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Il classificone di fine stagione
21 mag 2014
Il campionato è finito, tutto il resto è classifica: il gol più bello, le esplosioni, i bidoni, le storie strappalacrime, le statistiche scomode, il ruolo in campo e i peggiori tweet della stagione 2013-2014.
(articolo)
35 min
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IL GOL DELL'ANNO

di Daniele Manusia (@DManusia)

Il classificone de l'Ultimo Uomo esiste dallo scorso novembre e si ferma allo scorso marzo. Cinque classificoni in tutto. Io però devo scegliere il Gol dell'Anno anche tra quelli rimasti fuori per ragioni temporali, tra i gol segnati a settembre e ottobre e quelli di aprile e maggio. Nel primo classificone per un bisogno di completezza avevo già scelto alcuni dei gol di settembre e ottobre per una decima posizione simbolica. Tra i gol presi in considerazione c'erano il pallonetto da trenta metri di Pjanic in Roma-Hellas, il collo al volo elegante di Gilardino in Genoa-Fiorentina e i dribbling assurdi sulla linea di fondo di Ibarbo in Catania-Cagliari; ma alla fine avevo scelto il primo gol in Serie A del difensore brasiliano trentatreenne Emerson in Livorno-Torino. Mi sembra giusto, quindi, far rientrare questo nello sprint finale. Anche se devo ammettere che a posteriori preferisco il gol che Emerson ha segnato contro il Cagliari; a febbraio però quel gol è arrivato terzo e ormai non posso farci niente.

Le classifiche sono per forza di cose ingiuste.

Tra aprile e maggio, complice il normale calo di fine stagione e alcune partite con difese più rilassate rispetto al solito, l'assenza di pause per la Nazionale e un recupero infrasettimanale, sono stati segnati 215 gol, sempre se non sbaglio a fare i calcoli. Per fortuna ogni lunedì mi guardo tutti i gol a colazione e mi segno quelli che possono entrare in classifica. Sul mio taccuino sono finiti 16 gol, il che significa che solo il 34,4% dei gol segnati tra aprile e maggio era un bel gol (ovvero è finito sul mio quaderno). Non è una statistica particolarmente illuminante sulla qualità del campionato, ma sulle mie colazioni sì. Adesso tra questi 16 ne scelgo 4 (perché in effetti sono molto belli) per andare a formare insieme a quello di Emerson e ai primi classificati di ogni classificone una lista di 10 gol tra cui decidere il Gol dell'Anno.

Le classifiche non saranno giuste, ma almeno ho un metodo.

Questo di Miccoli è il Gol dell'Anno Scorso.

Il primo dei 4 gol scelti per arrivare alla lista finale è quello di Alessio Cerci contro il Genoa. La qualità delle sue corse anche molto lunghe non si discute, così come la capacità di tiro che gli permette di essere pericoloso da più zone di campo (a proposito, Cerci dribbla meno di quello che si possa pensare, è ventesimo in Serie A con 1,7 dribbling a partita, per dire meno di Fetfatzidis). Adesso però, senza nulla togliere al Torino di Ventura, mi piacerebbe vederlo (e non credo di essere l'unico) in una squadra con più giocatori del suo livello con cui dividersi compiti e occasioni. (Il gol di Cerci esclude altri due tironi da fuori: quello di Icardi contro il Bologna (praticamente da fermo) e quello di Mertens contro la Lazio.)

Il secondo gol è quello di Pjanic contro il Milan, anche se devo dire subito che se mi piace molto la sterzata con cui si libera di Montolivo mi piace meno il fatto che Pjanic perda il contatto con il pallone, e un difensore più mobile di Rami sarebbe probabilmente arrivato al contrasto anziché fare quella cosa strana. Al tempo stesso, la roba scoordinata di Rami è parte dell'estetica di questo gol (e anzi, per questo esclude altri due gol in cui conta molto l'imbarazzo del difensore: quello di Higuaín contro la Lazio con tunnel sul controllo a Novaretti; e quello di Toni contro l'Atalanta che nasce da un tunnel di Iturbe a Yepes – e il tunnel a Yepes, o anche cano à Yepes, è un tradizione argentina inaugurata dal famoso colpo di suola di Riquelme con cui la fa passare sotto le gambe del povero colombiano durante il Superclasico Boca-River).

Poi ci sono il gol di Brienza contro il Milan, con una traiettoria perfetta e un rapporto forza/distanza notevole, e quello di Di Natale contro il Verona. Sarebbe stato bello se questa complicata mezza rovesciata, con stop di interno e piroetta, fosse rimasta come l'ultimo gol nella carriera di Di Natale ma lui ha preferito chiudere con una tripletta alla Samp. (Ho preferito questa raffinatezza acrobatica alla rovesciata di Leto contro la Samp che tocca terra con la violenza di uno smash.)

https://www.dailymotion.com/video/xzlyov_udi-2-1-sam_sport#.UZ23-kKgNrN

Di Natale ha segnato moltissimi gol stupendi in carriera ma se chiudo gli occhi e penso “Di Natale” il motore di ricerca del mio cervello tira fuori questo delicato tocco in controbalzo. È un gol dello scorso anno ma pensavo fosse giusto mostrarvelo.

Adesso, aggiungendo i cinque gol arrivati in cima alla classifica di novembre, dicembre, gennaio, febbraio e marzo, abbiamo una la lista completa, per quanto profondamente ingiusta. Ricapitolo con i link così se volete potete guardarli.

Emerson Ramos Borges. 30 ottobre. Livorno-Torino 3-2 (finale 3-3).

Alessio Cerci. 13 aprile. Torino-Genoa 2-1.

Miralem Pjanic. 25 aprile. Roma-Milan 1-0 (finale 2-0).

Franco Brienza. 11 maggio. Atalanta-Milan 2-1.

Antonio Di Natale. 10 maggio. Verona-Udinese 2-1 (finale 2-2).

Paul Pogba. 10 novembre. Juventus-Napoli 3-0.

German “El Tanke” Denis”. 8 dicembre. Verona-Atalanta 0-1 (finale 2-1).

Alessandro Lucarelli. 6 gennaio. Parma-Torino 2-1 (finale 3-1).

Mario Balotelli. 14 febbraio. Milan-Bologna 1-0.

Lorik Cana. 2 marzo. Fiorentina-Lazio 0-1.

Non la faccio tanto lunga perché di questi gol ho parlato nei classificoni passati e la differenza è che se ogni classificone ha il suo contesto e dipende anche dallo stato d'animo in cui mi trovo quel mese, in questo caso devo scegliere il Gol dell'Anno quindi le chiacchiere stanno a zero. Devo scegliere il gol in assoluto più bello. Quello che in un ideale classificone del 2053 festeggiando i 50 anni de l'Ultimo Uomo sarà bello ricordare come il primo Gol dell'Anno.

Sono indeciso tra il gol di Balotelli e quello di Pogba. Si tratta di due prodezze quasi equivalenti per bellezza e unicità. Quello di Balotelli è più assurdo ed esprime bene il nervosismo capace di momenti di luminosità assoluta di Balotelli. Riguardarlo mi mette in uno stato euforico e ansioso come guardare un film o una serie tv in cui gli scrittori mettono il protagonista in una qualche situazione terribile solo per il gusto di tirarlo fuori con qualcosa di incredibile. Nel carillon di Pogba invece c'è una perfezione più universale, calma, Pogba è perfettamente al centro tra un eventuale Paradiso e la terra in cui i palloni della Nike sottostanno alle leggi della fisica. Anche il fatto che non si capisce se sbaglia lo stop o se la alza apposta comunica un'ideale armonia tra un gesto unico ed eccezionale e una soluzione a un problema pratico, tra quello che possiamo fare e quello che va fatto.

Il Gol dell'Anno è quello di Pogba contro il Napoli nella partita di andata. Adesso, se non siete d'accordo, sbizzarritevi nei commenti o minacciatemi al telefono.

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LE ESPLOSIONI E I BIDONI DELL'ANNO

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

Prima di snocciolare quella che è la mia personalissima classifica dei “botti”, cioè delle esplosioni, e dei “tonfi”, cioè quei pùnfete di miccetta che ti colgono impreparato quando invece t’aspettavi detonazioni di bomba a mano (tonfo è qua sinonimo di bidone, ma senza cattiveria o sarcasmo), devo fare una premessa. In stagioni come quella appena trascorsa, stagioni che precedono una Coppa del Mondo, il “botto” è vero solo se quando si disperde la nuvola di fumo c’è una convocazione in Nazionale; alternativamente, non è. Allo stesso modo, se una stagione fallimentare presenta la possibilità di riscatto internazionale, beh, non si può definire horribilis del tutto. Nell’assegnazione dei posti sul podio ho tenuto conto soprattutto di questa discriminante: tanto più una convocazione è inattesa, tanto maggiore è il “botto”. Tanto più una mancata convocazione coglie di sorpresa, tanto più scomposto è il “tonfo”. Spero d’essere stato chiaro, e non troppo severo. Iniziamo.

#esplosioni

3. Giacomo Bonaventura, Atalanta.

Non è rientrato nei trenta preconvocati da Prandelli, quindi con l’ultima giornata di campionato si è conclusa la sua stagione: “Qua finisce l’avventura / del Signor Bonaventura” (e non solo non c’era un biglietto aereo per il Brasile ad attenderlo, ma neppure un milione).

Giacomo detto “Jack”, venticinque anni, dovrà aspettarne almeno altri quattro, per cercare di essere protagonista a una rassegna iridata: ammesso e non concesso che sappia confermarsi ai livelli (altissimi) di questa stagione. A cavallo tra marzo e aprile (esattamente il periodo in cui Prandelli lo ha voluto con sé per i suoi stages di preparazione al Brasile) l’Atalanta non solo non ha perso, ma ha anche inanellato quattro vittorie di fila e giocato un gran bel gioco d’attacco: inutile sottolineare come—soprattutto a Milano, contro l’Inter, dove ha realizzato una doppietta—il mattatore sia stato proprio Bonaventura. Nello schema d’attacco di Colantuono di quest’anno, il compito del giovane italiano e di Maxi Moralez, è stato quello di infilarsi negli spazi lasciati liberi da un Denis boa centrale, rimorchiatore delle difese avversarie, deus-ex-machina, per accentrarsi e arrivare al tiro. Finché ha funzionato, quando ha funzionato: ha funzionato a meraviglia. Non sarà stata la sua stagione più prolifica, ma di sicuro quella in cui ha più brillato, e uno ha finito per associare il suo nome a quello dell’Atalanta. Nove su dieci, peraltro, è stata l’ultima all’Azzurri d’Italia.

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Bonaventura esplode.

2. Marco Parolo, Parma.

Se fossi un tifoso del Parma comprerei tre metri di stoffa blu, una bomboletta di vernice spray gialla e preparerei uno striscione con su scritto “Dammi tre Parolo” non tanto per il gusto d’andare a finire in tv in qualche rubrica sugli striscioni divertenti, quanto per esprimere un sincero, indiscriminato afflato d’ammirazione per il centrocampista ducale. Al di là dell’instancabilità (quest’anno è stato sostituito soltanto tre volte, e sempre negli ultimi dieci minuti; ha saltato solo due partite, per squalifica), oltre alla puntualità con la rete (8 gol in stagione, alcuni dei quali fenomenali, due doppiette nelle prime dieci giornate), ben più in là del ruolo di primissimo piano nella devastante cavalcata di diciassette-dico-diciassette risultati utili consecutivi tra una Juventus e l’altra (il Parma, fa bene ricordarlo perché non ha avuto il risalto che meritava, è stato imbattuto da novembre 2013 a tutto marzo 2014: sono cinque mesi, e sono lunghi cinque mesi), al di là di tutto questo di Marco Parolo mi piace tantissimo quella sensazione di decrescita volontaria che sprigiona dalle sue scelte: in agosto poteva passare alla Roma, magari non è dipeso solo dalla sua volontà ma a me piace immaginarlo così, felicissimamente incastrato tra le Alpi Apuane e l’Emilia, contento di poter girare per il centro in bicicletta, di bere un calice di rosso dei colli parmensi, scambiarsi la posizione con Antonio Cassano, andare in gita al mare a Nervi, qualificarsi per l’Europa League all’ultima giornata, non prendersela troppo se Prandelli poi va a finire che lo esclude, cose così. Poi chi lo sa, a settembre si trasferisce a una squadra di vertice e a me toccherà riporre lo striscione in cantina, tra i culatelli che maturano, alla mercé del tempo, delle muffe.

Sinistro al volo, due gran botte da fuori, una punizione da 40 metri, due tap-in da centravanti, una bella chiusura dopo un inserimento centrale, un piatto destro al volo dal limite dell’area: le reti stagionali di Parolo.

1. Ciro Immobile, Torino.

Per ogni rete messa a segno—alcune, quest’anno, davvero pregevolissime—, Ciro il Grande affonda le radici in uno struggle: tanto per cominciare caricarsi sulle spalle il giogo d’un giochino di parole—sublimato da Zeman, che sembra avergli detto: “Uno con un cognome così non potrà mai giocare in una mia squadra”—scontato e fastidioso come le zanzare d’agosto; poi c’è il fatto che per sfondare si sia dovuto accasare, lato e stricto sensu, dal nemico: perché il cartellino di Ciro Immobile, ormai idolo incontrastato del Torino, giova ricordarlo, è di proprietà della Juventus; e lo stesso Immobile vive in un appartamento che gli ha affittato Chiellini. È un po’ come se un operaio semplice della Fiat trasferito in mobilità funzionale alla Autobianchi là fosse diventato CEO (suscitando gli appetiti, per rimanere nella metafora, della Volkswagen, visto che si parla incessantemente d’un interessamento del Borussia Dortmund per l’attaccante).

Con Cerci ha dato vita a una delle coppie d’attacco meglio congegnate della Serie A: in due hanno segnato più della metà delle reti complessive del Toro, hanno rischiato di portarlo in Europa dopo vent’anni e ne hanno trasferito i colori ad inserto dell’Azzurro che scenderà in campo in Brasile. Ecco: se l’esplosione dell’anno, per me, è quella di Immobile non è tanto per le reti stratosferiche che ha segnato o per l’apporto abnorme a un collettivo di per sé modesto, quanto per il suo essere in progressione. La sua parabola (quasi venticinquenne, un club d’alta classifica sui suoi passi, annate precedenti nelle serie minori, una sola presenza in Nazionale prima del Mondiale) ricorda quella di un certo Totò Schillaci. Di qui a un mese e mezzo c’è da augurarsi di sentirne ancora il rimbombo, in lontananza, dall’altra parte dell’Oceano, dalle parti del 22° parallelo, quello di Rio.

Il diciassettesimo gol in campionato di Immobile (poi dicono porti male).

#bidoni

3. Stevan Jovetic, Manchester City.

Non lo so se quello di Jovetic può essere considerato un pacco. Averlo pagato 20 milioni di sterline, 10 per ogni partita giocata da titolare, forse può lasciarlo pensare. L’inizio di stagione non è stato dei più entusiasmanti: nelle prime dieci partite dei citizens è sceso in campo due volte, e in ogni caso, con lui dentro, non hanno mai vinto. Poi c’è stato l’infortunio, il rientro per la gara di FA Cup contro il Chelsea (in cui ha segnato la rete del vantaggio), ancora un infortunio. Le scenette con Milner (dopo il gol contro gli uomini di Mourinho Stevan s’è tolto la maglia, il centrocampista l’ha rimbrottato: “Prima fatti altri sei mesi di palestra”; in un’altra occasione si è presentato con un giubbino rosa shocking, Milner l’ha costretto a dire in conferenza stampa che glielo aveva prestato la sorella) e il malinconico video postato su Instagram della festa scudetto, uno scudetto che non può sentire suo, sono molto tenere. Magari andrà meglio l’anno prossimo

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Giacchettino rosa (ma anche zaini verde menta): Milner is not amused.

2. Erik Lamela, Tottenham Hotspurs.

Sarò sincero fino in fondo: se aveste speso un nichelino per i miei pensieri la sera del 14 Agosto 2013 avrei confessato che Lamela avrebbe sollevato, insieme a Messi, la Coppa del Mondo brasiliana (convinzione corroborata anche dalla grande fiducia che in lui riponeva Sabella). E poi che prima avrebbe fatto un’annata strepitosa nella Roma di Garcia. A me Lamela è mancato, sono mancate le sue pettinate al pallone, i suoi dribbling (99 nell’ultima stagione giallorossa!), insomma le statistiche de bomba y platillo (15 gol, 5 assist) che hanno preceduto il suo approdo al Tottenham.

La sfortuna del Coco a Londra è stata che André Villas-Boas non sapeva proprio sistemarlo (poi Levy ha capito dove sistemare AVB), così come neppure Sherwood. Non che le altre stelle giunte col tesoretto incassato con la cessione di Bale abbiano brillato: eppure ci si aspettava qualcosa in più da chi aveva fatto segnare il record d’ingaggio (30 milioni di sterline), non che si facesse rubare la scena da Andros Townsend (uno che s’è fatto nove prestiti prima di trovare spazio con gli Spurs). Tre partite da titolare soltanto, la Selecciòn sfumata (con buona pace di Sabella), stagione finita a marzo, un posto nel Worst XI del Daily Mail (in buona compagnia giallorossa: c’è pure Stekelenburg).

Il poster che gli hanno dedicato i tifosi, paragonandolo a un cagnoletto smarrito, suscita tenerezza. Io lo prenderei domani, se i tifosi e la proprietà del Tottenham accettassero lo scambio con il mio mezzo segugio (che, per inciso, si chiama Lapo Cronopio).

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Una scena che non vedremo quest’estate.

1. Ishak Belfodil, Inter/Livorno.

In un anno (da giugno 2012 a giugno 2013) il prezzo del suo cartellino è triplicato. Con il Parma ha disputato una stagione così convincente che l’Inter se l’è aggiudicato per quasi quindici milioni di euro (più la metà di Cassano). A rileggere la storia della Serie A 2013-2014 non è difficile capire chi ha preso il pacco e chi no. In tutto ha giocato 965 minuti, dieci partite leggermente abbondanti se solo fosse sceso in campo, qualche volta, per 90 minuti di filato (invece: mai). Non ha segnato neppure un gol. E dire che puntava fortissimo al Mondiale brasiliano, dove avrebbe voluto guidare l’attacco algerino (sebbene anche coi maghrebini manchi dal campo dal 14 agosto del 2013). È andata a finire che a incrociare i tacchetti con la Russia, la Corea del Sud e il Belgio ci saranno Djebbour del Nottingham Forrest, Slimani dello Sporting Lisbona e Soudani della Dinamo Zagabria. Non Belfodil del Livorno. Se poi raccontiamo i fatti come stanno davvero davvero, il tonfo è più sordo: non ci sarà Belfodil dell’Inter.

Questa è una scena insieme meravigliosa e tristissima. Viene annunciata la rivelazione dell’anno 2013 della nazionale algerina: Ishak Belfodil. Poi ci si corregge: ah, no, scusa Belfodil, resta dove sei che non sei tu, ma Saphir Taïder.

LE STORIE STRAPPALACRIME

di Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)

1. Il gigante e il bambino.

Georgios Samaras è un calciatore greco, fa l'attaccante, non ha ancora trent'anni e gioca nel Celtic. Serve come premessa: in un'orgia di cristianironaldi e sapienti prodotti di marketing per le nuove generazioni un calciatore semplice, senza eccessi e pure bravo, rischia di non essere noto. Nonostante i 193 centimetri non lo rendano invisibile, nonostante le qualità siano anche diverse da quelle classiche del pennellone. Soprattutto perché gioca in un club (like no other) in cui l'idea, la sua rappresentazione ideologica e storica è più forte del potere del singolo.

Eppure, nel giorno dei festeggiamenti ufficiali per il quarto scudetto di fila della squadra dei cattolici di Glasgow, Samaras, capitano e leader, ha deciso di salutare il Celtic lasciando un'eredità di lacrime belle. Prima ha annunciato l'addio, dopo sei anni e mezzo e 74 gol. Anche un po' polemico perché con il contratto in scadenza e senza nessuna offerta ha dovuto specificare che «me ne vado, ma non è una mia decisione. Non ho avuto offerte dal club». Di più: «Lascio il Celtic, ma il Celtic non mi lascerà mai», sottolineando come quella maglia diventi un tatuaggio all'altezza del cuore. L'eredità è quel gesto durante il Trophy Day (una festa pazzesca iniziata così) che hanno visto tutti, anche chi non lo conosceva. E quel passo emotivo verso la tribuna, verso Jay, tifoso down, in mano la medaglia datagli da Neil Lennon (l'allenatore degli Hoops) e il braccio teso alla ricerca dell'idolo. Samaras non ci pensa, ha la bandiera della Grecia in una mano e prende Jay, gli dedica uno dei più bei sorrisi che si possano immaginare. Lo stringe, lo porta un po' con sé in campo.

Sono cinquanta secondi, da vedere con un fazzoletto e non in ufficio, se ai colleghi si è spacciata l'idea di essere uomini duri.

2. Il testamento di Tito.

Tito Vilanova è morto il 25 aprile. Dopo operazioni, cure, dopo tutto quello che poteva fare per sconfiggere il tumore che non è riuscito a sconfiggere. Dopo il ritiro e la sua lettera di congedo dal pallone che gli aveva dato tutto. «Dopo cinque anni meravigliosi in una squadra nella quale ho realizzato tutti i miei sogni da allenatore, è giunto il momento di affrontare un cambiamento nella mia vita professionale e di dedicare le mie forze per curarmi da quella malattia che mi è stata diagnosticata». Le ha dedicate, le forze. Ma non gli è bastato. Per capire chi è stato Vilanova, ombra prima e sostituto poi di Guardiola, basta non aggiungere una parola a quanto ha scritto Paolo Condò sulla Gazzetta. Il resto è la straordinaria commemorazione (e commozione) del pallone. Quello dei tifosi, il video pubblicato dal Barcellona sul minuto di raccoglimento al Madrigal, l'omaggio del Camp Nou e quell'immenso fiocco luttuoso in mezzo al campo.

E i funerali con i figli che leggono («Eri il nostro eroe») e i calciatori del Barcellona in lacrime. E soprattutto il figlio Adria, con il quale Tito era tornato a giocare dopo l'intervento che pochi giorni dopo ha segnato con la maglia della Cantera del Barcellona e ha esultato guardando il cielo. E subito dopo: «Il mio primo gol è per te, che sei sempre al mio fianco. Ti amo Papà».

3. The sound of silence.

Hillsborough è una ferita che sanguina ancora, dopo venticinque anni. Una pugnalata al cuore del calcio inglese datata 15 aprile 1989: 96 morti (e oltre 800 feriti) durante la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, a Sheffield. 96 morti schiacciati contro le transenne o calpestati dalla folla. Vent'anni di bugie, prima delle scuse del governo per la gestione folle di quel giorno in cui si creò un imbuto mortale. Quest'anno, per il venticinquesimo anniversario, tutte le partite del campionato inglese sono cominciate con sette minuti di ritardo per ricordare la sospensione di quella partita (avvenuta sei minuti dopo la palla al centro), ma soprattutto Anfield ha tolto il fiato: si giocava Liverpool-Manchester City .

Prima la canzone d'amore più bella del mondo, ché tale è You'll Never Walk Alone, a sciarpe tese e ugole schierate. Poi, i cartoncini colorati per scrivere “96 – 25 years” e ricordare i disgraziati finiti al macello mentre troppa gente c'era e troppa gente spingeva per esserci. Ma soprattutto, un minuto di raccoglimento come pochi altri, forse nessuno. Di silenzio totale, solenne. Si sentono, in uno stadio pieno, i soffi del vento e qualche clic di fotocamera. Il resto è contemplazione, memoria, un modo di onorare chi non ha fatto niente per morire, chi non se l'è cercata. Chi voleva vedere solo una partita di pallone e, forse, è finito in una trappola.

4. Ragazzo dell'Europa.

Edgar Cani è arrivato a Bari il 31 gennaio 2014. Edgar Cani era arrivato a Bari anche l'8 agosto 1991. Aveva undici mesi, era a bordo della nave Vlora con altri ventimila albanesi, nel più grande sbarco di clandestini mai giunto in Italia. Finì nello stadio (il Della Vittoria) è tornato in uno stadio (il San Nicola). Raccontano che quando è stato acquistato dal Bari si sia messo a piangere, perché gli avevano raccontato di quella città della sua infanzia, dove è stato persino battezzato prima di partire con la famiglia per il centro dell'Italia e trovare una vita normale. È diventato calciatore, ha giocato tra B e C con Palermo, Ascoli, Padova, Piacenza, prima di fare un salto in Polonia, qualche comparsata in Serie A con il Catania, la B con il Carpi e di nuovo Bari, in questo giro perfetto del destino. Attaccante non proprio prolifico, faccia da bravo ragazzo: il suo ritorno è poetico senza bisogno di aggiungere gol, ma se poi nel mercoledì di campionato, proprio a Carpi, lui segna in una partita che i suoi compagni vincono 2-1 ancora meglio. Quindi è decisivo, quindi è stato lui a portare il Bari in zona playoff (dunque ufficialmente in lotta per la A) dopo una rimonta folle, il rischio serie C e il fallimento dell'era Matarrese e l'altra favola della squadra senza padroni. Quindi al momento l'ex bambino della Vlora ha segnato il gol più importante della stagione del Bari. Un modo per dire grazie, per l'accoglienza di ventitré anni fa.

5. Boys don't cry.

Andiamo con i numeri: 857 partite con la maglia dell'Inter, dal 27 agosto 1995 a oggi. 5 scudetti, 4 Coppe Italia, 4 Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa del mondo per club e una Coppa Uefa. È il giocatore in attività e lo straniero con più presenze in Serie A, il secondo giocatore in assoluto con più presenze in A dopo Paolo Maldini, quello con più presenze nella storia dell'Inter, con più presenze consecutive con la maglia dell'Inter (137), il più vincente della storia in nerazzurro. E anche il giocatore più presente nella storia della Nazionale argentina (145).

19 anni nella stessa squadra, pochissime interruzioni, prestazioni di classe e comportamenti eleganti e sentimenti reali, visibili, un volto che non tradisce mai. Javier Zanetti, che a 40 anni ha recuperato anche da un brutto infortunio che per altri sarebbe stato fin troppo pesante, resta un simbolo che si ritira. Abbandona il calcio giocato e con la forza che ha mostrato a ogni corsa, ha chiesto di non ritirare la maglia numero 4.

Il capitano dell'Inter ora sarà vicepresidente, resterà dove lo hanno adottato. Lo ha detto lui, nel discorso dopo la partita con la Lazio. «Grazie per avermi adottato. Finisce il calciatore, va avanti l'uomo.»

Tutto l'amore degli interisti (e di tutti gli altri, perché un simbolo è trasversale) è in questo momento, quello del suo ingresso in campo contro la Lazio.

LE STATISTICHE DELL'ANNO (DI CUI NON SI PARLA CHISSÀ PERCHÉ)

di Roberto Pizzato (@RobertoPizzato)

1. Difensori dribblomani.

Una graduatoria spesso snobbata è quella dei dribbling effettuati dai difensori e—come molte delle curiosità regalate dai numeri—è proprio dove guardano in pochi che si nascondono le sorprese.

Il Dramè di cui sto per parlare non è Ousmane—passato alle cronache per il suo trasferimento dalla Lega Pro allo Sporting Lisbona—ma il suo omonimo, Boukary Dramè, terzino sinistro del Chievo Verona, classe 1985, francese di nascita, ma senegalese di nazionalità. Non brilla per il senso del gol—una rete alla Juve e una al Napoli in tre campionati—e il suo apporto offensivo in questa Serie A è stato di 20 occasioni create (assist totali, che non hanno necessariamente portato al gol) con 3 assist vincenti.

Ha saltato l’uomo, però, 70 volte, di media una ogni 31 minuti di gioco.

Tra i pari ruolo dei cinque maggiori campionati europei è secondo solo allo svizzero Ricardo Rodriguez, difensore del Wolfsburg che merita due parole. Il suo sangue è per una metà spagnolo e per l’altra cileno, ma è nato a Zurigo il 25 agosto 1992. Nell’ottobre 2011 ha esordito nella Nazionale maggiore elvetica, prima ancora di vestirne la maglia nell’under 21. Durante l’ultima Bundesliga ha realizzato 5 goal (due su rigore) e 9 assist vincenti: ed è il difensore che ha effettuato più assist totali nelle 5 migliori leghe europee: 77 (calci piazzati inclusi).

Rodriguez con musica un po’ coatta.

Il senegalese del Chievo non è più giovanissimo, ma è una buona opzione per chi cerca un fluidificante low cost, vecchia maniera, che garantisca fisicità e capacità di creare superiorità numerica. Lo svizzero, stando ai numeri, pare una garanzia per chi voglia completare la rosa con un esterno sinistro giovane, ma già maturo.

2. Attaccanti fallosi.

Il giocatore più falloso della Serie A 2013/2014 è stato Perparim Hetemaj, utilizzato anche come trequartista da Corini in questo finale di campionato. Il centrocampista finlandese è l’unico giocatore in tripla cifra per infrazioni commesse nei cinque maggiori campionati europei: 108 falli fatti, uno ogni 24 minuti di gioco.

Tuttavia i dati evidenziano l’erroneità di un luogo comune, ovvero che non sono difensori e interditori i più fallosi. Se prendiamo in considerazione il rapporto tra i minuti giocati e le infrazioni commesse, lo scettro del più scorretto va a Stefano Okaka Chuka, autore di un fallo ogni 19 minuti di gioco; seguono Belfodil, Hetemaj, Maxi López, Nenê, Ryder Matos e Simone Zaza.

Ed è un altro attaccante, Mario Balotelli, il giocatore che ha commesso più falli in una singola partita: 9, nella gara di ritorno contro la Fiorentina.

3. Difensori che procurano rigori (agli avversari).

Se il fallo può essere una strategia per neutralizzare il gioco avversario quello in area di rigore è comunque da evitare. Eppure anche in questo c’è chi è particolarmente bravo, come Alejandro Damián González. L’uruguaiano di Montevideo – passato la scorsa estate dal Penarol all’Hellas Verona – ha procurato ben quattro penalty con i suoi maldestri interventi (record stagionale), il tutto in appena 13 presenze.

In Europa però c’è stato qualcuno che ha saputo fare peggio: sono stati 5 i tiri dagli undici metri procurati da Săpunaru—difensore rumeno dell’Elche – e dal tedesco Hilbert, terzino del Bayer Leverkusen.

4. Il para-rigori e il portiere-regista.

Samir Handanovic si conferma specialista dei rigori. Lo sloveno è stato capace di neutralizzare tre penalty (record in questa Serie A), la metà esatta dei sei calciati dai suoi avversari.

In Europa hanno fatto meglio solo Carrasso del Bordeaux (4 su 5) e il giovane Leno del Bayer Leverkusen (5 su 8), che poteva contare sull’aiuto del succitato Hilbert per mettersi alla prova. Ecco il tedesco che dice no a Firminio nel match vinto 2-1 contro l’Hoffenheim:

Bernd Leno è nato a Bietigheim-Bissingen ventidue anni fa e la sua storia è quella di un predestinato. Da bambino giocava centrocampista, poi ad un torneo indoor il portiere del SV Germania Bietigheim si fa male e lui lo rimpiazza tra i pali. Qualche anno più tardi finisce nelle giovanili dello Stoccarda e ha la possibilità di allenarsi con Jens Lehmann, uno che i record li ha nel sangue: 853 minuti di imbattibilità in Champions League con la maglia dei Gunners, portiere più espulso della Bundesliga con 5 rossi e primo portiere a segnare su azione nel campionato tedesco. Ma soprattutto uno che qualche rigore decisivo l’ha parato, come ricordano bene Zamorano e Riquelme.

In un’intervista a Bild, Leno svela che è stato Lehmann a dargli dei consigli, e pare siano risultati utili. Nell’agosto del 2011 debutta in Bundesliga con la maglia del Bayer Leverkusen, alla terza gara è già record (uno dei tre portieri ad essere rimasto imbattuto nelle prime tre gare disputate di campionato, dopo Dirk Krüssenberg e Heribert Macherey). Il 13 settembre 2011 diventa invece il portiere più giovane a esordire in UCL (19 anni e 193 giorni). Ma il dato sui rigori neutralizzati di Leno è incredibile: dall’estate 2011 a oggi, ha parato 9 rigori su 21 tra Bundesliga e Champions League: il 43%.

Se invece prendiamo in considerazione lo storico (cioè tutte le partite giocate) dei cinque maggiori campionati europei, in cima alla lista c’è ancora Samir Handanovic, l’estremo difensore in attività con più rigori parati: 17 (su un totale di 46, 37%). In carriera lo sloveno ha parato più di un rigore su tre (29 su 82, 35%).

Anche Pepe Reina ha un buon curriculum da questo punto di vista (11 su 32 tra Premier e Serie A, 34%), ma il suo pezzo forte è la fase offensiva. Lo spagnolo è a tutti gli effetti un portiere-regista: ha una media di 20 passaggi a partita (record in questo campionato) e in alcuni casi detta addirittura il tempo della ripartenza. È infatti l’unico estremo difensore in Europa con un second assist all’attivo, il termine tecnico per il passaggio che mette in condizione di effettuare l’assist vincente.

Quest’anno Reina è stato l’unico portiere del nostro campionato a effettuare un assist vincente, quello per l’ultima rete di Higuaín nel 4-2 alla Lazio e in totale ha creato tre occasioni da rete per i partenopei.

5. Quelli che non ti aspetti.

Infine eccoci di nuovo ai dribbling. In molti sapranno che in Italia è Cuadrado il giocatore che più fa impazzire gli avversari, recordman nei dribbling positivi (118, il 49% di quelli tentati) e nei falli subiti (116). Se consideriamo la frequenza nel saltare l’uomo però, arriva una sorpresa: Ishak Belfodil. L’algerino ha totalizzato 25 presenze in questo campionato, ma solo nove da titolare, per un totale di 1011 minuti. Spedito a Livorno dopo il suo deludente avvio di stagione – e ancora a secco di gol – l’ex Parma ha dribblato di media un avversario ogni 22 minuti, miglior dato del torneo in corso.

La chiave per interpretare questi dati? Essere impiegati nelle fasi finali delle partite, quando gli avversari sono più stanchi, e di conseguenza gli spazi sono maggiori, può rendere le performance delle riserve migliori di quelle dei titolari. Per i giocatori impiegati per gare intere la tradizionale media a partita è un perfetto indicatore di incisività, soprattutto per quanto riguarda i gol e gli assist vincenti, che contano per il risultato finale proprio nel singolo mach. Tuttavia le medie calcolate per minuto rendono giustizia a quei giocatori che vengono impiegati solo per scampoli di partita.

Si spiega così anche il primato in A di Honorato Ederson nell'indice della frequenza di occasioni create su azione. Il brasiliano della Lazio – solo sei presenze da titolare su 15 totali – ha mandato al tiro un compagno ogni 32’, segue Robinho con un assist ogni 33’. Nei maggiori cinque campionati europei dietro al biancoceleste troviamo David Silva, Hazard, Willian e Robinho.

6. Being on fire.

L’ultimo paragrafo è dedicato alle grandi prestazioni individuali, quelle che si verificano quando un giocatore è - per dirla come gli inglesi - on fire. Qui i numeri ci dicono solo una cosa: quando il talento incontra l’ispirazione e la forma.

Kovacic, l’unico che in Italia è riuscito a realizzare tre assist in una sola partita (vs Lazio). In Europa ha fatto anche meglio Roberto Firmino, che nel 5-1 dei suoi all’Amburgo ha contribuito sempre con tre assist vincenti, ma anche con due gol.

Berardi, capace di segnare un poker di reti contro il Milan, solo Luis Suarez e Carlos Vela ci sono riusciti nei migliori campionati europei 2013/2014.

https://www.dailymotion.com/video/x17jshx_real-sociedad-4-celta-3_sport

“El pistolero” Suarez - autore anche di un assist nel 5-1 al Norwich dello scorso dicembre - ne aveva fatti quattro anche in nazionale, in un 4-0 al Cile del novembre 2011 valido per le qualificazioni ai Mondiali.

Cuadrado, impossibile da fermare contro la Sampdoria, 12 i suoi dribbling positivi nel match dello scorso novembre.

Totti, ispiratissmo contro il Verona alla seconda di campionato, 10 le occasioni create dal capitano giallorosso.

Nota: (Dove non indicato i dati riguardano i giocatori con almeno 15 presenze nei rispettivi campionati nazionali 2013/2014.) Dati forniti gentilmente daoptasports.com.

IL RUOLO DELL'ANNO: IL NUMERO 10

di Emiliano Battazzi (@e_batta)

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Il numero 10 è indefinibile, meglio un’immagine.

Chissà se c’era un fantasista nelle prime partite giocate nella storia del calcio. Inghilterra-Scozia, nel 1872, terminò 0-0, e dai racconti dell’epoca pare che i padroni di casa giocassero con il modulo 1-2-7, mentre gli avversari fossero in campo con il più “prudente” 2-2-6. Difficile ottenere indicazioni tattiche da questi numeri.

I primi numeri 10 della storia del calcio furono di Arsenal (contro l’odierno Sheffield Wednesday) e Chelsea (vs Swansea Town), il 25 agosto 1928, cioè nella prima occasione in cui i numeri di maglia vennero ufficialmente utilizzati. Nel calcio inglese dell’epoca quel numero per noi tanto importante andò all’interno sinistro d’attacco, una sorta di attaccante esterno (ma più vicino all’area di un’ala), un antenato del trequartista.

Ci pensarono i sudamericani a reinterpretare e modernizzare il ruolo del cosiddetto fantasista, che cominciò ad arretrare e a posizionarsi più vicino al centrocampo, con il compito di collegare i due reparti. Nel ciclo del grande Uruguay che tra il 1920 e il 1930 vinse quattro Coppe America, due Olimpiadi, e il primo Mondiale della storia, esistevano addirittura due playmaker offensivi (ma non c’erano i numeri). Gli argentini poi definiranno il ruolo del trequartista come “enganche”, letteralmente il giocatore che aggancia l’attacco al centrocampo.

Nel 1950 i numeri furono introdotti anche nel Mondiale, per la prima volta. Il primo numero 10 a vincere il trofeo fu quindi l’uruguaiano Schiaffino, che segnò nell’ultima e decisiva partita contro i padroni di casa del Brasile.

Schiaffino era ancora un classico regista offensivo, non un grande finalizzatore. Otto anni dopo, il numero 10 e il ruolo del fantasista fecero un definitivo passo in avanti nell’immaginario collettivo: un 17enne Pelé vinceva i Mondiali di Svezia, indossando per puro caso quella maglia così importante. La federazione brasiliana inviò la lista dei convocati dimenticando di inserire i numeri; toccò a un dirigente (uruguaiano) della FIFA il compito di assegnare i numeri e lo fece in modo del tutto casuale, tant’è che il portiere Gilmar dovette indossare la maglia numero 3. Pelé era un ragazzino, ed era una punta: quella maglia non gliel’avrebbero mai data. Forse da lì ha avuto inizio una sorta di dualismo che tuttora perdura, tra il numero 10 regista (stile Riquelme) e il giocatore d’attacco, spesso seconda punta (stile Baggio).

Ma è un binario troppo stretto per comprendere la varietà di ruoli, compiti e posizioni che spettano al numero 10. In Italia, la leggenda vuole che il fantasista sia un calciatore completamente libero da compiti tattici, e calato in campo davvero come un deus ex machina, uno che all’improvviso arriva e ti risolve la partita. Non è così, e la nostra Serie A ce lo dimostra.

Il trattato sul falso nove: Totti arretrando si porta via sempre un difensore centrale. Così crea spazio per l’inserimento delle ali, su cui gli esterni interisti non riescono ad accorciare. Inventa tempi di gioco e spazi per i compagni, e alla fine segna due gol.

Da una parte ci sono i trequartisti che, con l’avanzare dell’età, hanno assunto una posizione di falso centravanti. In questa categoria rientrano, in modi tra loro diversi, Totti, Cassano e Di Natale. I primi minuti di Totti in campionato con Garcia sono stati sulla stessa lunghezza d’onda di Zeman: un giocatore offensivo libero di muoversi ma partendo dalla fascia sinistra. Al centro dell’area, infatti, nell’esordio di Livorno c’era Borriello, con Florenzi sulla destra. Poi entrò Gervinho, e Totti ritornò al ruolo della sua prima vecchiaia calcistica, quello scoperto a 30 anni grazie a Spalletti: il centravanti arretrato stile Hidegkuti. Da quel momento in poi, anche Garcia farà affidamento su specifiche qualità tattiche del capitano della Roma. Una fra tutte, la capacità di creare spazi dietro la linea difensiva avversaria, semplicemente uscendo dall’area di rigore (e tirandosi dietro almeno un centrale avversario). In questo modo, il numero 10 giallorosso ha una serie di opzioni di passaggio veloce: le due ali infatti possono tagliare verso l’interno, lasciando campo per l’avanzata dei terzini, in particolare Maicon.

Tra i nuovi arrivati in questa posizione ibrida di playmaker d’attacco c’è Antonio Cassano. Da sempre usato come seconda punta e come attaccante esterno sinistro con il compito di servire i tagli della punta centrale o di calciare con il piede destro, Donadoni nel corso della stagione l’ha utilizzato anche come punto di riferimento centrale, affiancato da Biabiany e Schelotto (o Palladino). In particolare ha funzionato molto bene il movimento armonico tra Cassano e Parolo, con quest’ultimo che si inseriva nello spazio dietro la linea difensiva, ricordando appunto i tagli di Perrotta nella Roma di Spalletti. In questo ruolo Cassano ha fatto talmente bene che la media punti del Parma si è impennata (ad inizio stagione Donadoni usava il 3-5-2, con risultati pessimi) e il c.t. Prandelli ha detto di pensarci anche per la Nazionale.

Di Natale ha un ruolo più da attaccante vero. Nonostante l’età, svaria ancora molto sul fronte offensivo, sia per creare superiorità numerica sulle fasce che per aprire spazi agli inserimenti di Pereyra. In più, Di Natale partecipa spesso al pressing offensivo sul portatore avversario (ma sempre in combinazione con la seconda punta, o il centrocampista offensivo), e si sistema largo a sinistra quando il pallone ce l’hanno gli avversari, pronto a far scattare un contropiede veloce. Rispetto al falso centravanti, Di Natale ha la caratteristica di attaccare quasi sempre la profondità.

Tévez si abbassa e si alza con un movimento a fisarmonica, sfruttando il punto di riferimento di Llorente, che gli “pulisce” anche i palloni.

Grande protagonista di questo campionato, forse insieme a Vidal il migliore nella stagione dei record della Juventus, Carlos Tévez è un numero 10 molto particolare. In linea generale schierato da seconda punta, l’argentino si è spesso sistemato dietro la punta centrale Llorente, per poter utilizzare un particolare movimento ad elastico. Lo spagnolo prende posizione, spesso in area di rigore, ed è Tévez che si avvicina per sfruttarne la sponda. Quest’anno l’Apache è stato impiegato anche sulla sinistra nel 4-3-3 adottato da Conte in alcune partite, in un ruolo non troppo dissimile da quello che ricopriva nell’Argentina di Maradona prima e Batista poi. È un numero 10 sui generis, che sa fare tutto, ma che è molto più attaccante di un classico “enganche”, tant’è che al Boca Juniors, quando c’era Riquelme, Tévez indossava la numero 26 (per poi passare alla 9). Per assurdo, se la Juve giocasse in Argentina, nessuno leverebbe dalle spalle di Pirlo la numero 10.

Anche da noi esistono però dei giocatori molto simili al trequartista basso sudamericano. Se vogliamo trovare una versione italiana possiamo pensare a Francesco Lodi del Catania (per metà stagione al Genoa), spesso utilizzato da vero e proprio regista a dettare i tempi di gioco. Nonostante la stagione difficile, sia nella prima parte con il Genoa che nella seconda con il Catania, Lodi è riuscito ad aumentare la media dei suoi passaggi chiavi, passati da 1,7 della scorsa stagione a 2,1. In questo caso, si tratta di un numero 10 che imposta il gioco dal basso, spesso cercando la palla in profondità per le punte, o dettando i tempi del contropiede.

Kaká non è più il fantastico trequartista che conoscevamo, ma è sempre uno dei migliori dal punto di vista tecnico.

Kaká ai primi anni di Milan era un fantasista che si esaltava nelle ripartenze e nelle transizioni offensive. All’epoca vero e proprio prototipo del trequartista moderno, con ottima visione di gioco, precisione nei passaggi, dribbling elegante e corsa impressionante, ormai Kaká ha perso molte delle sue caratteristiche più evidenti. Nel Milan di Seedorf è stato spesso posizionato alle spalle dell'unica punta Balotelli, con il compito di garantire ampiezza al gioco rossonero, allargandosi sulla sinistra per poi rientrare sul piede destro. A volte attacca anche lo spazio nelle ripartenze, ma il passo non è più quello di una volta.

A guardarli bene, questi numeri 10 (sì, Kaká è il numero 22, ma fa niente) hanno una caratteristica comune: nessuno di loro ha meno di 30 anni. Il calcio italiano ha bisogno certamente di classe ed esperienza, ma forse ancora di più di freschezza atletica e di gioco.

I PEGGIORI TWEET

di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)

È la fine. E proprio come in Big Fish, vengono a salutarci, per l'ultima volta, prima di scomparire per sempre, i personaggi fantastici che ci hanno accompagnato fin qui: Cannavaro, Cirillo, Cerci, Bellomo, Weah... L'unica differenza con il film è che mentre l'anziano Edward Bloom è portato in braccio dal figlio, noi andiamo a salutare l'ultima Top 5 dei peggiori tweet a cavallo della disperazione.

5. Osvaldo fa tutto. Da solo.

https://twitter.com/danistone25/status/451845880317227008

4. La gentilezza dei numeri 27.

https://twitter.com/Quagliarella_27/status/331510184088317952

3. La gentilezza dei numeri 9.

https://twitter.com/Ale_Matri/status/331417041540108289

2. L'insegnamento del Divin Codino.

https://twitter.com/BaggioOfficial/status/326381838308343809

1. Alla fine Baronio, alla festa della Lazio, c'è andato.

https://twitter.com/Alessio_Guerra/status/465927832288636928

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