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Il calcio e l'arte della finzione
06 mag 2020
Superare un avversario senza toccare il pallone è una forma d'arte antica.
(articolo)
9 min
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Per quanto ci sforziamo di pensarlo come uno sport complesso, è difficile non ridurre il calcio al gioco del pallone. Nel nostro gergo usiamo “giocare a pallone” come equivalente di “giocare a calcio”; quando usiamo i due concetti in modo disgiuntivo è per indicare la differenza tra i calciatori che riescono a visualizzare il quadro più grande e chi invece è concentrato solo sul rapporto con la sfera.

Quando diciamo “è innamorato della palla” vogliamo indicare un calciatore con un rapporto ancora infantile col gioco del calcio, che non ha ancora capito che la palla è un mezzo e non un fine. Proprio per questo rapporto intrinseco tra calcio e pallone mi affascinano i momenti in cui i calciatori manipolano il gioco senza bisogno di toccare la palla. Non mi riferisco al gioco senza palla, all’insieme di movimenti, smarcamenti e tagli che costituiscono l’87% del tempo di un calciatore su un campo da calcio: sto parlando invece di quei momenti in cui i giocatori non toccano la palla intenzionalmente, facendo come se la toccassero. Nel nostro dizionario calcistico si chiamano “finte”, da “fintare”, cioè “simulare, nascondere ad arte”.

Tra i miei video preferiti di YouTube ci sono quelli che raccolgono le migliori giocate realizzate senza toccare il pallone. I loro titoli suonano ingenui e arcani allo stesso tempo: “Best Skills without touching the ball” o “Epic body feints” o “No touch dribbling”. Contengono solo azioni recenti purtroppo, nonostante quella della finta di corpo sia un’arte antica, che ha forse i suoi migliori interpreti in un calcio senza sufficiente copertura televisiva.

Lo scrittore francese Olivier Guez, nel suo Elogio della finta, descrive il mondo dei folli e misteriosi dribblatori brasiliani della prima metà del novecento: Carlos Alberto detto “Cipria”, Arthur Friedenreich detto “El Tigre”, Manoel Francisco dos Santos detto “Garrincha”, Leonidas da Silva detto “La Zanzara”. Tutti maghi del dribbling, l’arte dell’elusione, della schivata, del depistaggio. Quella del dribbling è una specialità brasiliana per le particolari condizioni socio-antropologiche di un paese in cui calciatori neri non potevano letteralmente toccare quelli bianchi. La finta, allora, banalmente, era il modo che trovavano per spostare il corpo degli avversari da una parte mentre loro andavano dall’altra. L’escamotage trovato per continuare a giocare a calcio senza farsi pestare.

Guez paragona Garrincha a una mosca; nei suoi dribbling finiva per sterzare a destra, lo sapevano tutti, ma trasformava l’atteso nell’inatteso con un arabesco di movimenti vacui e leggeri che facevano prendere la strada sbagliata al marcatore. Secondo l’antropologo Roberto Da Matta Garrincha «monopolizzava a tal punto l’attenzione dei marcatori da provocargli una dissonanza cognitiva».

Ma i brasiliani, soprattutto, hanno capito prima degli altri che il calcio non è tanto un’arte dei piedi quanto del corpo. Il calcio in Brasile si fonde con la capoeira, la danza del contatto mancato. L’ultimo discendente della stirpe dei grandi dribblatori brasiliani, Neymar, è così maliziosamente avverso al contatto con i difensori che non appena viene toccato cade in terra disperato. Alcuni dei suoi dribbling propongono un apparato così esagerato di finte di corpo che non sembra neanche più calcio ma una danza delle ombre, un rito magico che finisce per incatenare i marcatori a immagini inesistenti. Come spiega Paolo Demuru nel suo bellissimo Essere in gioco, nel discorso comune i brasiliani “gingano” mentre giocano. E nel linguaggio brasiliano il verbo “gingare” si usa in modo quasi equivalente a danzare. La “ginga” è un movimento oscillatorio del corpo simile a quello della voga del marinaio, da cui il termine deriva.

Garrincha e Neymar sono barocchi, i loro dribbling somigliano a certe chiese drammatiche e seduttive di Salvador de Bahia. Ma le finte possono essere più minimali, piccole e impercettibili virgole in un’azione.

C’è un gol di Roberto Baggio che riguardo più degli altri. Non è il miracolo di dolcezza e sensualità dello stop con cui dribbla van der Sar in uscita, bensì è un gol segnato a Italia 90, quando aveva 23 anni e si muoveva in campo con la libertà di chi non aveva ancora conosciuto la delusione e gli infortuni. È un gol famoso, giudicato il settimo più bello della storia della Coppa del Mondo. Baggio prende palla a metà campo e la percorre tutta, da sinistra verso il centro, ed è così rapido che non ha neanche bisogno di dribblare veramente i marcatori che semina alle sue spalle. Quando arriva al limite dell’area comincia ad ancheggiare, per il difensore davanti a lui sembra sgretolarsi la terra da sotto ai piedi. Un attimo prima è proprio davanti a Baggio, negandogli la luce per il tiro, un attimo dopo si è discostato e Baggio può tirare di piatto, comodamente a rete. Nel mezzo è successo qualcosa di impercettibile. Guardandolo più volte al replay, scomponendo i fotogrammi, Baggio finta col corpo un movimento alla sinistra del difensore, ma poi ritorna sulla sua traiettoria di corsa. Di fronte al difensore della Cecoslovacchia si è agitato un fantasma che ha provato a inseguire. Non possiamo capire del tutto cosa abbia provato il marcatore in quel momento ma noi, come lui, abbiamo avuto la sensazione disorientante di esserci persi qualcosa.

Nel 2018, contro il Paraguay, Neymar ha segnato un gol simile. Anche lui ha percorso il campo fino all’ingresso dell’area di rigore e lì, con davanti il difensore, senza toccare il pallone, lo ha fatto scansare quel tanto che bastava per tirare in porta.

Nel genere dei mancati tocchi appena accennati, uno dei miei preferiti è quello di Riquelme. È un momento di presagio di genio che ha del misterioso. “El Mudo” è sulla trequarti e gli arriva un passaggio mentre è spalle alla porta. Finge di calciarla con un gesto lezioso, e invece la lascia scorrere a fianco; la palla sfila sotto le gambe del difensore e mette in porta l’attaccante. Riquelme, però, era imprevedibile per tutti, e il compagno si ritrova la palla tra i piedi sorpreso e impacciato. Siamo al massimo della rarefazione della tecnica calcistica.

La definizione di “finta” contiene già una dimensione interessante, che è quella della simulazione. Quando eseguono una finta, i calciatori generano un simulacro di sé stessi che inganna il marcatore. Un simulacro è una traccia, una parvenza, qualcosa dal regime ontologico ambiguo: qualcosa che è e che non è allo stesso tempo.

Un maestro della creazione di queste immagini spettrali è Angel Di Maria, detto “El Fideo”, lo spaghetto. Nei suoi dribbling il suo corpo sembra restringersi fino a diventare un’ombra sottile, oscillante e imprevedibile. C’è una sua azione famosa contro il Barcellona in cui per poco non manda all’ospedale Puyol con una finta. Fa per rientrare verso il centro e invece sterza verso il suo sinistro; il difensore cade per terra disarticolato come una bambola di pezza.

Alcuni non-tocchi contengono un pensiero creativo formidabile, prendiamo un’azione di Pelè. È uno dei mancati gol più celebri della storia del calcio. Contro l’Uruguay “O Rey” riceve un filtrante che lo mette davanti al portiere; quello è già uscito, coi piedi al limite dell’area, quando vede Pelè correre verso il pallone. Come spiegato da Demuru in questo estratto, Pelè aveva due opzioni plausibili: tirare di prima o continuare la corsa col pallone, e invece ne ha presa una così implausibile che rappresenta tuttora un unicum nella storia del calcio.

Pelè lascia sfilare la palla, corre attorno al portiere per andarla a riprendere e tirare. La conclusione finisce a lato di qualche centimetro. Non toccare il pallone che viene incontro rappresenta sempre la scelta più sorprendente, la meno intuitiva, quella che contiene il più alto grado d’astrazione.

Mezzo secolo dopo, Fernando Torres proverà una cosa simile, anche se meno ambiziosa, e forse proprio per questa riuscita. Riceve un passaggio superbo da Gerrard, ha il portiere addosso, finta di calciare e lo pietrifica; la palla scorre e a quel punto può calciarla in una porta vuota.

Le finte sono spesso il modo più violento con cui un attaccante strumentalizza il corpo del portiere. Nell’uno contro uno, senza troppa pressione, lo squilibrio nel controllo della situazione è enorme. Il centravanti ha il pallone e detta il tempo, arriva in corsa e ha diversi metri di porta da poter colpire; il portiere parte da una posizione statica, deve limitare i danni, è costretto a essere precipitoso. Certi attaccanti erano perfidi nel punire i portieri precipitosi.

Ronaldo, insieme forse a Romario, era il più perfido: le sue finte in movimento erano dipinti di Balla, i portieri venivano brutalizzati in modi a volte imbarazzanti. Ronaldo davanti al portiere raramente eseguiva finte violente, gli bastava accennare a un tocco, e questo nella testa dei portieri si ingigantiva. Seguivano l’istinto e finivano per terra. Ronaldo allora li schivava come i più passeggeri degli ostacoli.

Le finte di Ronaldo erano più efficaci per via della sua velocità prodigiosa. La corsa del “Fenomeno”, almeno al suo apice, sembrava scomporsi in fotogrammi; per un difensore diventava complesso capire quando colpiva davvero la palla e quando stava solo fingendo. C’è un’azione in cui Ayala abbocca a una finta e cade per terra come sbandando a un colpo di vento.

Il maestro dell’elusione attraverso il corpo oggi è Lionel Messi. Come per Ronaldo, la sua velocità costringe i difensori a partire con più anticipo possibile sui suoi movimenti: un vantaggio che sfrutta facendoli barcollare in modo spietato. Messi, a differenza di Ronaldo o degli altri brasiliani, non mette mai particolari fioriture nei suoi dribbling; le sue non sembrano neanche finte: è come se riuscisse a manovrare i suoi marcatori attraverso fili invisibili. In un vecchio pezzo su Grantland, Brian Phillips scriveva che Messi aveva la capacità di metterci nelle stesse condizioni dei difensori costretti a marcarlo: noi, come loro, non riusciamo a capacitarci del tutto dei suoi spostamenti in campo. Ma non sono d’accordo, se non altro perché per noi è impossibile immedesimarci del tutto con il disorientamento che i difensori provano sul loro corpo mentre rincorrono l’immagine fluttuante e impalpabile di Messi.

Ci sono video di quasi dieci minuti dedicati solo all’arte di Messi di non toccare il pallone creando vantaggi per sé e gli altri.

Messi è tra i pochi che può permettersi un uso così continuo di finte di corpo senza mai sembrare superfluo. Pochi, come lui, in questi anni sono riusciti a coniugare senso estetico e pratico. Per il resto le finte sembrano un orpello sempre più innecessario. Anche i calciatori più tecnici usano sempre il contatto per manipolare il gioco, e i loro dribbling non sembrano trucchi ma il frutto della loro visibilissima superiorità. Se avete presente le cosce di Adama Traorè, statisticamente oggi il miglior dribblatore al mondo, sapete a cosa mi riferisco.

Nel calcio contemporaneo l’eccezionalità dei calciatori è diventata sempre più materiale e visibile. È iscritta nella performatività dei loro corpi, nei fisici impossibili di Mbappé o Haaland; oppure è testimoniata dalla mostruosità dei loro numeri realizzativi, o dall’anomalia dei loro indici statistici. Proprio perché viviamo in questo regime di iperrealismo forse vale la pena ricordarsi che il calcio è anche un’arte della finzione.

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