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Marco D'Ottavi

Il bello del giovedì sera 2024 vol.11

Tutto il meglio da due competizioni che sembrano tre.

 

Conosci la tua squadra del giovedì sera: Olympiakos

 

 

La storia dell’Olympiakos è indissolubilmente legata al mare. Fu Notis Kamperos, ufficiale della marina militare, a proporre il nome Olympiakos. Fu un armatore, Miltiadis Marinakis, tra gli altri, a rilevare il club nel 1979. È un armatore, suo figlio, Evangelos Marinakis, a controllare il club oggi.

 

La famiglia di Miltiadis possiede una delle più grandi fonderie del paese, celebre per forgiare le campane per le chiese cretesi. Nel 1970 compra la sua prima nave e crea una compagnia di navigazione, che verrà poi ereditata dall’attuale presidente dell’Olympiakos, Evangelos, che la rende una delle compagnie navali più grandi al mondo. La sua flotta mercantile conta 120 navi per un totale (approssimativo) di 12,5 tonnellate. Dopo aver comprato tutte le navi, Marinakis si è comprato tutti i giornali, e nel 2010 ha acquisito la proprietà dell’Olympiakos. (Se volete sapere di più su Marinakis c’è questo bel pezzo di Sborchia su Sportellate).

 

Stiamo parlando della squadra più titolata di Grecia, della nona squadra più titolata al mondo – un conto da cui prima o poi bisognerebbe escludere le squadre scozzesi. Una squadra che pochi anni dopo la sua nascita, per la fusione delle due maggiori squadre del Pireo, è rimasta imbattuta per tre anni consecutivi, dal 1926 al 1929. Ha senso questa cosa?

 

Quando i nazisti occuparono la Grecia diversi giocatori dell’Olympiakos si arruolarono nell’esercito di liberazione nazionale. Nikos Godas, giocatore biancorosso, venne imprigionato e condannato a morte. Gli misero davanti un documento da firmare in cui avrebbe dovuto rinnegare l’ideologia comunista. Rifiutò. Le sue ultime parole furono: «Sparatemi e uccidetemi con indosso la maglia dell’Olympiakos e non bendatemi. Voglio vedere i colori della mia squadra all’ultimo sparo».

 

«Non posso diventare e non voglio diventare il Berlusconi greco» dice Marinakis una volta arrivato all’Olympiakos. Non è del tutto chiaro cosa intendesse, ma il suo primo mercato è il corrispettivo greco dell’arrivo dei tre olandesi a Milano. Una volta messo il benzinaio Valverde in panchina arrivano in campo: Albert Riera, Ariel Ibagaza, Kevin Mirallas, Marko Pantelic e François Modesto. Un mix di esseri umani su cui guarderei un reality show. Ibagaza il tipo grosso, dolce e stupidino; Modesto quello che pensa solo a fare l’amore; Riera che sa tutte le canzoni di Battisti alla chitarra; Mirallas era molto bello e talentuoso a 20 anni, ma a 22 giocava già troppo alle slot.

 

È un Olympiakos glorioso, che infila due vittorie consecutive del titolo, e qualche successo di prestigio pure in Champions League. Un 3-1 contro l’Arsenal mostruoso. Un gol più ridicolo dell’altro, i nomi dei marcatori uno peggio dell’altro: Djebbour, David Fuster, Modesto. Avete presente Modesto. Corsica, Reggina, Walter Mazzarri, oggi ds e col look di un giovane rampollo dell’Inghilterra elisabettiana.

 


Nell’era Marinakis l’Olympiakos si è definito come l’archetipo di una certa squadra greca. Un cimitero degli eleganti, ma a suo modo elegante. Marinakis ha collezionato giocatori che avevano superato il loro picco. E li ha presi in pratica di ogni livello. Profili di media-bassa classifica come Ibagaza o Modesto; icone di culto come Saviola o Darko Kovacevic; giocatori generazionali come Rivaldo. Si parla di questo tipo di squadre come se fossero uno squallido insieme di mercenari a fine corsa, ma – spesso guidati da allenatori – spagnoli, ci hanno offerto partite di culto e momenti indimenticabili in cui la nostra normale concezione del tempo è risultata sospesa. 

 

Ieri, per esempio, a un certo punto Stevan Jovetic è tornato a far gol in un quarto di finale europeo. Come è possibile, vi chiederete voi. Questo è il tipo di magia dell’Olympiakos che è puro giovedì sera. La squadra ha vinto 3-2 ribaltando il pronostico iniziale.

 

La partita epica di Stephan El Shaarawy

 

«Quando ho detto a El Shaarawy che lo avrei fatto giocare a destra ho capito dal suo linguaggio del corpo che avrebbe fatto una grande partita» ha detto Daniele De Rossi ai microfoni al termine di Roma-Milan. 

 

La scelta di mettere El Sha a destra, sulla fascia opposta rispetto a quella su cui ha costruito la carriera, aveva uno scopo difensivo: bloccare la catena di sinistra del Milan. In quella zona la Roma schiera Dybala, di solito, e costringe Cristante a un lavoro di copertura supplementare. El Shaarawy ha un’altra tenuta fisica, e uno spirito di sacrificio che sfiora direttamente l’autolesionismo. C’è un gol che racconta questo estremismo del “Faraone”. Lo ha segnato lo scorso anno sempre nei quarti di Europa League, contro il Feyenoord. El Shaarawy gioca una partita, anche in quel caso, di grande sacrificio, fisicamente devastante. Era entrato dopo venti minuti per l’infortunio di Wijnaldum, e ne ha dovuti giocare 100. In più momenti pareva non averne più, ma a pochi minuti dalla fine dei supplementari ha ancora la forza per andare a chiudere in porta un cross che solo lui avrebbe potuto chiudere. El Shaarawy è quel giocatore lì, che accumula uno scatto di troppo dietro l’altro.

 

Ieri dopo quattro minuti c’è già una piccola parabola della sua partita. Theo Hernandez gli parte alle spalle e gli tocca rincorrerlo. Poi la palla arriva a Leao, e allora gli tocca accorciare in avanti. Recupera e riparte.

 

Così, in questo lavoro duro, di fatica, per novanta minuti. Alternarsi con Cristante e Celik per non farsi prendere in mezzo nelle rotazioni della catena di sinistra del Milan. Ma poi ripartire, sfruttare l’inclinazione offensiva di quel lato degli avversari, e mettergli il dubbio. Infilarsi come una spina tra le unghie. Dal lato di El Shaarawy la Roma ha ottenuto il calcio d’angolo del gol, da un suo tiro parato da Maignan. Dal suo lato la Roma ha costruito le migliori occasioni del suo primo tempo. Dal suo piede è partito il cross smanacciato da Maignan che Lukaku non è riuscito a mettere in porta. Dal suo piede è partito il cross su cui Gabbia stava per farsi autogol. In un paio di occasioni ha sbagliato la scelta tra tirare o scaricare in mezzo, invertendo forse la decisione giusta. Tutto sommato, però, ha mantenuto un’invidiabile lucidità, visto il lavoro fisico a cui è stato costretto. È stato il giocatore della Roma con più tocchi in area pericolosi.

 

È significativo che una delle migliori partite in carriera sia arrivata a San Siro, nello stadio nel quale avrebbe dovuto consacrarsi come uno dei migliori giocatori al mondo; contro la squadra di cui si pensava sarebbe diventato una leggenda. El Shaarawy invece è oggi una bandiera della Roma, e si è preso questo posto attraverso delle qualità che non erano visibili a inizio carriera: l’umiltà, la dedizione, lo spirito di sacrificio, il giocare sempre a favore dei compagni e del collettivo.

 

 

Organizza la tua trasferta: Bergamo

 

Per le squadre che portano nomi diversi dalla città in cui risiedono è un attimo distrarsi. Quando parliamo di Atalanta ci vengono in mente le marcature a uomo, Ilicic e Gomez, al massimo il magico centro sportivo di Zingonia. Raramente finiamo per abbinarla a Bergamo, questa città un po’ misteriosa, piazzata lì sopra Milano di cui alla fine sappiamo solo che esiste una parte alta e una bassa. 

 

La visita del Liverpool è l’occasione giusta per una mini-trasferta alla scoperta di Bergamo. 

 

Come arrivare: a piedi da Milano

Dirottate il treno su cui siete – va bene uno qualunque – verso Milano Centrale e poi da lì avviatevi a piedi. Potete optare per la bicicletta, ma l’Italia non è un paese per biciclette: soprattutto a Milano, meglio andare a piedi. Imboccate via Soperga e poi da lì sono meno di 48 chilometri, 10-11 ore di cammino in base a quanto è svelto il vostro passo. Usciti dal centro di Milano, è quasi tutto Naviglio. Se vi state chiedendo il perché, vi consiglio la lettura del saggio Camminare di Henry David Thoreau. Lungo la strada si passa per Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Osio. Posti così, che almeno una volta nella vita vale la pena di passarci, anche solo per capire di che si tratta. 

 

Delle carte: Il mazzo Pierpont-Morgan Bergamo



 

L’Accademia Carrara è un museo sorprendente nella sua bellezza, e niente è più sorprendente di queste carte dei tarocchi realizzate da Bembo Bonifacio per la famiglia Sforza. È un mazzo realizzato nella prima metà del ‘400, una testimonianza di come ci si divertiva nei palazzi all’epoca. Da questo tipo di carte, poi, hanno origine le carte che usiamo oggi. 

 

Un mazzo completo è composto da 78 carte, ma in questo ne sono rimaste 74 (20 trionfi, 15 figure e 39 carte non figurate). 35 si trovano nella biblioteca Pierpont-Morgan a New York, 13 fanno parte della collezione privata della famiglia Colleoni e 23, appunto, potete ammirarle all’Accademia Carrara. 

 

Secondo una leggenda, in questo particolare mazzo si può scrutare l’Atalanta di Gasperini: l’allenatore sarebbe l’imperatore, Percassi è il Papa, De Roon e Freuler sono gli amanti, Zapata è la forza, Scamacca è il matto, Ilicic il bagatto, il resto continuate voi…

 

 

Degli scheletri: il ciclo di Scene di scheletri viventi

 

 

Da fuori la chiesa di Santa Grata inter Vites di Borgo Canale (a Bergamo Alta) non sembra granché, in un Paese che sulla bellezza delle sue chiese ci campa da secoli. Ma non fatevi fregare: entrate perché all’interno è conservato una delle più curiose serie di pitture che vi capiterà di vedere. 

 

L’autore è Paolo Vincenzo Bonomini, nato e cresciuto proprio a due passi dalla chiesa. Un giorno gli chiedono di realizzare alcuni dipinti per ricordare la celebrazione del triduo dei morti, tra il 1802 e il 1810 se siete tra quelli fissati con le date, e lui lo fa. Il risultato sono sei quadri che rappresentano scene più o meno quotidiane con scheletri come protagonisti: c’è la coppia borghese, il tamburino, un frate nell’atto di dipingere. Se credete che l’arte abbia il potere di raccontare storie, qui c’è una storia. 


Secondo una leggenda, in questi dipinti to particolare mazzo si può vedere l’Atalanta di Gasperini: il tamburino sarebbe Scalvini, la coppia borghese De Ketelaere e Mirančuk, il resto continuate voi…

 

Un museo: il museo del burattino 

 


Pensateci, ci sono poche cose migliori di un burattino. Un burattino è: un pupazzo con cui giocare, un elemento importante della cultura e del folklore del nostro paese, un insulto raffinato. A Bergamo gli hanno dedicato un museo per conservare la storia e promuovere il Teatro di Figura. Dentro ci trovate burattini del passato, burattini del presente, burattini belli e burattini brutti. Il museo nasce per conservare l’eredità artistica di Benedetto e Pina Ravasio, che furono due dei più importanti burattinai del ‘900, proprio a Bergamo. 

 

Tra l’altro, secondo una leggenda, nei burattini presenti nel museo si può guardare l’Atalanta di Gasperini. Holm è Gioppino, Bakker è Brighella, Koopmeiners è Arlecchino, il resto continuate voi…

 

Un pollaio: il pollaio dei Verdena

 


C’è questa cosa che se, giustamente, state in fissa coi Verdena, sapete che hanno riadattato un pollaio a studio di registrazione. Precisamente si trova ad Abbazia, una frazione di Albino, provincia di Bergamo. Se ci passate magari li beccate (se li beccate, soprattutto Alberto, occhio a come vi ponete) o magari no: vale la pena provarci (sempre se, giustamente, state in fissa).

Secondo una leggenda, nelle canzoni dei Verdena ci puoi ascoltare l’Atalanta di Gasperini: Le Tue Ossa Nell’Altitudine è Ilicic, razzi arpia inferno e fiamme è Gosens, 40 secondi di niente è Mojica, il resto continuate voi…

 

 

I migliori duelli di Tomáš Chorý


Abbiamo passato il martedì e il mercoledì a spellarci le mani: il calcio sarà pure diventato un casino, ma che spettacolo. Ci sono passati sotto gli occhi i gol del City e del Real, quelli di Arsenal, Bayern, Barcellona. Il giovedì allora è un bagno di realtà, il calcio che torna umile, alla sua essenza originale. Cosa meglio di un centravanti di due metri, messo lì a fare a botte con i difensori della Fiorentina con il puro scopo di perdere qualche secondo? Tomáš Chorý è alto 199 centimetri, ha più spigoli di un uomo normale e ieri è stato un incubo per gli avversari in bianco. Questi sono alcuni dei suoi migliori duelli, riportati come semplici verbi, perché la prosa deve essere asciutta.  

 

Intimidire

 

Pronti via, dopo neanche 4 minuti Chorý inquadra in Martinez Quarta il suo nemico e lo battezza. Non c’è nessuna ragione per entrare così, con una spallata dritta sulle costole, se non intimidazione, un messaggio mafioso: siamo io e te, 90 minuti insieme e possono essere molto lunghi. 

 

Sabotare

 

L’arte del duello aereo prevede non solo di vincerlo, ma anche di farlo perdere all’avversario. Chorý passerà una partita così, a disturbare tutti a non toccare il pallone ma non farlo toccare neanche agli altri: non riesco a immaginare una forma più pura di questo sport. 

 

Spizzare 

 

Chorý era l’obiettivo di tutti i lanci lunghi del Viktoria Plzen. Non ci sono statistiche, ma credo di non sbagliare dicendo che ieri ha toccato più palloni con la testa che con i piedi. Spizzare un pallone di testa, semplicemente perché lo puoi fare, è una delle più belle sensazioni che puoi vivere su un campo da calcio. 

 


Proteggere

 

Non tutto è duello aereo. I centimetri non servono solo in aria, anche a terra. Guardate come si può proteggere e ripulire un pallone sporco in mezzo a quattro avversari solo usando il corpo. 

 

Intromettersi



 

Chi l’ha detto che quando un pallone non è indirizzato a noi, non possiamo ingaggiare un duello aereo? 

 

 

Jurgen Klopp, anche meno

 

Si può dire che Klopp ha sottovalutato l’Atalanta? Era davvero difficile, nel 2024, riconoscere il valore della squadra di Gasperini, il fatto che per affrontarla bisogna – quanto meno – arrivare preparati al tipo di partita che sarà. Klopp, con scelte e parole, ha lasciato intendere che – o non lo aveva capito – o pensava non potesse essere un problema. Ecco un breve elenco dei suoi errori. 

 

Italia? Mai sentita

Prima della partita hanno chiesto a Klopp se, magari, ora che è un allenatore libero, stava pensando di venire ad allenare in Italia. A quel punto l’allenatore del Liverpool ha dato una risposta che sarebbe stata profetica: «Le uniche cose che conosco bene dell’Italia sono il cibo e la parola ‘salve’». Da oggi, almeno, conosce anche l’Atalanta (Klopp, in caso, vieni a fartelo un giro da queste parti: abbiamo il sole, il mare, l’arte e il 3-5-2 con le marcature a tutto campo).

 

Il mio dentista è di Liverpool

A Klopp hanno anche ricordato la famosa frase di Guardiola, che affrontare l’Atalanta «è come andare dal dentista». L’allenatore del City è famoso per esagerare nei complimenti, eppure aveva funzionato: un modo efficace di descrivere lo stile di gioco della squadra di Gasperini. Klopp, però, è entrato nella sua fase distruttiva: «Anche giocare contro di noi può essere paragonabile a una visita dal dentista» è stata la sua risposta, lasciandosi sfuggire il senso profondo di questa metafora. Ha anche aggiunto che il suo dentista è di Liverpool, forse pensando che davvero si parlava di denti e non di calcio. Qui, comunque, c’è un articolo su questo dentista di Liverpool, famoso per aver messo denti da cavallo a Klopp e Firmino. 

 

La formazione titolare

 

Il Liverpool si sta giocando la Premier League con Arsenal e City e sicuramente ha influenzato le scelte di Klopp. Davvero, però, doveva fare tutto questo turnover per prepararsi ad affrontare il Crystal Palace? Questa era la panchina del Liverpool al fischio d’inizio. 

 

 

Dopo sono bravi tutti

 

Dopo la partita Klopp era distrutto, proprio – mi viene da dire – una lunga seduta dal dentista. Ha riconosciuto i meriti dell’Atalanta, sottolineando con un certo stupore quello che è – per definizione l’Atalanta: «Congratulazioni all’Atalanta per il bel lavoro, ha giocato molto bene. Ha avuto grande disciplina tattica nel difendersi e nel pressing a tutto campo, vincendo i contrasti».

 

Gian Piero Gasperini allenatore del Liverpool?

 

Ieri James Horncastle, al termine di Liverpool-Atalanta, ha messo il pubblico inglese di fronte alla realtà. Gasperini ha sconfitto l’attuale allenatore del Liverpool e anche quello che si dice sarà il prossimo allenatore del Liverpool, Ruben Amorim. Ma non è che il Liverpool dovrebbe pensare a lui come nuovo allenatore?

 

Come giustamente nota Horncastle, stiamo parlando dell’allenatore italiano più influente degli ultimi quindici anni, almeno in Serie A. Perché non si parla di lui per un club d’elite? Certo, non è detto che lui accetterebbe. Gasperini sta bene a Bergamo, e l’Atalanta è a suo modo un club d’elite, ma perché non è mai incluso nella conversazione per le panchine più importanti che si liberano?

 

I suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti. Fino a qualche anno fa poteva ancora reggere la favoletta di Gasperini talebano tattico che può far giocare bene solo un certo tipo di giocatori. Ma all’ennesima ricostruzione dell’Atalanta, con giocatori sempre diversi, e dai livelli molto differenti tra loro, si può ancora dire una cosa del genere? Ora che l’Atalanta sa interpretare più spartiti tattici, modulare gli atteggiamenti,  trovare contromisure strategiche, regge ancora questa ideuccia di Gasperini come dogmatico e intransigente? Non basta battere alcune delle migliori squadre italiane ed europee, facendolo talvolta anche in eliminatorie andata e ritorno?

 

Forse l’unico dubbio che può ancora legittimamente aleggiare attorno a Gasperini è quello umano. Se diamo per scontato che le qualità comunicative, all’interno e all’esterno dell’ambiente squadra, abbiano un peso, è lecito avere qualche dubbio su Gasperini. Il tecnico ha un certo curriculum di litigi coi propri migliori talenti, e la sua idea collettivista rischia di arrivare al classico nodo sacchiano che trattare tutti allo stesso modo può non essere la strategia più efficace. Ieri dopo la partita, per chiarire che il doppio confronto non è ancora chiuso, ha citato la rimonta in finale di Champions League a Istanbul. Siamo sicuri che evocare la narrazione epica del Liverpool gli sia convenuto? La frase poi è stata molto ripresa in Italia per provocare i tifosi milanisti. Siamo sicuri che un manager d’elite possa permettersi questo tipo di leggerezze comunicative? 

 

È solo un dubbio, sollevato con un esempio stupido, ma è per trovare il pelo nell’uovo.

 

L’arte della necromanzia tra Fenerbahce e Olympiakos

 

Ulisse si presenta di fronte ai cancelli dell’ade e segue il rituale insegnatogli dalla maga Circe. Scava una fossa e dentro ci mette latte col miele, vino e acqua. Sono i pasti prediletti dei morti. Sopra ci sparge farina e chiama le anime dei morti con cui vuole parlare.

 

Che tipo di rituale hanno seguito Fenerbahce e Olympiakos per richiamare dall’ade i giocatori in campo ieri?

 

In queste anni abbiamo usato molte definizioni per le squadre del giovedì sera, ma vorremmo provarne una nuova oggi. Le squadre migliori del giovedì sera sono quelle specializzate nella necromanzia, detta anche psicomanzia. Si tratta di una pratica di divinazione con cui si evoca lo spirito dei morti. È diffusa praticamente da sempre e in ogni angolo del mondo, e nel calcio di oggi è particolarmente in voga nei club turchi e greci. Non stupisce, visto che la mitologia greca classica ha sempre avuto un rapporto intimo col regno dei morti.

 

Non si tratta, però, di evocare solo lo spirito dei morti in questo caso, ma anche il loro corpo; oppure l’illusione del loro corpo, così come ce lo ricordiamo. La partita di ieri, tra Fenerbahce e Olympiakos, allora, è stata una sfida tra ombre, tra fantasmi di giocatori che furono. Leggende del calcio di anni fa, che non dovrebbero più appartenere allo spettacolo sportivo del 2024, ma che grazie alla divinazione negromantica sono ancora tra noi.

 

Avevamo ancora le partite di Champions negli occhi, e poi è arrivata questa sfida zombie, funerea eppure così piena di vita, ancora. Prima avevamo visto i nuovi modelli di esseri umani: Lamine Yamal, Pedri, Zaire-Emery, Musiala, Vinicius Jr.: tirati a lucido come auto sportive, e poi queste salme riesumate direttamente dalla nostra infanzia, da un tempo in cui compilavamo ancora il diario scolastico.

 

A un certo punto ha segnato Stevan Jovetic con un tiro passato sotto le braccia del portiere. Quasi non ci credeva nemmeno lui. Ha abbracciato Kostas Fortounis con uno strano abbraccio mortuario. In generale l’Olympiakos ha giocato con l’energia nervosa dei non morti, delle anime incastrate nello spazio luminale tra la vita e la morte. E così ha fatto il Fenerbahce nell’ultima mezz’ora, uscendo dalle tombe. Davanti ai nostri occhi, in questa sfida tra dannati, sfilavano anziani artisti come Dzeko o Tadic. Solidi mestieranti come Panagiotis Retsos o Rade Krunic. Vecchi sicari dell’area di rigore come El Kaabi, che pensavamo fosse El-Arabi, finché non è entrato El-Arabi stesso. A un certo punto compare pure Bonucci. E poi, ancora, scommesse che pensavamo ormai scomparse, risucchiate, dalla realtà, e che invece vediamo ancora: Miha Zajc, Caglar Soyuncu, Fred. E Jovetic a fare da totem a tutti loro.

 

È stata una partita bellissima, perfetto contraltare dello zero a zero sterile e anti-vitale di Viktoria Plzen-Fiorentina. Un 3-2 in cui vince la squadra sfavorita, davanti a uno stadio infiammato dal tifo per questi giocatori un tempo alla moda, e oggi finiti ai bordi del sistema, da dove – però – il panorama è bellissimo.

 

 

Lasciateci guardare Azzedine Ounahi giocare

 

Ieri è entrato in campo più o meno a mezz’ora dalla fine e dal suo piede è partito un bel tracciante di piatto in verticale che Aubameyang ha messo in porta con la facilità di chi custodisce un segreto sul giovedì sera. Per il resto la partita di Ounahi è stata amministrativa. E tuttavia non si può non sottolineare lo stile con cui Ounahi porta a spasso il suo corpo in giro per il campo, flessuoso come il caucciù. In questi highlights non fa davvero niente di speciale, ma è nell’ordinario che sta la bellezza di Ounahi.

 

Perché il Principe William tifa Aston Villa?

Tornano le grandi inchieste del giovedì sera, questa volta con l’idea di rovesciare la monarchia inglese. Come dite? Impossibile? Niente è impossibile qui, neanche che il futuro re d’Inghilterra in uno dei momenti più tragici personali e del Regno – padre malato di cancro, moglie malata di cancro o forse scomparsa, forse proprio uccisa da lui, fratello scapestrato, lui accusato di essere fedifrago – decide di fare la sua prima uscita pubblica coi figli per andare a vedere la Conference League. Non la fottuta Champions League o il golf, la caccia alla volpe, le freccette, l’esecuzione di Robin Hood. No: Aston Villa-Lilla, che fa pure rima e c’è. 

 

Il fatto è che il Principe tifa Aston Villa, che è una di quelle notizie che – se ci pensate un attimo – non ha nessun senso. William è nato a Londra e, se fosse una persona normale, probabilmente dovrebbe tifare una delle 100 squadre di Londra. Ma William non è cresciuto a Islington o Millwall, neanche a Chelsea: cresciuto su una nuvola. Come si decide per che squadra tifare se cresci su una nuvola? Come ha raccontato lui stesso, la scoperta del calcio è arrivata a scuola, quando è entrato in contatto con dei plebei (o almeno con una nobiltà inferiore). Lì si è appassionato a questo passatempo triviale. William però era così vergine che per scegliere la squadra non si è fatto guidare da qualche zio pederasta, da un calciatore brillante o anche dalle vittorie di qualche club. No: William ha scelto a tavolino: «Non volevo tifare le solite squadre che vincono» ha rilevato con una certa punta di snobismo, «volevo una squadra da metà classifica, che potesse regalarmi momenti più emozionanti sulle montagne russe». Un ragionamento un po’ del cazzo, se permettete. 

 

Comunque, è diritto di tutti scegliersi la propria squadra, anche di un futuro Re, almeno fino a quando non gli taglieremo la testa (scherzo). Fra tutte le squadre da metà classifica, perché proprio l’Aston Villa? La squadra di una città, Birmingham, salita alla ribalta del mondo per una serie tv di maschi tossici. La sua risposta è stata che sentiva una connessione con l’Aston Villa perché aveva vinto la Coppa dei Campioni nel 1982, il suo anno di nascita.

 

Questa notizia che l’Aston Villa ha vinto la Coppa dei Campioni, pur sapendola già, mi ha troppo stranito. Volevo scoprire qualche sporco segreto della monarchia inglese, sono finito invece per deprimermi. Perché l’Aston Villa ha vinto una Coppa dei Campioni e il Bologna o l’Atalanta? Neanche il Napoli ci è riuscito. C’è qualcosa nel calcio inglese che non ce l’ha racconta giusta, a partire dal suo principe e futuro Re.
 

 

Viviamo tutti nel mondo del Bayer Leverkusen 

 

Ok l’Atalanta che fa tre gol ad Anfield, ok De Rossi che la incarta a Pioli, ma anche il giovedì il mondo rimane la giostra di Xabi Alonso e della sua squadra. Ormai è difficile anche solo provare a essere obiettivi. Contro il West Ham è arrivata la quarantaduesima partita senza sconfitte, che messa così è già abbastanza impressionante, ma nel dettaglio è anche peggio: sono 37 vittorie e appena 5 pareggi, 118 gol segnati e 31 subiti (+87, ridicolo) (se volete capire meglio questo glitch tedesco nel gioco del calcio, ne abbiamo parlato in Lobanovski, e su Ultimo Uomo).

 

Il West Ham ha vinto la Conference League, negli ultimi anni in Europa ha fatto sempre bene. È una squadra forte, ma ieri è stata scherzata dal Bayer: 32 tiri a 1, 73 a 27 nella percentuale di possesso palla. Il Bayer ha effettuato più passaggi nella trequarti del West Ham (377) di quanti ne abbiano fatti gli inglesi in totale (303). Vi mettiamo qui questa azione accelerata a x3 a puro titolo d’esempio.

 

 

È indicativo, però, che – alla fine – per vincerla sono serviti gli ultimi 10 minuti e l’ingresso in campo di Jonas Hofmann, uno dei nomi meno chiacchierati, autore del primo gol e dell’assist per Boniface, anche lui entrato dalla panchina. È il segno di una squadra dove tutti sono a loro agio, connessi con l’obiettivo. 

 

Cosa può farvi un tiro di Pasalic

 

Forse avete visto la piuttosto incredibile parata di Caoimhín Kelleher su Pasalic dopo appena 3 minuti (altrimenti la trovate qui). Il centrocampista dell’Atalanta è arrivato a calciare da un metro dalla porta, Kelleher ha potuto solo provare a mettere il corpo e sperare. Il piatto di Pasalic l’ha colpito dritto in faccia: un miracolo, visto dal punto di vista dei tifosi. In diretta il tiro di Pasalic non sembrava fortissimo, più un appoggio di quelli facili, ma quando Kelleher si è rialzato, questo era lo stato della sua faccia. 

 

Questo è quello che può fare alla vostra faccia il tiro di piatto di un giocatore dell’Atalanta.

 


Gol più giovedì sera

 

Virilità: 1000

Assurdità: 10 

Anti-epicità: 10 

Paura della morte: 10

 

 

Partiamo dall’inizio, dal calcio d’angolo. Guardatelo con attenzione: non vi sembra fuorigioco? Bailey riceve il passaggio da Douglas Luiz e con la gamba destra è oltre il pallone. Fuorigioco su calcio d’angolo? Che stranezza. E, infatti, ho scoperto che – e magari lo scoprite anche voi – non c’è mai fuorigioco su calcio d’angolo. Perché? È così e basta, non fate domande: è come la paura della morte. E ce n’è molta in questo gol. Guardate l’assist di Bailey, uno slancio di genialità prima di mettere il culo a terra, un’imbeccata brillante fatta pattinando, perdendo l’eterna sfida contro la gravità eppure vincendola, riuscendo in qualche modo a indirizzare il pallone sulla mattonella perfetta per John McGinn.

 

Ora dobbiamo parlare un attimo di John McGinn. Scozzese, faccia da scozzese, barba da scozzese, fisico non troppo da scozzese. Per i tifosi è un idolo, lo chiamano McGinniesta, ma con un fondo d’ironia, come a dire: è l’Iniesta che possiamo permetterci. Quando segna mima degli occhiali, lo fa per supportare suo nipote, che è costretto a indossarli per giocare, ma che si vergognava: ora non più, grazie a McGinn indossare gli occhiali è diventato cool. È arrivato all’Aston Villa nel 2018, con la squadra in Championship, ora sono quarti in Premier e lui mima gli occhiali nei quarti di finale di una competizione europea. Soprattutto fa questo gol che ho visto fare solo a Toni Kroos, e McGinn forse non è Iniesta, ma di sicuro non è neanche Kroos. Questi tiri che sembrano colpi di biliardo, che potrebbero andare anche più lenti, ma che sono impossibili da parare, come se conoscessero i segreti della geometria. 

 

Insomma, un bel gol, con una bella storia. Voi però vi starete chiedendo dov’è il giovedì sera qui. Se non riuscite a trovarlo nella scoperta dell’inesistenza del fuorigioco sul calcio d’angolo (Assurdità), nel passaggio scivolato di Bailey (Paura della morte) o nel gol del simpatico McGinn (Anti-epicità), la troverai nel fatto che questa era la 1000 partita da allenatore di Unai Emery (Virilità), e non c’è nessuno più giovedì sera di lui, il re del giovedì sera, un uomo forgiato in questa atmosfera fatta da troppo gel per capelli e un terribile ma amorevole accento inglese. 

 

Cose che accadono solo il giovedì


Questa rubrica è diventata così decadente che non ho neanche la forza di introdurla. Fatevi bastare questo. 

 

L’Europa League, ma con tutti quei rimpalli che se fossero stati i gironi l’avremmo trovato divertente invece adesso è solo il Bayer Leverkusen che prende a pallate tutti

 

 

 

La Conference League, ma c’è uno che somiglia vagamente a tuo nonno  

 

 

 

L’Europa League, ma in tutta la maestosità dello scibile umano per quanto riguarda le sue taglie

 

 

 

La Conference League ma la tua squadra sta giocando così male che fai finta di avere la tosse

 

 

 

Che dio vi protegga!

 

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.

Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021) e "Visionari, la percezione alterata degli sportivi" (Einaudi, 2024).