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Il "Cholismo" non è una forma di catenaccio
08 giu 2016
Qualche riflessione su un luogo comune molto diffuso.
(articolo)
22 min
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Introduzione: il “Cholismo” non è noioso

di Daniele Manusia

La noia è un problema che riguarda tutto lo sport di alto livello per la sua natura a metà tra pura competizione e spettacolo. Se due squadre giocano a calcio in una foresta e nessuno le vede, Caressa può lamentarsi del fatto che siano “una rottura di scatole”?

La noia, però, è anche l’argomentazione più sciatta, e al tempo stesso inattaccabile, che possiamo tirare fuori per sminuire un’impresa umana di qualsiasi tipo. Come faccio a provare che il “Cholismo” non è noioso? Non c’è una definizione precisa di noia nello sport e la prova, nel microcosmo iperbolico italiano, la fornisce il fatto che fino a qualche anno fa c’era chi trovava “noioso” il gioco del Barcellona di Guardiola (ridotto a un solo suo aspetto, il tiki-taka), cioè il contrario del “Cholismo”.

In questo pezzo abbiamo cercato di confutare i vari aspetti delle accuse che spesso si rivolgono all’Atlético, e in generale il luogo comune che il gioco della squadra di Simeone sia semplicemente una forma di catenaccio. Non che per noi non conti lo spettacolo (per rimarcare la nostra delusione abbiamo intitolato l’analisi della finale di Champions League “Calcio mediocre” e quando l’Atlético ha giocato male non è stato un problema scriverlo) ma il calcio, come detto, è solo per metà intrattenimento, l’altra metà deve essere composta dalla competitività. E non c’è dubbio alcuno che la squadra di Simeone sia una delle squadre più competitive degli ultimi anni.

Competitività non significa vincere a tutti i costi (anche se può arrivare a questo estremo) ma è anzitutto una questione di mentalità e di strategia di squadra. Di organizzazione. È divertente che la stessa risposta che si poteva dare a chi accusava Guardiola di giocare un calcio noioso si può dare adesso a chi protesta contro Simeone, e cioè che la vittoria nel calcio non si assegna con i voti sulle palette, e che se un sistema si dimostra vincente nel medio-lungo periodo significa che è competitivamente migliore degli altri. Si può preferire un modo di essere competitivi a un altro, ma nel calcio non esistono trucchi così efficaci da portare la stessa squadra in finale di Champions League due anni su tre.

Quella che segue è una breve selezione (dalla mia collezione di gif) in cui la competitività dell’Atlético Madrid ha generato spettacolo. E quindi, a mio gusto (dato che mi sono fermato, sono tornato indietro e ho estratto la gif) non noioso.

Il sistema iperorganizzato dell’Atlético lascia comunque grandi responsabilità ai singoli. Grandi responsabilità si traducono in gesti tecnici spesso al limite, eccezionali nel senso stretto della parola. Qui sopra Gimenez, per intercettare un cross a centro area, colpisce di tacco in controtempo, con una specie di tuffo in avvitamento tutto sommato buffo.

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Qui invece abbiamo una combo tra un giocatore dell’Atlético che si immola per evitare che la palla arrivi in porta (Koke) e un giocatore dell’Atlético che allontana la palla dalla zona di campo più pericolosa in maniera artistica (ancora Gimenez).

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Certo, l’Atlético non spazza sempre la palla. È anche capace di arrivare in porta con 5 passaggi di prima.

L’arte difensiva dell’Atlético richiede grande concentrazione e tempismo nella scelta dell’intervento. Movimenti organici da una parte all’altra anche aggraziati (vedi tra due gif) interrotti da tentativi individuali di recuperare il pallone. Osservare Godin che si aggira per la trequarti, aspettare che la palla entri nella sua zona e prendere il tempo per l’intervento è noioso quanto osservare un falco quasi immobile nel cielo che poi piomba a picco sulla preda.

Se si dice che l’Atlético Madrid parcheggia un autobus davanti alla propria area di rigore, va quanto meno aggiunto che è un autobus pieno di ninja.

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Più che a un autobus, a volte il movimento della squadra di Simeone somiglia a quello di una medusa, che gonfia il proprio ombrello per spostarsi da una parte all’altra del campo e quando la palla arriva sui lati lancia uno dei suoi tentacoli nel tentativo di pungere gli avversari.

Seriamente: per apprezzare il sistema difensivo dell’Atlético Madrid bisogna guardare gli spazi tra un giocatore e l’altro, il modo in cui gestiscono le distanze reciprocamente. Nessun giocatore dell’Atlético si muove mai da solo in fase in difensiva, anche se la palla è dalla parte opposta c’è un bisogno quasi astratto di mantenere intatta la forma aurea del 4-4-2.

Il “Cholismo” è il sistema creato da Simeone ma poi portato in campo da Godin, Juanfran, Filipe Luis, Koke, Saul, persino da un calciatore dal talento tecnico decisamente sopra la media come Griezmann; e che fuori dal campo coinvolge l’immaginario dei tifosi dell’Atlético Madrid, creando un sentimento di unione forse unico nel panorama calcistico di primo piano.

E la cosa sicura è che, per chi lo vive dall’interno, il “Cholismo” è tutt’altro che noioso.

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La catena del “Cholo”

di Emiliano Battazzi

La storia del catenaccio è lunga, e come tutte le storie di successo ha molti padri: con ragionevole certezza fu l’allenatore austriaco Karl Rappan ad introdurlo con gli svizzeri del Servette, nel 1938. Per Rappan, questo sistema «si propone di tirar fuori il massimo da ogni singolo giocatore per far sì che sia tutta la squadra a beneficiarne. La cosa difficile è imporre un’assoluta disciplina tattica, senza però togliere ai giocatori la libertà di pensare ed agire» (da La Piramide rovesciata, di J. Wilson).

Da subito questo sistema (chiamato verrou da un giornalista svizzero) spinse le squadre che lo adottavano ad arretrare il proprio baricentro: dal 2-3-5 si arretravano ben due giocatori dal centro del campo in difesa, lasciando il centromediano sempre in inferiorità numerica.

A renderlo davvero famoso nel mondo furono le grandi squadre italiane (dal Milan di Nereo Rocco all’Inter di HH), ma in particolare la penna di Gianni Brera, che lo santificò e inventò quella parola, libero, passata direttamente in italiano in tutte le lingue calcistiche.

Per Brera, il catenaccio nasceva da un’inferiorità fisica degli italiani rispetto all’atletismo dei nord-europei: una buona ricetta con degli ingredienti poveri. Il catenaccio era quindi strenua difesa della propria porta, fatta di costanti duelli individuali.

Parlare di catenaccio non ha più senso forse già dalla fine degli anni ‘70, anche se per Gianni Brera il trionfo mondiale del 1982 era dovuto a San Catenaccio. Nelle innumerevoli reinterpretazioni, il catenaccio si è sempre associato a uno stile di gioco che prevede grande importanza della fase difensiva, con una difesa intensa della propria area e dalla presenza di singoli talenti in fase offensiva, in grado di risolvere le partite con giocate individuali.

Diventa difficile identificare un concetto moderno di catenaccio, ma è possibile dire che esistono squadre che pensano esclusivamente alla fase difensiva, affidandosi poi alla sorte o al talento individuale per tutto il resto. Nell'Atlético di Simeone, fase difensiva e offensiva si fondono completamente, allo stesso modo che per il Bayern di Guardiola, ma su posizioni filosofiche agli antipodi.

L'Atlético di Simeone rientra nella categoria del catenaccio forse solo da un punto di vista della ricerca della disciplina massima, come sottolineava Rappan. Anche su questo aspetto, però, si potrebbe dire che Simeone è degno erede della scuola calcistica rioplatense, fatta di grinta e abnegazione totale, piuttosto che della scuola europea.

Per tutto il resto, l'Atleti va a caccia della palla come un cinghiale delle ghiande. I giocatori puntano alla superiorità numerica nella zona della palla, la difesa è rigorosamente a zona.

Nella sfida della stagione passata contro il Bayer Leverkusen, considerato un laboratorio di squadra iperoffensiva, l'Atleti non si è rinchiuso. Le due squadre si sono letteralmente annullate, fino ad arrivare ai rigori: entrambe avevano lo stesso principio di gioco, sebbene attuato in forme diverse (aggressione altissima e 7 seconds rule per i tedeschi, intensità in zona palla dalla metà campo per gli spagnoli).

Quando al “Cholo” toccò il Chelsea di Mourinho, due anni fa, a passare per catenacciaro fu proprio il portoghese: il giorno dopo la partita di andata, sul quotidiano El Mundo la critica più spietata fu quella dell'attuale allenatore del Las Palmas, Quique Setién. E ce l'aveva con Mou!

Come in tutti gli ambiti della vita, ci sono attitudini estetiche, intellettuali e anche istintuali che possono spingere verso una determinata preferenza: ma dopo le innumerevoli critiche al gioco di Guardiola ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che non esiste un modo universalmente più bello di giocare a calcio.

A prima vista, quali sono i tocchi dell’Atleti e quali del Barça? La risposta è sorprendente: nella prima mezz’ora dei quarti di finale di ritorno, i catalani (puntini blu) non riescono a toccare un pallone in area avversaria (tranne due alle estremità) e pochissimi in zona centrale sulla trequarti.

All'Atleti di Simeone rinfacciano la compattezza, la disciplina tattica, il sacrificio come fossero difetti: ma sono tutte caratteristiche necessarie per una squadra vincente. Si può chiamare catenaccio un sistema che impedisce al Barcellona di affacciarsi nell’area avversaria per circa 30 minuti? Per Unai Emery la risposta è ovviamente no: il miglior modo per difendersi è spostare il conflitto in avanti, cioè allontanare l’avversario dalla propria porta. E quest’anno i Colchoneros difendono più in avanti rispetto a due anni fa, in gran parte per le diverse caratteristiche dei giocatori.

D’altronde quale miglior prova della finale di Champions League contro il Real Madrid per valutare la filosofia di gioco dell’Atlético? In teoria avrebbe dovuto essere una sfida tra due poli opposti, tra una squadra che ricerca il dominio del pallone e una che aggredisce e controlla lo spazio.

Invece i poli opposti si sono sciolti e abbracciati, come lo yin e lo yang, e alla fine dei 120 minuti la squadra che ha tenuto di più il pallone è stata proprio quella di Simeone, con un vantaggio territoriale del 52%; mentre gran parte dei dati su baricentro e altezza media dei recuperi sono pressoché sovrapponibili. Forse ha vinto il primo Real Madrid della storia ad aver giocato il catenaccio, o forse Simeone è impazzito e nella partita più importante dell’anno ha deciso di passare a un calcio più associativo.

Oppure, molto più semplicemente, l'unico catenaccio che effettivamente possiamo associare all'Atlético Madrid è ben altro: quello che sembra legare le tre linee dello schieramento, in un movimento così armonico da sembrare naturale, e così organizzato da ricordare le parate militari.

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I numeri dell’Atlético

di Flavio Fusi

Quella dell’Atlético Madrid è considerata da molti la difesa più efficiente ed efficace d’Europa. Simeone ha costruito un sistema difensivo in cui tutti e undici i giocatori in campo partecipano alla difesa della porta: anche gli attaccanti, in caso di necessità, si sacrificano posizionandosi in prossimità della propria area di rigore, contribuendo agli eccezionali numeri difensivi della squadra spagnola.

I dati sui gol subiti nella Liga sono impressionanti: nelle ultime quattro stagioni, l’Atlético ha avuto per ben tre volte la miglior difesa. Solo nel 2014/2015 c’è stata una squadra, il Barcellona, che ha subito meno reti dei Colchoneros. Inoltre, sempre nelle ultime quattro stagioni, il numero medio di tiri a partita subiti dall’Atlético è sempre stato inferiore alle 10 conclusioni, mentre il dato relativo ai soli tiri in porta si assesta al di sotto delle 3 conclusioni in porta a partita. Solo il Barcellona è riuscito a far registrare numeri simili negli ultimi quattro anni.

Ma l’approccio dei “blaugrana”, pur producendo risultati simili, è diametralmente opposto: il Barcellona, come il Bayern Monaco, il PSG ed in parte la Juventus, ovvero le migliori difese degli altri tre maggiori campionati dell’Europa continentale, controlla il possesso per gran parte della partita, mentre la squadra di Simeone è ben contenta di lasciare il pallino del gioco agli avversari, soffocando ogni spazio nelle zone centrali del campo in modo da indirizzare la manovra avversaria sulle fasce dove, non solo è statisticamente complicato produrre occasioni pericolose, ma è anche molto complicato sfuggire ai raddoppi sistematici dei Colchoneros.

I dati di Michael Caley sull tasso di conversione in relazione alla posizione dell’assist, sia esso un cross o un passaggio, ben evidenziano i benefici di una strategia che predilige sempre la difesa delle zone centrali del campo. Il risultato è che le probabilità di creare un’occasione da gol al centro, sono più che doppie rispetto alle fasce.

Se approfondiamo il livello dell’analisi, esaminando anche la qualità dei tiri subiti nella Liga, l’Atlético non solo è a livello europeo tra le migliori in termini di expected goals subiti nelle ultime quattro stagioni, ma è anche sempre riuscito ad andare oltre le aspettative, con questa stagione che risulta essere nettamente la migliore in termini di efficienza difensiva: nella Liga 2015/2016 la squadra di Simeone ha subito circa 0,67 gol ogni 1,00 xG. Grazie a questa incredibile efficienza, nessun’altra squadra ha subito meno reti dell’Atlético nei cinque maggiori campionati europei, seppur Bayern Monaco e Juventus abbiano fatto registrare un minor numero di expected goals subiti.

Uno dei segreti della difesa dei Colchoneros è la grande abilità nel bloccare i tiri degli avversari ben prima dell’intervento del portiere: nessuna squadra ha bloccato una percentuale maggiore di tiri subiti nella Liga. Ma l’Altético è anche una delle migliori squadre d’Europa nel gegenpressing, misurato in base alla percentuale di nuovi possessi avversari a centrocampo interrotti entro 7 secondi.

Se è vero che l’Atlético è, dal punto di vista difensivo, a pieno titolo se non la migliore, una delle migliori squadre a livello europeo, c’è un mito che va sfatato: l’Atlético non è una squadra fallosa. Quest’anno è risultato solo 13esimo in campionato per numero di falli fatti a partita, 13,3 un dato che li colloca anche al di sotto della media europea. Oltre a non essere particolarmente fallosi, i Colchoneros non sono nemmeno così “cattivi”, visto che sono appena 16esimi per cartellini totali nella Liga: 91, 88 gialli e 3 rossi.

Nella partita più importante della stagione, la finale della Champions League, l’Atlético non è però riuscito a dare il solito saggio di solidità difensiva. Fin da subito è mancata la tipica intensità della squadra di Simeone, che probabilmente ha subito gli effetti della pausa di due settimane tra l’ultima partita della Liga e la sfida decisiva di San Siro. Inoltre, non si è vista la solita compattezza di squadra, con uno dei due centrocampisti che rimaneva quasi sempre in copertura, distante dal compagno in pressing e la linea difensiva che non ha avuto il coraggio di mantenersi alta sul campo, per paura di concedere spazio in campo aperto a Bale, Benzema e Cristiano Ronaldo. Il gol concesso in apertura non ha fatto altre che peggiorare le cose, rivelando forse il limite più grande della squadra di Simeone, che pur salita di intensità, non è riuscita a creare occasioni della qualità di quelle del Real.

Simeone ha allocato tutte le sue risorse sulla fase difensiva dell’Atlético, ma contro un Real sorprendentemente passivo, è rimasto quasi spiazzato, incapace di volgere la partita a proprio favore. Una squadra differente, più abituata a giocare il pallone, avrebbe forse prevalso sui merengues, ma senza il loro calcio di sacrificio i Colchoneros non avrebbero mai potuto giocarsi la loro seconda chance in una finale di Champions. Il “Cholismo” è anche questo.

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L’Atlético sa attaccare, e in tanti modi diversi

di Daniele V. Morrone

L’associazione dell’Atlético con una squadra che parcheggia il pullman davanti la difesa, capace di fare solo “catenaccio”, che non sa attaccare né gestire le fasi di possesso, non riflette la realtà ma il nostro immaginario. Nessuna squadra otterrebbe quei risultati senza saper attaccare, soprattutto l’ultima versione dell’Atlético Madrid.

A cambiare la nostra percezione è la gestione dello spazio. L’Atlético vuole difendere un campo piccolo e attaccare un campo grande, se potesse giocherebbe davvero sempre così: con il bunker piazzato al centro dell’area e il lancio lungo per la punta solitaria. Ha giocato così e così è arrivato a vincere la Liga nel 2014. L’Atlético in Diego Costa aveva trovato in un singolo giocatore l’arma scardina difesa, l’ariete per abbattere ogni portone del castello. Partito lui però Simeone ha dovuto costruire pezzo per pezzo un intero archibugio, rimpiazzando l’idea di attaccare con un ariete spinto da una squadra.

Dal rintanarsi nella propria area per poi partire si è passati alla necessità di alternare momenti di pressione alta più o meno prolungati, a seconda della strategia dell’avversario. Se dovessi rispondere in modo diretto alla domanda su come attacca l’Atlético nella primavera del 2016 l’unica riposta potrebbe essere: “in tanti modi, neanche tutti codificati”. I Colchoneros sono in grado di dominare più contesti di gioco e di scegliere il modo in cui affrontare l’avversario. Dopodiché l’attacco si sviluppa in modo diverso durante i 90 minuti: dalle conduzioni palla al piede di Carrasco, alle combinazioni nello stretto tra Griezmann e i compagni.

Per modificare il contesto, la squadra cambia direttamente modulo: le opzioni sono due e sono il 4-4-2 con cui è solito iniziare le partite, e il 4-5-1, con cui interviene a partita in corso. Dopo l’intervento la squadra passare dal pressing alto, con almeno 5 giocatori nella metà campo offensiva, al dover pensare di attaccare per forza in contropiede e con solitamente tre opzioni massimo a disposizione poi per finalizzare.

Quando è schierato con il 4-4-2 l’Atlético abbina la pressione alta alla capacità di affidarsi al talento e alle invenzioni di Griezmann, Koke e Saúl. Oltre che ai movimenti di Torres. Il risultato è un attacco frenetico e dalla buona produzione di occasioni da gol. In questo contesto Simeone si adatta molto all’avversario, ricercando un pattern che ritiene adatto a sfruttare una debolezza precisa (un giocatore o un’intesa tra due). Una volta trovato, vuole che la squadra lo sfrutti fino allo sfinimento. Non avendo più un bufalo che carica la difesa, vuole che tutta la squadra sia quel bufalo e che sbatta anche la testa ripetutamente nello stesso punto pur di riuscire a ricavarne qualcosa.

Questo puntare in modo ossessivo un obiettivo preciso porta la squadra a sfruttare magari solo un paio delle proprie armi a disposizione: come può essere il passaggio in diagonale di Koke per la profondità di Torres, o il lancio lungo iniziale nella zona larga di Saúl per sfruttarne le doti aeree e il magnete per seconde palle che ha al posto dei piedi. La squadra mantiene il possesso prima di trovare il momento giusto per far scattare uno dei meccanismi trovati da Simeone prima della partita. In questo senso può sembrare un calcio offensivo povero, ma è funzionale all’idea che la squadra deve mantenere sempre la massima concentrazione in fase difensiva, dove gli automatismi sono tantissimi e devono essere super oliati. Nella fase offensiva quindi il “Cholo” richiede poche cose semplici, con l’obiettivo di non sovraccaricare di informazioni i giocatori e mantenerli lucidi in fase difensiva.

Questa idea di lasciare la varietà e la complessità ai movimenti della fase difensiva viene esacerbata quando la squadra abbassa il baricentro e passa al 4-5-1. A quel punto l’Atlético attacca solo in conduzione o con massimo 3 uomini. È la squadra di Carrasco, Griezmann e Torres, quella che sa di avere a disposizione il numero minimo accettabile di conclusioni e che cerca un calcio totalmente verticale. Che vuole arrivare in porta con il numero minimo di passaggi precisi.

La finale doveva essere la vetrina perfetta per l’Atlético intenso e frenetico del 4-4-2, quello della pressione alta e con la possibilità di trovare facilmente il modo di attaccare con astuzia il Real Madrid.

Invece la paura ha finito per creare un ibrido: la squadra era disposta per giocare in quel modo ma si è comportata come nella versione conservatrice del 4-5-1. La squadra è risultata priva di meccanismi e affidata solo al talento. Con la palla tra i piedi nella metà campo offensiva del Real, l’Atlético non ha saputo attaccare in mondovisione nella partita della sua consacrazione. Ma neanche in quel momento, nella versione peggiore di sé stessa, l’Atlético ha parcheggiato il bus, o ha rifiutato di giocare a pallone.

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La morale del “Cholismo”

di Emanuele Atturo

A vederlo in panchina, col suo completo total black, la camicia ultra-aderente, i capelli impomatati all'indietro, il crocifisso grosso che oscilla a ogni indicazione enfatica, Simeone non pare neanche un allenatore. Sembra un profeta pazzo, l'attore non protagonista di un thriller di Rodriguez, un personaggio secondario di culto di Breaking Bad, un sacerdote della Santa Muerte. Il suo stile, la sua narrazione, la sua virilità latina hanno contribuito alla sua popolarità quasi quanto i suoi risultati sul campo. O meglio: i suoi risultati sul campo hanno accresciuto il fascino del suo stile, legittimandolo, trasformandolo da vezzo un po’ patetico a elemento necessario di un sistema perfettamente sensato.

Come spesso capita però, un’immagine così forte e connotata viene facilmente scambiata come inautentica. Le frasi a effetto in conferenza stampa vengono interpretate come retoriche, l’abbigliamento marcato come una forma di vanità. Per chi non ama Simeone quello simbolico è il primo piano a cui rivolgere il proprio fastidio. Quando si dice “Se lo faceva Reja era catenaccio, se lo fa Simeone è Cholismo” il problema non sembra tanto l’idea di calcio di Simeone quanto la sua percezione. A disturbare c’è soprattutto il fatto che si chiami “cholismo”, che abbia una specie di legittimità culturale, che non sia considerato un “mezzuccio” ma una filosofia. È un problema comune a molti detrattori, che non sopportano come Simeone sia riuscito a vendere come nuovi concetti vecchi – anche se altri prima di me in questo pezzo (e non solo) hanno dimostrato l’ambiguità di questa interpretazione. In sintesi, Simeone sarebbe un venditore di fumo.

Se però l’Atletico è riuscito a ottenere risultati sportivi migliori di quanto la sua rosa e i suoi investimenti potrebbero permettergli, non è solo grazie alla forza, alla chiarezza e all’efficacia dei suoi princìpi di gioco, ma anche grazie a come questi prìncipi di gioco siano stati accompagnati da princìpi morali altrettanto forti ed efficaci. Il gioco dell’Atlètico richiede ai suoi giocatori un dispendio di energie, fisiche e mentali, reso possibile solo dal fatto che ogni giocatore si sente in missione. Perché giocare senza palla è più faticoso che giocare con la palla. Qualche mese fa Koke – uno degli scudieri più fedeli di Simeone – ha dichiarato: "Il Cholismo è una filosofia di vita applicata al calcio, nel quotidiano: non abbassare mai la guardia, intensità, fame di vittoria che pervade ogni partita, amichevoli comprese, allenamento da fare sempre al massimo, mentalità vincente". Se altre filosofie calcistiche somigliano più a delle poetiche, cioè a dei modi diversi di interpretare il gioco del calcio, il cholismo somiglia più a una religione, a qualcosa che prevede una trasformazione del proprio vivere quotidiano: del modo di vedere le cose.

Simeone non smette mai di ricordare ai suoi giocatori e al mondo che l’Atlético parte da una condizione di inferiorità, tecnica ed economica, rispetto agli avversari. Raccontando una storia che si lega bene alla narrazione tradizionale dei Colchoneros, la squadra “perdente” di Madrid. Perdente ma “speciale”, visto il senso d’appartenenza che è riuscito a sviluppare: “Da giocatore non scambiavo la maglia dell’Atlético, dovevano darmene due, la mia valeva di più”.

I giocatori dell’Atlético non giocano quindi solo contro gli avversari, ma anche per il riscatto della storia. Simeone gli ricorda che per vincere serve un’applicazione che non ha a che fare solo col fare bene le cose ma col trascendere i propri limiti. La comunione spirituale raggiunta tra i giocatori e i tifosi trasforma il Calderón in uno stadio dove l’avversario ha la sensazione di giocare contro un popolo intero. Simeone è il profeta credibile di questo popolo per la sua storia personale, per la sua militanza nell’Atletico, ma anche perché è riuscito a costruirsi attorno un senso di verità raro.

Rispetto ad altri allenatori che si sono costruiti un personaggio così forte e ingombrante, come Mourinho per esempio, per Simeone non sembrano contare strategie comunicative, lui sembra davvero così. Quando dice “Siamo la squadra del popolo” è difficile non credergli, nonostante gli investimenti milionari che sono alla base dell’Atlético; quando dice, prima di una finale di Champions League, che non può sentire lui la pressione, ma l’operaio che non arriva alla fine del mese, è difficile considerarla come una furbizia retorica. Simeone è fatto così: il modo in cui interpretava il calcio già da giocatore lo certifica, come il suo look mai davvero elegante, come le sue frasi intense ma sempre così poco sottili. Come i suoi tic a bordo panchina, dove non riesce a passare due minuti senza sistemarsi la camicia dentro ai pantaloni, come a rimarcare sempre la propria estrazione sociale.

Simeone è autentico, o almeno così ha fatto credere a tutti, e non è una sfumatura da sottovalutare quando si pesano le condizioni dei successi dell’Atlético. Quando sei costretto a richiedere ai tuoi giocatori una dedizione alla causa più che totale, quando per arrivare a questa dedizione bisogna far sentire i giocatori parte di una narrazione e di una morale universale più grande di loro (quella dei forti contro i deboli, del potere economico contro il sacrificio, della fantasia contro la disciplina) il problema è soprattutto di veridicità: far credere agli altri di essere dalla parte del giusto, di dire la verità.

Quando Simeone dice “Non vincono sempre i buoni, vince chi sa lottare” o quando ricorda ai suoi giocatori che “ogni partita da qui alla fine sarà una finale”, quando li richiama all’applicazione e al sacrificio, non esprime idee nuove. Sembrano frasi motivazionali da quattro soldi, il richiamo ad alcuni principi che dovrebbero essere la base, il minimo sindacale, per dei calciatori professionisti. Simeone però ha portato tutte queste cose a un altro livello, come se ripetere all’infinito poche e semplici idee a un certo punto le facesse apparire sotto una luce di verità che fino a quel momento non avevamo considerato. Il “Cholo” è tutto fuorché un venditore di fumo.

La bravura di Simeone non è stata tanto quella di aver fondato una religione, quanto quella di aver convinto tutti che rappresentasse una strada credibile verso la verità.

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