliamo Zlatan!”. E allora ho deciso di dargli un po’ di Zlatan».
Quel pizzico di Zlatan è un tiro di prima intenzione da trentacinque metri, sette minuti dopo il suo ingresso in campo (sette è anche il numero della completezza, secondo il buddismo), un tiro realizzato con la gestualità più “zlatanesca” che vi possa venire in mente. Ma è anche il colpo di testa che regala ai Galaxy la vittoria nei minuti di recupero, poi. Chiunque abbia scritto la sceneggiatura di questa partita non dovrà fare troppi passi per presentarsi al Dolby Theatre e onorare la nomination all’Oscar dell’anno prossimo.
Lo sbarco
Ibra è sbarcato a LA nella notte tra giovedì e venerdì. Ad accoglierlo c’era il solito bagno di folla che si presenta agli aeroporti di tutto il mondo a dare il benvenuto a stelle calcistiche che in qualche modo devono risollevare le sorti di una piazza. Zlatan si presenta con quella spocchia caratteristica del personaggio che è riuscito a costruirsi soprattutto nell’ultimo lustro, a partire dal commiato a Parigi e passando per la divinizzazione del suo passaggio mancuniano.
Qualche giorno prima, in occasione del suo annuncio, ha comprato una pagina intera del Los Angeles Times per ribaltare il paradigma dei più classici dei benvenuto. La pagina è praticamente del tutto bianca, ad eccezione delle due righe iniziali che recitano «Dear Los Angeles, you’re welcome». Una frase ambigua, che può significare «Prego, Los Angeles, non devi starmi a ringraziare di averti pregiato della mia presenza» ma anche, più sibillinamente, «Benvenuti nel Mondo di Zlatan».
Il fatto che sia sbarcato di venerdì santo, e che la Resurrezione (l’ennesima) sia avvenuta quasi in contemporanea con lo scoccare della Pasqua, spalanca i portoni al paradiso delle allegorie, quel micromondo in cui santi, eroi e calciatori tipo Zlatan sono massimamente a loro agio.
Con umiltà si è presentato nello spogliatoio a stringere le mani dei compagni, quasi un simbolico lavaggio dei piedi. Poi si è seduto a tavola e ha dispensato il dogma. «Il leone ha fame». «Era tutto scritto nel destino: LA ha chiamato e io ho dovuto soltanto rispondere». Ogni frase della conferenza stampa di presentazione è una punchline, una citazione da Vangelo, un proclama. È tornato a cavalcare il tormentone di Benjamin Button, e onestamente continua a restare difficile non infilarsi nella sua linea di pensiero come fanno le testuggini con la corrente del Golfo senza sentirsi un po’ ingenui e un po’ in colpa.
È strano come nella Terra delle Grandi Opportunità, dell’evoluzione, della democrazia orizzontale, di Elon Musk e delle Tesla sparate nell’iperspazio, a dominare l’immaginario siano spesso figure superomistiche, capaci i soddisfare immediatmente il bisogno di Rendere l'America Nuovamente Grande. Nell’amore tutto americano per i supereroi si iscrive l’accoglienza di Zlatan. Un acquisto che va oltre i Galaxy, e che rappresenta un valore aggiunto per tutta la MLS, e più a largo spettro per il movimento calcistico statunitense.
Se da un certo punto di vista può sembrare una regressione, dall’altra parte Ibra a Los Angeles può riportare equilibrio nello sviluppo organico della MLS. Un campionato che ultimamente è diventato anche un trampolino di lancio per molti giovani, ma che nella sua componente più esperta si stava un po’ adagiando su incompresi in cerca di riscatto, tipo Vela o Giovinco, o semplici Grandi Nomi alle prese con un tentativo di dissolvenza in uscita, tipo Pirlo o Schweinsteiger. Zlatan riporta nella MLS quel pizzico di superiorità quasi divina che Beckham e Henry, arrivati ancora in buona forma, sapevano restituire.
Nei giorni passati Daniele Manusia e Davide Coppo, avevano scritto in due pezzi diversi, ma accomunati dallo stesso tono, una specie di coccodrillo per la fine della carriera europea di Zlatan. Personalmente credo che, lungi dall’essere tramontato, negli States Ibra possa trovare il contesto giusto per continuare a divertirsi almeno qualche altro anno.
Poco dopo la fine della partita, in cui ha toccato il pallone 11 volte, tirato due volte e segnato altrettante, cioè lo stesso numero di tiri collezionati fino ad ora in media per partita da Giovani Dos Santos e il doppio di Ola Kamara, il centravanti titolare, venti minuti in cui si è abbattuto sulle sorti della sua squadra come una specie di cometa dalla coda luminosissima, Zlatan in un tweet ha già ribattezzato il campionato in MLZ.
Pochi giorni fa scrivevo che il presente di questa Major League of Soccer è a Los Angeles.
Da sabato sera c’è un motivo in più per crederlo.