Intervistato prima della partita, gli dicono che gli manca solo un gol per arrivare a 400 segnati nei diversi campionati in cui ha giocato (su 567 in totale, tra club e Nazionale), e Zlatan Ibrahimovic sembra sorpreso e sorride. Con i calciatori che arrivano lontano quanto lui, in termini di età e di eccezionalità delle performance, ogni partita nasconde qualcosa da celebrare, ogni gradino salito in più può essere un record personale di qualche tipo. Lo scorso marzo, dopo aver segnato il suo quindicesimo gol stagionale, Zlatan non sembrava felice di essere diventato il più anziano del campionato italiano a raggiungere un traguardo simile: «Allora non faccio più gol, non mi piacciono questi record».
Ma quello che aveva davanti contro la Roma era un record diverso, una cifra tonda come 400 gol in campionato non ha nessuna sfumatura malinconica. Oppure nel frattempo è cambiato il modo in cui vive i suoi anni: a ottobre ne ha compiuti 40 e ci ha tenuto a scriverselo sugli scarpini per ricordarlo a tutti. L’intervistatrice di Dazn gli chiede se uno stadio intero che gli tifa contro, i cinquantamila dell’Olimpico, potranno creargli l’atmosfera adatta. «Sì, sì, bello, così mi sento vivo», risponde Ibrahimovic. «E speriamo che fischiano, così mi sento ancora più vivo». A bordocampo Riccardo Montolivo (che ha quattro anni meno di lui) ha sottolineato uno slittamento nel suo sguardo, avvenuto mentre Zlatan rispondeva alla domanda. Gli occhi di Zlatan non erano più quelli di un padre di famiglia a cui fanno i complimenti per il costume di halloween del figlio, ma gli «occhi della tigre», metafora magari un po’ banale ma che rende la ferocia che come un velo aveva reso più opaco quello sguardo. Quello era l’Ibrahimovic con cui nessuno vorrebbe avere a che fare.
Il quattrocentesimo gol è arrivato, ovviamente, era scontato trattandosi di Zlatan Ibrahimovic e della Roma, la squadra a cui ha segnato più gol in carriera dopo il Saint-Etienne (con cui si è accanito in modo particolare, segnandogliene 17 in 15 partite, addirittura 8 nella sola stagione 2014/15, in quattro gare tra campionato e coppa). Con quello di ieri sono 13 gol in 22 partite ai giallorossi, la squadra contro cui ha anche preso più cartellini: 8 gialli e 1 rosso. Il gol che inclina la partita dopo venticinque minuti è un gesto di normale eccezionalità per Zlatan, una punizione scagliata all’angolino con la velocità di una biglia che esce dalla molla del flipper, sul palo del portiere, nell’angolo basso. Rui Patricio si affloscia sulle ginocchia dopo aver visto partire il tiro – aveva fatto un passettino dietro la barriera, forse pensava che Ibra cercasse di scavalcarla – la palla curva leggermente con una traiettoria esterna e tocca terra prima di finire nel punto esatto in cui la rete di porta fa l’angolo. Quando Zlatan ha segnato una punizione simile, nello spareggio per l’accesso al Mondiale del 2014, contro il Portogallo (la partita in cui lui ha segnato due gol ma Cristiano Ronaldo ne ha fatti tre), tra i pali c’era sempre Rui Patricio, e il Guardian aveva parlato di un tiro calciato con una «uberviolenza che sarebbe passata attraverso un muro di mattoni, figuratevi uno fatto di carne, ossa e paura».
Un gol molto bello segnato sotto una curva bellissima, che aveva dedicato i suoi striscioni al ricordo di Antonio De Falchi (ucciso a San Siro proprio prima di una partita tra Roma e Milan nel 1989), in cui le bandiere continuavano a sventolare anche mentre Ibrahimovic prendeva la rincorsa, una scenografia in movimento per uno dei più grandi attori ad essersi esibito sui palcoscenici del calcio contemporaneo. Cinquantamila persone, però, possono creare l’atmosfera giusta per un grande conflitto così come intossicare l’aria con insulti razzisti - e lasciamo perdere la logica che spinge un arbitro ad ammonire un calciatore che alza le braccia provocando, lui da solo, un intero stadio che gli dà dello zingaro.
Nel documentario Becoming Zlatan, sul suo passaggio dal Malmoe all’Ajax, si vede un giovane Ibrahimovic guardare con aria triste una sua foto da bambino. «Zigge», dice guardando quel bambino sorridente con le guance rosa e i capelli ancora biondi. Zingaro, era quello che gli dicevano anche allora. In quella scena Zlatan chiede alla persona che regge la camera: «Questo è Zlatan Ibrahimovic. Non è dolce?». Il fratello più giovane, sul divano vicino a lui, commenta sorridendo: «Le apparenze ingannano». Zlatan Ibrahimovic è abituato a essere offeso, non è certo dandogli dello zingaro che la difesa della Roma può difenderlo meglio.
Il genio sfrutta gli accidenti, si adatta alle situazioni. E il genio di Zlatan non è solo fisico, non è solo nel dominio dei corpi avversari – che non possono arrivare sulla palla mentre lui esegue uno scorpione, che non riescono a spostarlo di un millimetro mentre lui stoppa di petto un lancio lungo – per quanto il fisico sia stato il mezzo con il suo genio si è espresso finora. Ma a 40 anni deve trovare altri modi, altre strade per restare rilevante e continuare a decidere le partite. Dopo un’estate passata da infortunato, e un inizio di stagione interrotto di nuovo per un mese, con una mobilità ancora più ridotta rispetto al solito, Zlatan deve aspettare il momento giusto, muoversi con una strana cautela e aspettare che il suo genio si materializzi da sé. Perché a giocatori del genere le cose eccezionali piovono dal cielo, semplicemente per via del loro carisma - dal linguaggio religioso, in riferimento a una grazia divina, elargita da Dio in persona.
Una settimana fa, titolare per la prima volta dallo scorso maggio contro il Bologna, Zlatan ha fatto un casino. Prima ha mandato in porta Leao con un filtrante da metà campo, per il gol dell’1-0, poi però aveva complicato le cose al Milan segnando l’autogol che aveva riaperto la partita, accorciando il vantaggio rossonero da 2-0 a 2-1. Il Milan aveva già un uomo in più, per l’espulsione di Soumaoro, ma il Bologna giocava meglio ed era riuscito a risalire fino al 2-2. Ibra aveva vissuto un raro momento sfortunato, di cui si è reso conto nel momento stesso in cui è avvenuto: ha colpito la palla di testa quasi senza volerlo, provando ad abbassarsi all’ultimo, come una tartaruga che si ritrae nel carapace, ma era troppo tardi e la sua spizzata è finita all’angolino.
Non stava giocando benissimo quella sera ma Pioli non l’ha tolto, il Milan nel secondo tempo, con due uomini in più dopo la seconda espulsione, poteva anche permettersi di giocare con Zlatan letteralmente fermo in area di rigore, aspettando di poter riparare all’autogol, sempre meglio che mandarlo in panchina nervoso, arrabbiato. E dopo che il Milan ha segnato il 3-2 l’occasione è arrivata, a un minuto dalla fine, con una palla al limite dell’area che ha calciato a giro, tenendola bassa, nell’angolo più lontano.
Se contro il Bologna Zlatan aveva riempito la partita con il proprio piccolo dramma personale, mettendo il suo nome in tre gol nei 6 totali del 4-2 finale, contro la Roma ha esagerato. Ha segnato due gol (di cui uno annullato), realizzato un assist (per un gol annullato) e si procurato il rigore del momentaneo 2-0. Tutto questo dopo un mese e mezzo da infortunato e convalescente. Pioli a fine partita ha detto di averlo visto meglio, più mobile e più in sintonia con il resto della squadra, ma Ibra ha mantenuto comunque un volume di gioco basso. Una ventina di passaggi, qualche palla persa, appena due tiri verso la porta (la sua media nell’ultimo anno è di quasi 5 tiri ogni novanta minuti). Eppure ha deciso la partita, ha fatto praticamente tutto lui.
Foto di Paolo Pasquazi / Getty.
Il Milan ha schiacciato la Roma nella sua trequarti giocando con grande facilità alle spalle dei due centrali di centrocampo giallorossi, ma Zlatan sembrava a tratti un elemento estraneo. Al ventesimo del primo tempo Bryan Cristante lo aggredisce mentre protegge palla, Zlatan sembra sicuro di sé, inamovibile come sempre, e invece perde palla. Qualche minuto prima aveva scambiato con Saelemakers al limite dell’area e scattando alle spalle di Mancini (che ha quindici anni meno di lui) e superandolo era arrivato al tiro di sinistro: ma aveva calciato cadendo, aprendo troppo l’angolo con il collo del piede e la palla era finita fuori dal primo palo. Rialzandosi aveva indicato a compagni, facendo il gesto con le due dita, che la palla era uscita “di tanto così”, ma di solito Zlatan da quella posizione la porta rischia di romperla.
Dopo il gol del vantaggio qualcosa deve essersi sciolto definitivamente dentro di lui, forse il sangue ha iniziato a scorrergli con maggiore fluidità nelle vene che irrorano i suoi muscoli ciclopici, forse i fischi e le offese lo hanno motivato ancora di più. Negli ultimi tempi Zlatan gioca con il privilegio, mai provato prima in carriera, di essere diventato universalmente apprezzato. I giornalisti non cercano più di farlo innervosire, la maggior parte degli avversari probabilmente è cresciuta guardandolo giocare. Se qualcuno ancora lo critica o prova a diminuire la portata del suo talento, lo fa sottovoce, o in un gruppi molto ristretti di persone con problemi di percezione della realtà.
Quando però la tensione sale il suo organismo risponde al solito modo, il vecchio istinto di sopravvivenza – quello che gli ha permesso di resistere alle offese quando ancora era in panchina nel Malmoe, quello che gli ha permesso di azzittire chi gli diceva che valeva meno di quello che pensava – si rimette in moto: lo scorso anno lo ha portato a sbagliare con Lukaku, facendolo espellere in un derby di Coppa Italia che ha influenzato forse il resto della stagione milanista e interista; stavolta lo ha spinto a fare di più, a fare di meglio.
Dieci minuti dopo il gol del vantaggio Kjaer lo cerca sulla trequarti di campo con un lancio teso che Zlatan potrebbe mettere giù di petto, facendo salire la squadra e provando a costruire un’azione d’attacco “normale”. Ibra invece usa il petto come il piatto del piede e con una rotazione del torso schiaffeggia la palla in profondità, mettendo Leao solo davanti a Rui Patricio, nel cuore dell’area di rigore. Leao, seguendo il canone estetico della giocata di Ibra, scavalca Rui Patricio con un sombrero e mette dentro di testa a porta vuota. Se non fosse stato in fuorigioco quando il lancio di Kjaer è partito, uno di quei fuorigioco millimetrici, atomici, Zlatan e Leao avrebbero costruito un gol tanto bello da diventare offensivo.
In quattro stagioni in Francia, Zlatan ha segnato quattro gol di petto. L’ultimo, contro il Nantes, nella sua ultima partita giocata con il Paris Saint-Germain, lo ha segnato schiacciando la palla a terra con il petto, dando forza a un cross di Di Maria che sarebbe stato infinitamente più semplice mettere in porta di testa, o al limite di piede. Nel libro che ho scritto su di lui sostenevo che quella di Ibrahimovic fosse una ricerca artistica, che segnare di petto servisse ad esplorare i limiti del suo talento, come se andasse «per esclusione – non di piede, non di testa, non di tacco, non di rovesciata – per trovare i confini delle sue abilità». Nessuno come Ibrahimovic ha mostrato un rapporto con la palla così totale, epidermico, che gli permetta di usare praticamente ogni parte del corpo per fare quello che ha in mente. E quello che ha in mente lui è sempre qualcosa di diverso da quello che hanno in mente gli altri, è sempre controintuitivo, ricercato, a suo modo affettato.
Foto di Filippo Monteforte / Getty Images.
Prima di essere sostituito – perché il Milan deve giocare in Champions League tra due giorni, con l’Inter tra una settimana e lui ha pur sempre 40 anni – Zlatan segna un altro gol bellissimo, controllando di petto un altro lancio profondo di Kjaer e incrociando di destro sul palo più lontano, annullato anch’esso per un’unghia in fuorigioco. Poi ha sbagliato un’occasione solo davanti a Rui Patricio (era in fuorigioco comunque e forse stavolta lo sapeva) e infine si è lanciato in area sfruttando una conduzione palla al piede di Theo Herandez, ha tagliato davanti a Ibanez (che ha diciassette anni meno di lui) e si è preso il rigore, uno di quei rigori che gli arbitri italiani fischiano per contatti davvero minimi, che Kessié ha trasformato.
Quella di Ibrahimovic è una forma di eleganza che non dimentica la brutalità del mondo da cui proviene, che si è alimentata dei fischi ricevuti tanto quanto dell’affetto, della sua stessa immaginazione, della felicità che deve provare quando una cosa del genere gli riesce. Quando è uscito, subito dopo il rigore, l’Olimpico lo ha sommerso di fischi, di nuovo, gli hanno dato dello zingaro, di nuovo, ma lui è entrato in panchina come se niente fosse. Questa è la vita di Zlatan Ibrahimovic a quarant’anni. Non lo costringe nessuno a farla e nessun tifoso è obbligato a stimarlo o a rispettarlo. A lui in ogni caso non interessa, anzi, così «si sente ancora più vivo». Non sappiamo fino a quando durerà, probabilmente fino a quando gli andrà o fino a quando il suo corpo semidivino non si opporrà definitivamente al suo utilizzo professionale. La sola cosa che sembra essere sicura è che finché scenderà in campo il calcio si mescolerà col teatro e i momenti decisivi delle partite verrà attratti dalla sua irresistibile, ingombrante, sovrabbondante presenza scenica.