Diciamoci la verità: quando lo scorso 26 gennaio DeMarcus Cousins è crollato a terra con un tendine d’Achille rotto, un po’ tutti pensavamo che la stagione dei New Orleans Pelicans fosse finita lì. Dopotutto non erano una squadra perfetta neanche prima di quel tragico episodio, per quanto il record fosse positivo e fossero ancora tra i primi otto posti a Ovest, peraltro avendo appena preso lo scalpo degli Houston Rockets che da lì in poi ne avrebbero vinte 18 in fila. Ma come avrebbe fatto una squadra così tanto dipendente dal talento delle proprie stelle a resistere nella terribile Western Conference?
Dopo aver perso cinque delle sei gare successive all’infortunio di Cousins, la squadra aveva effettivamente dato l’impressione di averla “data su”, in particolare in una terrificante sconfitta a Philadelphia dello scorso 9 febbraio in cui erano sembrati - nonostante quattro giorni di riposo alle spalle - del tutto disinteressati a impegnarsi, aiutarsi o condividere il pallone. A partire proprio da un Anthony Davis da 6/19 al tiro e -29 di plus-minus, che come spesso gli è capitato in passato aveva disputato una gara del tutto anonima per quelle che sono le sue potenzialità.
Eppure proprio da quell’episodio e da una rocambolesca vittoria al doppio supplementare sul campo dei Brooklyn Nets i ragazzi di Alvin Gentry hanno cambiato marcia, tanto figurativamente quanto letteralmente. Dalla sconfitta di Philadelphia in poi i Pelicans hanno inanellato una striscia di dieci vittorie consecutive che li hanno portati dal “De Profundis” che un po’ tutti avevamo già recitato per loro a un incredibile quarto posto nella Western Conference. New Orleans ora ha il 77% di possibilità di andare ai playoff (almeno stando a FiveThirtyEight, che però ha tolto loro 17 punti percentuali dopo le ultime due sconfitte) e si giocherà fino alla fine la possibilità di andare ai playoff - un risultato sorprendente per una squadra che ha comunque delle gravi mancanze strutturali. Ma come è stato possibile?
Pace and Davis
Una delle risposte potrebbe essere che, dal giorno dell’infortunio di Cousins, i Pelicans hanno cominciato a correre, correre e ancora correre, aumentando il loro numero di possessi a partita da 101.5 a 105.7, ben due possessi pieni sopra i Phoenix Suns in piena lotta per il tanking. Fedele al suo passato da capomastro offensivo nelle fucine di Mike D’Antoni e Steve Kerr, Gentry ha reinventato i Pelicans come una squadra da corsa, raggiungendo un compromesso in primis con la sua superstar: senza Cousins, era indispensabile che Davis ingoiasse il rospo e scalasse da “5” per la maggior parte dei suoi minuti in campo, pur concedendogli di risparmiarsi qualche botta all’inizio dei quarti con l’inserimento in quintetto di un redivivo Emeka Okafor (che non giocava in NBA da ben cinque stagioni, nettamente la “comeback story” più incredibile degli ultimi anni).
Davis ha ripagato il suo allenatore giocando la sua miglior pallacanestro di sempre, confezionando un mese di febbraio da 35 punti, 13 rimbalzi, 2.2 stoppate e 2.5 recuperi di media con il suo primo premio di giocatore del mese per la Western Conference della sua carriera. Nella striscia di dieci successi in fila Davis è andato cinque volte sopra quota 40 punti (di cui una sopra 50), prendendosi la responsabilità di più di un terzo dei possessi dei Pelicans e tenendo un’efficienza di assoluto rispetto (58.6% di percentuale reale), per quanto inferiore rispetto a quando giocava con Cousins. “AD” ha cercato di assecondare il nuovo corso dei suoi prendendosi molti più tiri nei primi 9 secondi dell’azione, passando dal 41.3% quando c’era Cousins all’attuale 47.2%, cercando di sfruttare la sua velocità di base contro i lunghi più lenti di lui (ovverosia quasi tutti) sui 28 metri di campo e la sua verticalità per chiudere le giocate sopra il ferro. Il risultato è che il rating offensivo dei Pelicans durante la striscia è decollato a 112.1 con un Net Rating di +7.7, ma soprattutto che sono riusciti a mantenerlo tale anche nei minuti in cui Davis è rimasto seduto, andando anche leggermente meglio in difesa senza il proprio leader - un altro risultato impensabile senza Cousins.
La strutturazione con Davis da “5” e quattro tiratori/trattatori della palla attorno come Jrue Holiday, Rajon Rondo, E’Twaun Moore e il neo acquisto Nikola Mirotic è stata la più utilizzata da Gentry dopo aver perso Boogie e ha un differenziale positivo di +2.6 in 104 minuti, ma quello con il quale i Pelicans hanno costruito le proprie fortune è il quintetto base con Okafor al posto di Mirotic, che fa partire la squadra con un vantaggio di +17.1 punti su 100 possessi in 86 minuti.
Tutti i giocatori della nuova rotazione dei Pelicans hanno portato il loro mattoncino, a partire da un Jrue Holiday che nel silenzio generale sta giocando la miglior stagione della sua carriera, forse anche meglio di quando era stato nominato All-Star a soli 22 anni. Messa da parte la vicenda legata alla moglie Lauren e la complicata nascita della figlia Jrue Tyler, e forte di un quinquennale a cifre altissime rinnovato in estate, Holiday ha ripagato i Pelicans viaggiando a 19.2 punti di media con il 57% di percentuale reale, cifre che in un anno normale - e questo, tra Harden, Curry, Lillard, Irving, Butler, Oladipo, Westbrook e tutti gli altri, decisamente non lo è - gli sarebbero valse almeno una citazione per i quintetti All-NBA. Holiday è stato soprattutto decisivo nei tantissimi finali punto a punto giocati dalla squadra (ben 189 minuti, nessuno come loro in NBA) per fare da spalla ad Anthony Davis, con i due che combinano per oltre sei punti di media “in the clutch”, per di più tenendo percentuali d’élite (48.8% dal campo, sesto in NBA, e il 42.9% da tre, terzo).
Sfruttando le attenzioni che la difesa deve obbligatoriamente dare a Davis, Holiday va a segnare un canestro pesantissimo e per nulla banale sopra le braccia di Bam Adebayo (221 centimetri di apertura alare).
Non è un caso allora che i Pelicans abbiano un differenziale nettamente positivo nei finali tirati (+10.3, decimi in NBA) e che questa freddezza nei finali di gara sia tornata estremamente utile per propiziare la striscia dei dieci successi, visto che ben 46 dei 189 minuti con punteggio entro 5 punti disputati in questa stagione sono arrivati nell’ultimo mese, spesso culminando una rimonta partita con anche 15 o più punti di svantaggio. Questo per dire che c’è stata un po’ di fortuna e un po’ di complicità dei “suicidi” da parte degli avversari, e che con un filo in meno di Dea Bendata dalla loro parte le cose sarebbero potute andare molto diversamente, ma considerando la sfiga avuta con l’infortunio di Cousins proprio nel momento in cui la squadra sembrava aver trovato la sua identità, il conto rimane comunque in favore dei Pelicans.
Il cambio di mentalità di Anthony Davis
Proprio l’infortunio di Cousins ha costretto l’altra stella di New Orleans a fare i conti con se stesso, come ammesso anche in una recente intervista con ESPN. “È stata dura affrontare una situazione del genere. Bisogna avere una mentalità come quella di Russell Westbrook quando KD se ne è andato: Russ andava in campo e tirava anche 40 volte a partita se necessario per far vincere i suoi. Io sto cercando di avere lo stesso atteggiamento mentale”.
Sembrerà banale, ma la stagione dei Pelicans ha svoltato proprio nel momento in cui Davis si è fatto un esame di coscienza e ha capito che, se non avesse iniziato a giocare in maniera “egoistica”, sarebbe rimasto per un altro anno - il terzo consecutivo - fuori dai playoff. In una lega come è la NBA, non basta neanche avere il talento di un Anthony Davis per essere considerati una superstar: di giocatori che possono fare 30 punti in una singola partita ce ne sono tanti - molti più dei 24 che ogni anno vengono nominati per l’All-Star Game -, ma è la forza mentale di farlo ogni singola sera che marca la differenza tra chi è stella è chi è una superstar. Ci vuole una disciplina e una costanza incredibile per affrontare una stagione nel modo in cui lo fa Russell Westbrook, e non è un caso che tantissimi sportivi - non necessariamente solo nella pallacanestro - lo abbiano indicato negli anni come un modello da seguire per poter competere ai massimi livelli mondiali.
Il fatto che Anthony Davis potesse essere quel tipo di giocatore in grado di caricarsi sulle spalle il resto della squadra è sempre stato il più grande punto di domanda su di lui, alla pari delle condizioni fisiche precarie che sembrano non lasciargli tregua sin da quando è cominciata la sua carriera in NBA (solo stanotte è tornato in campo contro Utah dopo una distorsione alla caviglia). Perché al netto della qualità non esaltante dei compagni attorno a lui (e questo ce lo dicevamo anche tempo fa), Davis non è mai sembrato in grado di poterne aumentare il rendimento con la sua sola presenza, che è il vero marchio di una superstar del calibro dei LeBron James, dei Steph Curry o dei James Harden - rango al quale a livello di talento Davis appartiene senza neanche cominciare a discuterne.
Se se ne fa una questione di ciò che sa fare sui due lati del campo, Davis è di gran lunga il lungo più completo della lega. Solamente Karl-Anthony Towns e il suo compagno DeMarcus Cousins (sigh…) possono sostenere di avere una completezza offensiva paragonabile, ma nessuno dei due possiede il suo potenziale difensivo, visto che Davis ha dimostrato - quando coinvolto mentalmente - di poter essere una presenza distruttiva anche nella sua metà campo, sia come protettore del ferro in aiuto (stanotte 10 stoppate per la prima tripla doppia della sua carriera, purtroppo per lui inutile) che cambiando sulle guardie. Siamo oltre il concetto di “unicorno”: Davis è un uber-unicorno perché non c’è nulla che non possa fare sul campo da basket al massimo livello.
La verità è che Davis sembra un “play-finisher” piuttosto che un “play-maker”, ovverosia uno che chiude le azioni piuttosto che rifinirle. Non è un caso che il rapporto tra canestri assistiti e non assistiti è di oltre il doppio sbilanciato in favore dei primi (417 contro 182). A volte, però, semplicemente con la sua sola presenza e le sue doti atletiche nel giocare sopra il ferro Davis è in grado di rifinire un’azione semplicemente rendendo palese dove deve essergli recapitato il pallone. Di fatto, Davis è in grado di rendere migliori i suoi compagni non con i suoi passaggi (come fanno la maggior parte delle altre superstar), ma con i passaggi che si fa fare.
In questa stagione ha chiuso 96 alley-oop, più di chiunque altro nella lega, e in parecchi di questi ha dato la sensazione che, in fondo in fondo, giocando con lui un assist in NBA lo potremmo fare pure noi. Questo senza considerare la quantità di attenzioni che i suoi tagli a canestro attirano dalle difese, liberando spazi sul perimetro per i tiratori.
I Pelicans sono secondi solamente ai Golden State Warriors per assist su 100 possessi (25.5, di un decimo davanti ai Philadelphia 76ers), ma a differenza di queste due squadre mantengono relativamente basso il numero di passaggi (314.8, noni in NBA) e di assist secondari (3.1, sempre noni) a partita. Sintomo che sono i movimenti e la presenza di Davis, più che la qualità media dei passatori del back-court o la varietà del playbook, a fare la differenza.
L’altra cosa che sembra essere cambiata nella mentalità di Davis è la capacità di giocare sul dolore, per quanto ora sia dovuto rimanere fuori nella sconfitta contro Washington per una distorsione alla caviglia. La fondamentale partita vinta sul campo degli L.A. Clippers, in particolare, ha dimostrato proprio questo: dopo essere uscito dal campo per una contusione alla costola e contorcendosi dal dolore negli spogliatoi, “AD” è rientrato in campo e, pur in difficoltà a muoversi almeno nel terzo quarto, ha dato tutto quello che aveva, scavando a fondo nel suo bagaglio tecnico per trovare un modo di aiutare i suoi a vincere.
Dopo essersi sentito dire da Cousins “Se non vuoi tornare in campo dammi il tuo tendine d’Achille che ci vado io”, Davis non poteva esimersi dal provarci. Non potendo più andare sotto canestro a fare a botte (e sfruttando la naturale ritrosia di DeAndre Jordan a uscire dal pitturato), Davis si è inventato un terzo quarto da 4/5 da tre, pareggiando in una manciata di minuti il suo massimo stagionale dall’arco. (Ps. La terza e la quarta tripla sono per pochissimi giocatori nella storia del gioco).
Candidato MVP
Prestazioni come questa finiscono inevitabilmente per ispirare chi gli sta intorno, e visto che di natura non è un leader vocale o emotivo, può quantomeno aspirare a essere uno che guida con il suo esempio. Ma soprattutto prestazioni come questa sono arrivate nel momento più opportuno, perché se le cose avessero preso una spirale verso il basso, Davis avrebbe vissuto queste settimane sentendo parlare di sé solamente riguardo le voci di un possibile scambio a fine anno. Dopotutto la sua posizione è stata espressa a tempo debito nientemeno che ad Adrian Wojnarowski (e quando un giocatore - o per meglio dire un agente - va da Woj significa che vuole mandare il messaggio più rumoroso possibile) mettendo la franchigia davanti alle proprie responsabilità per costruire attorno a lui un contesto competitivo. E per quanto la dirigenza abbia fatto il suo, sacrificando una prima scelta per prendere Nikola Mirotic e pescando un jolly inaspettato in Emeka Okafor, la strada verso la vera competitività - quella che ti porta a giocartela con le Golden State e le Houston di turno - è ancora molto lunga, lasciando grandi dubbi che il suo futuro a lungo termine sia in Louisiana.
Se non altro, con questo suo mese folle Davis è riuscito a spostare l’attenzione del mondo dal suo futuro al suo presente e alle sue prestazioni in campo, rientrando di prepotenza anche nel discorso per il titolo di MVP. Una candidatura che si basa ovviamente sulla forza dei suoi risultati e dei suoi numeri, ma anche sul concetto un po’ più etereo di “narrativa”: Russell Westbrook lo scorso anno non ha vinto solamente “perché ha fatto 42 triple doppie” o “perché ha fatto una tripla doppia di media”, ma perché si è caricato sulle spalle un intero stato e ha toccato corde emotive come nessun altro è riuscito a fare. Allo stesso modo, Anthony Davis è riuscito a caricarsi sulle spalle una squadra che sembrava destinata all’oblio e invertirne la rotta di pura forza mentale prima ancora che di tecnica, cosa che fino a un mese e mezzo fa non sembrava possibile. E con il suo rendimento potrebbe aver salvato (almeno in parte) il basket professionistico a New Orleans, visto che quella dei Pelicans - tra un mercato piccolissimo spesso in perdita e una proprietà in tumulto per la successione dell’89enne Tom Benson - è la situazione più instabile della lega.
Insomma, c’è qualcosa di più grande in ballo in quanto fatto da Anthony Davis nell’ultimo mese e mezzo, e acquisterà ancora più senso se nel prossimo mese riuscirà a compiere il capolavoro di portare questa squadra ai playoff. Forse non sarà abbastanza per strappare il titolo di MVP dalle mani di James Harden, ma è certamente abbastanza per dimostrare di essere una superstar a tutti gli effetti. Scusate se è poco.