«Sono curioso di vedere quello jugoslavo alto», con queste parole Gianni Agnelli accolse Igor Tudor a Villar Perosa, in un terso pomeriggio d’estate del 1998. Misterioso acquisto di un mercato particolarmente conservativo, ad osservarlo per la prima volta su di un campo da calcio, con l’andatura ciondolante e il corpo di un cestista, l’avvocato doveva aver pensato di aver preso una fregatura.
Nato a Spalato nel 1978, Tudor aveva smesso di essere “jugoslavo” da almeno 7 anni, da quando nel 1991 la Croazia era diventata indipendente e lui croato. Un evento che deve aver sicuramente contribuito alla sua formazione, umana e sportiva, ma di cui non troviamo traccia nelle poche interviste o nei rarissimi articoli che parlano di lui. Non sappiamo quasi niente di Igor Tudor, se durante la guerra è scappato o rimasto a Spalato, già impegnato a formare il suo talento nelle giovanili dell’Hajduk, se ama il mare o la montagna, il basket o la pallanuoto. A dire il vero non sappiamo bene neanche il suo ruolo: difensore, centrocampista, jolly, boh.
Tutto quello che sappiamo è che Tudor è diventato un feticcio dei tifosi anche senza essere Zidane o Del Piero, una figura in grado di fare ombra in tutte le zone del campo, segnare dei gol quando più serviva. Fisico statuario e faccia dura lo hanno svuotato di significato: gigante, panzer, corazziere, sono questi i soprannomi con cui lo ricordano i pochi pezzi celebrativi. Ogni tanto ci si ricorda dei piedi buoni, più spesso di quanto fosse soggetto agli infortuni. Ma non sembra possibile scavare più in profondità, razionalizzare Igor Tudor e il perché sia rimasto così impresso nella memoria collettiva, pur non stando mai al centro (tranne una volta).
Grosso, troppo grosso
In questo primo identikit Tudor ha vent’anni, è alto 192 centimetri ed ha «una rapidità eccezionale per le sue dimensioni»; ma soprattutto «può giocare in tutti i ruoli della difesa». Qualche giorno prima la Juventus se l’era assicurato con un blitz dei suoi dirigenti in Dalmazia, superando la concorrenza di Fiorentina, Real Madrid e Bayern Monaco.
Non doveva essere facile farsi un’idea su un giovane dell’Hajduk Spalato, prima dell’internet 2.0, se per scoprire due o tre cose su di lui, oltre ai centimetri, si deve cavare il possibile da pochi minuti in amichevole contro la Slovacchia, dove mostra «due o tre qualità non indifferenti [...] come per esempio un tocco di palla molto buono, anche nei disimpegni, un buon senso tattico negli inserimenti offensivi [...] e una notevole decisione: se l'uomo, per caso, passa, lui non esita a fermarlo anche con mezzi che il regolamento non contempla».
Dopo il Mondiale francese, in cui gioca pochi minuti sufficienti per fregiarsi del terzo posto, Tudor fa la valigia e va a Torino. La prima cosa che scopriamo di questa nuova vita è che la palestra bianconera si modifica per Tudor, che è letteralmente il titolo di un articolo uscito in quei giorni, in cui si spiega che la stazza del croato ha costretto lo staff della Juventus a modificare degli attrezzi per consentirgliene l’uso. Insomma Tudor potrà sfuggire tatticamente, ma non di certo fisicamente (in questa foto vediamo tutta la differenza con Inzaghi ed addirittura Peruzzi).
Un incastro di assenze ed infortuni gli permette di esordire già alla prima di campionato. Viene schierato al centro della difesa accanto a Iuliano (che poi diventerà il suo vice ad Udine), nella partita in cui esordisce un altro giocatore che rimarrà impresso nel nostro campionato, Hidetoshi Nakata.
Tra fotografi giapponesi e neo campioni del mondo - ci sono Zidane e Deschamps - Tudor si prende la scena dopo circa 30 minuti, andando a raccogliere in aria un calcio d’angolo di Del Piero e siglando il primo gol con la maglia della Juventus alla prima apparizione. La partita finisce 3-4 e a guardare il resto, nonostante i vent’anni, Tudor appare come un difensore compassato, anche troppo compassato, commette un paio di errori per eccesso di sicurezza, ma insomma l’esordio è positivo.
A livello di risultati, la prima stagione di Tudor in bianconero è un disastro: a novembre Del Piero si rompe il crociato, a dicembre Lippi si promette all’Inter, a febbraio si dimette con la squadra lontanissima dai primi posti e arriva Ancelotti. Henry passa come una meteora e la squadra finisce in Intertoto dopo aver perso uno spareggio con l’Udinese. Tudor tuttavia non può lamentarsi: anche a causa dei tanti infortuni che hanno falcidiato la difesa gioca molto, 36 presenze a fine anno, addirittura alcuni minuti da centravanti in Coppa Italia contro il Venezia. Stupisce tutti per la sensibilità dei suoi piedi, lui dice: «Noi della scuola slava giochiamo sempre la palla, ce l'abbiamo nei cromosomi, siamo bravi coi piedi, mica spazziamo via, neanche i difensori».
Il passaggio alla difesa a 3 nella successiva stagione e il ritorno di molti titolari gli tolgono un po’ di spazio. Il croato gioca meno, per Ancelotti altri sembrano stargli davanti nelle gerarchie e deve addirittura aspettare la 13° giornata per esordire dal primo minuto in campionato. Le sue prestazioni sono piene di alti e bassi, come normale per un difensore che ha appena compiuto ventuno anni, anche nelle parole di Ancelotti si nota questa continua tensione - che definirà la carriera di Tudor - tra lo stare indietro e l’andare avanti.
«Per quanto riguarda Tudor, direi che ha cercato di sfruttare qualche inserimento offensivo. Io, però, voglio prima di tutto che faccia il difensore, visto che ha tutto per diventare un grande. Vorrei che non giocasse a sprazzi ma con maggiore continuità, che non si distraesse, che fosse più essenziale in certe giocate».
Pur non brillando, escono sempre fuori le potenzialità del giocatore, che gli permettono di diventare titolare nella stagione successiva, terzo a sinistra in un 3-4-1-2, poi terzino quando la difesa torna a 4. Quello che succede è che Tudor, oltre a giocare, inizia anche a segnare spesso, da difensore, usando come un maglio i suoi 192 centimetri.
Di testa, senza saltare, in Champions League contro l’Amburgo; di testa su calcio d’angolo saltando più in alto di Peruzzi contro la Lazio; di testa saltando sopra Sala ed Helveg contro il Milan; di testa girando una punizione dalla trequarti di Zidane, mentre veniva trascinato a terra da un difensore della Reggina; di piede, dopo un suo colpo di testa respinto contro il Lecce; di testa, di nuovo senza saltare, dopo una spizzata di Paramatti su calcio d’angolo contro la Fiorentina e poi di nuovo di testa, ancora su calcio d’angolo, ancora trattenuto contro il Bologna.
Foto di Grazia Neri/ALLSPORT
Sette gol che sarebbero diventati leggenda, se la Juve non avesse finito per arrivare al secondo posto ancora una volta, battuta in volata dalla Roma di Totti e Batistuta. Sono due anni sanguinosi per i tifosi, che vedono una delle squadre più forti del mondo non riuscire più ad affermarsi, non solo in campo, ma soprattutto fuori. Una società che era riuscita a portare a Torino alcuni dei migliori giocatori al mondo, nel giro di un anno finisce per acquistare un numero impressionante tra bidoni conclamati e giocatori decenti, ma non all’altezza: Zoran Mirković, Jocelyn Blanchard, Juan Esnáider, Thierry Henry (per lui il discorso è diverso), Edwin van der Sar, Jonathan Bachini, Sunday Oliseh, Athirson, più altre meteore ancora minori che non vale neanche la pena citare.
In questa difficile transizione che dovrebbe guardare al futuro, Tudor si erige - nel vero senso della parola - come unico appiglio. Ed è anche per questo che i tifosi imparano ad amarlo, anche sopra alle sue qualità: in una squadra in cui accanto ai due tre fenomeni si perpetuano infiniti i vari Pessotto, Ferrara, Montero, Tacchinardi, Conte, Tudor è fin dall’inizio l’unica nota di colore, difensore dalla faccia cattiva e i piedi buoni, croato silenzioso ma risoltuivo.
Da difensore a centrocampista
«La Juve deve giocare con il 4-4-2, ma mi manca un uomo da affiancare a Tacchinardi», comincia così - in piena estate - la carriera di Igor Tudor a centrocampo. Le parole di Lippi, appena tornato per il “Lippi bis” (stagione 2001-2002), sembrano quelle tipiche dell’allenatore che aspetta rinforzi, che arriveranno, ma non in quella zona del campo.
Allora si ingegna: «La sfida con il Milan (Trofeo Berlusconi, nda) è l'ultima che mi consente di fare esperimenti e verifiche. [...] ho deciso di provare Tudor come centrale di centrocampo. [...] Credo abbia tutte le qualità per giocare bene anche in coppia con Tacchinardi: ha tecnica, rapidità nel breve, colpo di testa, calcio, prestanza fisica».
Tudor storce il naso, ma si adegua. A centrocampo viene schierato nella prima partita della stagione e gioca molto bene. La sua capacità di gestire il pallone con sicurezza e tranquillità, in un calcio che non richiede ancora ai difensori particolari abilità con il pallone tra i piedi, diventa più utile trenta metri più avanti. Tudor smista, gestisce, lancia, ma vince anche duelli aerei, scontri fisici.
Qui un lancio perfetto per Del Piero.
Lippi lo promuove, anche dopo il ritorno di Davis - fermo 4 mesi a causa di una squalifica per doping - rimane la prima opzione nel ruolo. Lui sembra convinto dal suo nuovo ruolo: «A centrocampo corro di più, ma sono sempre nel vivo del gioco, tocco molti palloni e mi diverto. In difesa bisogna stare più attenti». Ma gli infortuni iniziano a fare capolino nella carriera di Tudor: prima si rompe il naso, poi la caviglia inizia a perseguitarlo, cedendo definitivamente dopo pochi minuti della sfida di Champions League contro l’Arsenal.
Un infortunio strano, secondo le cronache dell’epoca non sembra nulla di grave, ma di cui la società nasconde entità e tipologia. Un infortunio che complica i piani di Lippi: come scrive Emanuele Gamba su Repubblica «sembra ormai che i fragili equilibri della Juventus dipendano dalla presenza di Tudor, l'unico che abbia permesso una vaga quadratura del cerchio».
L’assenza del croato prima pesa, poi diventa un mistero: la distorsione alla caviglia più inguaribile della storia. Pare pronto per giocare 4 mesi, ma nella sfida contro il Bayer Leverkusen, decisiva per il passaggio del secondo girone di Champions, Tudor si rifiuta di scendere in campo dal primo minuto. Lippi dice che «non se l’è sentita di giocare», Tudor si difende (pare addirittura che diversi compagni l’avrebbero apostrofato con male parole): «La caviglia è mia e me la gestisco io», dice a fine partita dopo una sconfitta che sarà decisiva per l’eliminazione.
Tra un acciacco e l’altro, Tudor riesce comunque ad essere determinante: segna un gol all’Inter - di testa ovviamente - che sarà decisivo nella “volata scudetto” che questa volta vede la Juventus trionfare all’ultimo respiro, complice il tracollo dell’Inter contro la Lazio il 5 maggio. A fine stagione le presenze in Serie A saranno appena 14, ma sufficienti per segnare 4 gol, sempre decisivi.
Lippi lo incorona: «preferirebbe giocare in difesa, ma a centrocampo è un Desailly più tecnico», la sua influenza è enorme anche in nazionale, tanto che la notizia di un riacutizzarsi dell’infortunio alla caviglia che lo costringerà a saltare il Mondiale è vista in maniera drammatica, Boban, ad esempio, dice: «Tudor a questa Croazia manca più di me. Con lui, il vero padrone della difesa e anche della squadra, avevamo preso solo un gol in otto partite».
Grandezza fragile
La stagione 2002-’03 dovrebbe essere quella della consacrazione: a 24 anni, superato l’infortunio alla caviglia grazie ad una operazione, metabolizzato il nuovo ruolo, con un nuovo contratto, ci si aspetta di vederlo diventare uno degli uomini intorno a cui gira una Juventus che vuole vincere tutto, rispettare definitivamente quanto di buono detto su di lui, un giocatore che piace tanto agli allenatori, se addirittura Sacchi lo ha definito “un fenomeno”.
Ma le cose vanno diversamente. Il ritorno dall’infortunio alla caviglia è più complicato del previsto: nelle prime partite, ad una condizione fisica imbarazzante - Tudor ha saltato anche la preparazione - subentra un problema anche più grave, di natura psicologica: il croato corre in maniera scorretta perché non si fida della sua caviglia.
Se non è la caviglia, poi, è l'adduttore; e se non è l’adduttore, torna ad essere la caviglia o - al massimo - l’influenza. Quando sembra dover tornare, non torna. A gennaio, è «il nuovo acquisto di gennaio». In tutta la stagione salta 26 partite, quelle giocate dal primo minuto si contano sulle dita della mano. Parte dalla panchina, perché appena tornato a disposizione, anche la sera del 12 marzo del 2003, con il Deportivo La Coruna in visita al Delle Alpi per la penultima sfida del secondo girone di Champions League.
Per la Juventus è una partita fondamentale: vincere vuol dire accedere ai quarti, perdere e pareggiare renderebbero tutto molto più complicato. Dopo 12 minuti Ciro Ferrara di testa porta avanti i bianconeri, ma è un domino del Deportivo: Makaay e Tristan attentano più volte alla porta di Buffon, fino a far capitolare la resistenza della Juventus due volte tra il 34’, un tocco a porta vuota di Tristan, e il 52’, un gran sinistro da fuori area di Makaay. Sull’orlo del baratro, la Juventus si risveglia e trova il pareggio con David Trezeguet, che pochi minuti dopo prende il palo con un destro al volo, uno dei suoi tiri.
Igor Tudor entra a centrocampo, al posto di Tacchinardi, quando mancano appena 13 minuti alla fine. Il primo pallone che tocca è un retropassaggio all’indietro verso Buffon, che segue per farsi ridare il pallone al limite dell’area. È una specie di salida lavolpiana improvvisata, che però il portiere ignora: con le mani gli fa il gesto di andare avanti e lancia lungo. Un minuto dopo sbaglia un passaggio, poi lo vediamo ricomparire quando usa il corpo per fare da paciere in una rissa nata dopo un brutto fallo di Montero.
La partita la fa il Depor, molto più a suo agio nel palleggio, la Juventus sembra accontentarsi del pareggio, che le da ancora qualche speranza. Tudor prova un passaggio in orizzontale nella propria metà campo che viene intercettato, ma non controllato: sarebbe stata un occasione incredibile per il Deportivo.
La Juventus non sa come attaccare, il pallone è spesso per aria. Tudor è svogliato, trotterella avanti ed indietro, è il più fresco ma non si direbbe. Una fiammata permette a Zalayeta di colpire di testa da buona posizione, ma l’attaccante si coordina male. Il Deportivo sembra poter segnare da un momento all’altro, ma non lo fa. Nel recupero la Juventus si sveglia, presa da un'urgenza improvvisa. Un tiro di Zalayeta viene deviato all’ultimo: non deve essere lui l’eroe di quella sera; qualcuno non riesce ad intercettare di testa un calcio d’angolo ben calciato.
Poi succede: Ferrara respinge un cross dalla destra di Hector, il pallone finisce dalle parti di Tudor, che serve in verticale Trezeguet, che subito gliela restituisce. Tudor allora apre a destra per Thuram, nell’esatto momento in cui il cronometro scavalla il minuto 92. Thuram sale col pallone, ma trova la strada sbarrata. Alla sua destra si è aperto Zalayeta, che riceve con i piedi sulla linea laterale. È sulla trequarti e non ha altra opzione se non provare un cross da fermo, che ha il merito di essere preciso, anche se lento.
A prenderlo, di testa, è Jorge Andrade, che a Torino tornerà qualche anno dopo per vestire la maglia bianconera con poca fortuna, ma la pressione di Trezeguet lo costringe ad un intervento sbilenco: la sua respinta è un campanile, che scende dritto come un fuso al limite dell’area.
Quello che accade dopo diventa la copertina della carriera di Tudor, il croato arriva in corsa e al volo di sinistro regala i quarti alla Juventus.
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È un gol che dimostra una grande sensibilità: Tudor colpisce di mezzo esterno, forte e preciso, senza scomporsi minimamente. La coordinazione è perfetta anche se non sta usando il suo piede naturale, anche se in carriera i gol di piede sono rarissimi. Dopo il gol manda baci verso il cielo, se per la Juventus vuol dire continuare la corsa verso l’obiettivo dei sogni, per Tudor è una fenice.
A fine partita dichiara: «Per me è la fine di un incubo. C'è stato un momento in cui mi sono sentito tagliato fuori da tutto, ma adesso sono finalmente felice». Ancora, qualche giorno dopo: «L'altra sera ho riscoperto la felicità. Davvero, non pensavo di poter essere così felice. La sofferenza non basta un gol per cancellarla. Ma non mi sentivo così da tanti mesi».
Se questo gol ha contribuito a plasmare l’immagine mitologica di Tudor agli occhi dei tifosi, per il croato è stato solo un piccolo momento di illusoria gioia. Per Tudor, infatti, le cose non cambiano. Gli strascichi degli infortuni si fanno sentire su tutti i suoi 192 centimetri. I picchi che avevano spinto Lippi a preferirlo a Davis a centrocampo non si vedono più, nonostante l’allenatore lo ritenga ancora un elemento fondamentale. Lo mette al posto di Del Piero prima dei supplementari al Camp Nou, a centrocampo, all’andata col Real, al posto dello squalificato Davids, anche nella finale col Milan, questa volta in difesa.
Ma la sua partita dura solo una quarantina di minuti: si infortuna nuovamente alla caviglia in uno scontro con Shevchenko ed è costretto ad uscire. Una delle notti più disperate della storia della Juventus, diventa anche una delle peggiori per Tudor, come atleta, che alla sconfitta deve aggiungere la frustrazione per l’ennesimo infortunio, in una spirale che non sembra avere fine.
Triste solitario y final
L’anno della consacrazione diventa l’anno del gol al Deportivo, un singolo gesto che al posto di essere l’apice della carriera, ne è più tristemente la chiosa, il punto arrivato troppo presto. Certo c’è anche un Tudor dopo quel gol, ma è un giocatore che si rivolta su se stesso, che viene accusato di avere una soglia del dolore troppo bassa, che piano piano si spegne.
La stagione 2003-’04 sembra ripetersi uguale: gli infortuni, vecchi e nuovi, la duttilità, che a questo punto sembra quasi un limite, ma soprattutto la difficoltà di trovare il proprio ritmo in campo. Tra difesa e centrocampo, quando è chiamato in causa, difficilmente riesce a rendersi utile. Dopo una brutta sconfitta per 3-4 contro il Lecce, la sua pagella è indicativa: «Il suo passo andrebbe bene per un cercatore di funghi. Disastroso a centrocampo, una voragine in difesa».
Suo malgrado Tudor finisce anche al centro del momento più basso di una stagione mediocre della Juventus: la sconfitta per 4-0 all’Olimpico contro la Roma. Lo fa da subentrato, neanche titolare, quando negli ultimi minuti incrocia la prossemica di Francesco Totti, che gli sventola in faccia le famose quattro dita e quel consiglio poco amichevole di stare zitto, a cui Tudor neanche risponde, dimostrando una capacità di incassare il colpo non indifferente.
Un gesto che vuole segnare il passo della Roma sulla Juventus e che diventerà un focolaio di dibattiti e sfottò per gli anni a seguire, da cui l’unico a smarcarsi è proprio Tudor, che interrogato a riguardo dopo la sua firma in calce al contratto di allenatore dell’Udinese, ha risposto: «Le quattro dita di Totti? Cose da campo, di 20 anni fa. Se resto qui il prossimo anno e gioco contro la Roma, quando lo vedo gli do un bacio. Totti è uno dei più forti di sempre».
A fine stagione Lippi lascia e arriva Capello, strappato proprio alla Roma. Tudor, il cui futuro sembrava lontano da Torino vista la partenza del suo mentore, cambia idea, almeno secondo le parole di Moggi: «Lo scorso anno voleva andar via, invece dopo aver conosciuto Capello ha deciso di restare con noi: sono certo che tornerà il campione che è stato».
Non succederà: altri problemi fisici, più l’arrivo di Cannavaro e il ritorno di Thuram alla posizione di centrale, relegano Tudor al ruolo sgradito di ultimo della panchina, lui che era sempre stato il primo ad alzarsi quando c’era bisogno. Si congeda a gennaio, titolare in Coppa Italia in una partita contro l’Atalanta finita 3-3, con 3 gol di Andrea Lazzari. Qualche giorno dopo viene ceduto in prestito al Siena, all’interno di una larga operazione della GEA (legata a Moggi), che prevede anche il cambio di tecnico, da Simoni a De Canio.
A Siena, come per magia, Tudor ritrova la continuità: diventa subito titolare, gioca tutte le partite senza mai infortunarsi ed è fondamentale nella conquista della salvezza, ottenuta all’ultima giornata.
In estate va vicinissimo alla Lazio, ma Delio Rossi lo boccia: «Non mi piacciono i jolly, preferisco gli specialisti: uno che ha tanti ruoli, non ha un ruolo». Allora resta a Siena, in prestito. Gioca la sua ultima stagione in Serie A, senza saperlo, probabilmente. Ancora una volta aiuta il Siena a salvarsi, da difensore, che a questo punto è il suo ruolo, avendo perso - a causa degli infortuni - quella brillantezza dei vent’anni.
Pur avendo solo 28 anni, Tudor al Siena pare un giocatore al tramonto: sta perdendo i capelli, il fisico sempre massiccio appare bolso, i movimenti sempre più lenti e compassati.
Foto di CARLO BARONCINI/AFP/Getty Images
In estate la Juventus viene spedita in B dalla giustizia sportiva e Tudor torna a casa, per prendersi il suo posto, in difesa però: «Sono tornato alla Juve per sfruttare questa grande opportunità. Adesso voglio giocare in difesa, accanto a Kovac. Con la Nazionale croata abbiamo fatto un buon Mondiale, anche se io, tanto per cambiare, giocavo a centrocampo. Nella Juve possiamo ripeterci».
L’allenatore è Deschamps, che è stato suo compagno, e su cui pensa di avere una leva: «Ho parlato con Didier, mi ha detto che mi vede bene e che ora tocca soltanto a me». E però, si fa male ancor prima dell’inizio della stagione, al menisco, e sembra quasi uno scherzo: dopo un anno e mezzo passato quasi totalmente sano a Siena, appena indossa nuovamente la maglia della Juventus, Tudor si infortuna nuovamente.
La società prova a rescindere il contratto del croato, ma alla fine desiste e aspetta la sua naturale scadenza, in estate. Tudor lascia la Juventus e se ne torna all’Hajduk Spalato, lì dove era cresciuto e dove gioca un’ultima stagione prima di dare l’addio al calcio, ad appena 30 anni, per i troppi problemi fisici.
Un giocatore sfortunato
In totale Tudor è stato un giocatore della Juventus per 9 anni, dall’estate del 1998 a quella del 2007. Le presenze sono state 174, non tutte dal primo minuto. Indagando, quello che salta all’occhio è che la prima stagione in bianconero, a 20 anni, è quella in cui ha giocato di più, e per distacco: 2826 minuti, solo in un’altra stagione ha superato i 2000 minuti. Ha giocato, in media, molti più minuti in Serie A nella stagione e mezza al Siena.
Appena lasciata la Juventus, alla fine naturale del contratto, Tudor è stato parecchio critico: «La Juve? Lì ho imparato a conoscere un professionismo brutale, senza cuore. Quando giochi e sei bravo, sono tutti attorno a te. Ma quando non giochi oppure sei in lista di cessione, non ti considerano più».
Ancora: «Io ero presente e ho visto alcuni giocatori mitici degli ultimi anni come Antonio Conte e Paolo Montero che se ne sono andati senza ricevere neanche un fiore dalla società».
Volendo riassumere la sua esperienza in bianconero potremmo dire che per Lippi era un titolare, per Ancelotti uno dei giocatori di rotazione, mentre Capello non lo ha neanche guardato. Le sue partite migliori le ha giocate a centrocampo, ma le stagioni più ricche sono quelle da difensore. È sempre difficile parlare di “sfortuna” per un’atleta, una figura che deve imparare prima di tutto a conoscere il proprio corpo, ma per Tudor sembra stare proprio tutto lì, nella sfortuna.
Un infortunio alla caviglia si è trasformato in un calvario infinito. Un giocatore moderno e duttile, in uno lento e macchinoso. Ad un problema se ne sono aggiunti altri mille. La storia di Tudor è quindi una storia di punti interrogativi, di rimpianti. Anche i gol più importanti hanno finito per rimanere in sospeso: se la Juve non avesse perso a Perugia, se Van der Saar avesse respinto meglio quel pallone, se i rigori a Manchester avessero preso un’altra direzione.
Ancora sfortuna.
Il suo calcio era spesso sopra le righe. Alla bellezza di alcune giocate “da centrocampista”, si sono sempre contrapposti gli errori, gli svarioni “da difensore”. Ai gol, le distrazioni. Tudor non è stato un fenomeno, ma un calciatore evidente, nel fisico e nel gioco. Uno di quelli che voleva il pallone tra i piedi, che guardava in avanti, che rischiava per cercare dei vantaggi. Forse per questo è stato tanto amato dai tifosi, perché era timido, ma poi si faceva le frezze bionde, perché era giovane, ma non aveva paura.
Parlando di lui qualche anno fa, Buffon ha detto che Tudor aveva «temperamento» ed era accompagnato da «una sana follia». Purtroppo non è bastato, perché gli infortuni, la sfortuna, è stata più grande, più forte.
Ma la storia, neanche quella del calcio, non si fa con i "se" e con i "ma", e per Tudor quel che resta è un posto nella memoria dei tifosi. Chissà se gli basta.