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Il classificone: Dicembre
10 gen 2014
I gol più belli, le giocate peggiori e quelle migliori, le perle della Liga, i tweet più brutti, le partite da ricordare, le rinascite in NBA, le interviste sportive più interessanti del mese più dicembrino che ci sia.
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I Gol del Mese

di Daniele Manusia (@DManusia)

10. Gervinho. 22 dicembre. Roma-Catania 4-0. Assist: Adem Ljajic.

Al di là del fatto che questo gol viene dopo una serie di occasioni mancate e che Gervinho segna calciandosi sulla gamba d'appoggio, è molto bello come si butta contro la difesa avversaria riuscendo in qualche modo ad arrivare prima sulla palla, ed è bello anche l'assist di Ljajic con una specie di no-look.

9. Manolo Gabbiadini. 8 dicembre. Sampdoria-Catania 2-0. Assist: Angelo Palombo.

Devo ammettere che conosco pochissimo Manolo Gabbiadini ma ogni volta che guardo una partita in cui c'è Manolo Gabbiadini ho l'impressione che Manolo Gabbiadini tiri in porta praticamente ogni volta che ha la palla tra i piedi, non importa da quale distanza o con quale angolo di visuale. Manolo Gabbiadini mi sembra uno di quei giocatori a cui hanno fatto davvero troppi complimenti da piccolo, probabilmente in un'età in cui avere un buon tiro significava calciare sotto la traversa perché il portiere avversario ancora non ci arrivava. Non so se Manolo Gabbiadini è questo tipo di giocatore, non sto dicendo che lo sia, ma ogni volta che l'ho visto giocare Manolo Gabbiadini tirava da venticinque, anche da trenta metri, ottenendo al massimo un tiro strozzato all'angolino basso che il portiere deviava in angolo per senso del dovere. Tuttavia questo è un bel gol, il movimento ad allargarsi e il controllo sono intelligenti, il tiro, beh, è da persona che ha grande considerazione di sé, ma dato che gli è entrato buon per Manolo Gabbiadini.

8. Ciro Immobile. 22 dicembre. Torino-Chievo 2-1 (finale: 4-1). Assist: Emiliano Moretti.

Ecco, questo invece è un gol da centravanti con la testa sulle spalle. Secondo me Ciro Immobile non ha pensato dall'inizio dell'azione, come invece avrebbe fatto Manolo Gabbiadini, a rientrare sul destro e tirare. No, quando è rientrato sul destro lo ha fatto solo perché era la cosa più logica da fare, poi ha fatto un passo verso l'area e ha alzato la testa, che era la seconda cosa logica da fare dopo essere rientrato sul destro, e quando ha visto che nessuno lo ha attaccato ha pensato: "Sai che c'è? Io tiro". Tutti i tiri, in teoria, hanno come scopo quello di finire in rete, ma certi tiri hanno un tipo di qualità che non saprei come definire se non come: ha tirato per fare gol.

7. Mario Balotelli. 7 dicembre. Milan-Livorno 2-2. Punizione.

Si può incolpare il povero Francesco Bardi per non aver parato una punizione simile perché era sul suo palo? (Credo che whoscored.com abbia contato questo E = error lead to goal). O forse è il caso di fare tutta una tirata sui palloni moderni che permettono questo tipo di traiettorie? A me questo tipo di traiettorie piace, vorrei vedere molti più tiri percorrere decine e decine di metri sempre alla stessa altezza da terra e alla stessa velocità, o andare molto in alto per poi scendere molto rapidamente. Sembra davvero che i calciatori abbiano i superpoteri, Balotelli come Magneto degli X-Men, manca solo la mano tesa per controllare meglio la direzione della palla e il caschetto per non farsi leggere nel pensiero dai telepati.

6. Marco Sau. 8 dicembre. Cagliari Genoa 1-1 (finale: 2-1). Assist: Mauricio Pinilla.

Questo non è un bel gol da vedere su uno schermo. Immagino però che emozione deve essere stata dal vivo, per i tifosi del Cagliari, quando prima Marco Sau ha fintato di calciare di sinistro, poi si è accentrato facendo sbattere tra di loro i due difensori che aveva davanti, poi ancora non ha cercato il secondo palo di interno destro ma si è accentrato un po' di più con un tipo che gli entrava frontale in scivolata e un centrocampista che arrivava alle sue spalle, e quando quasi sembrava fosse troppo tardi ha calciato fortissimo sotto la traversa facendo tirare a tutti un grosso sospiro di sollievo.

5. Arturo Vidal. 6 dicembre. Bologna-Juventus 0-1 (finale: 0-2). Assist: Federico Peluso.

Questo gol merita per l'azione che lo precede. Solo la Juventus ha un gioco che le permette di trovare due volte, all'interno della stessa azione, l'inserimento di due centrocampisti in area avversaria. E d'accordo, sull'inserimento decisivo di Vidal la difesa avversaria è messa male perché in sostanza hanno appena salvato una palla sulla riga di porta o quasi, ma quando Ogbonna dà la prima palla a Marchisio la linea difensiva del Bologna è schierata alta per non dare spazio tra le linee alla Juventus, e lasciare alla Juventus la soluzione in teoria più difficile dell'inserimento alle spalle dei difensori.

4. Giuseppe Rossi. 15 dicembre. Fiorentina-Bologna 3-0. Assist: Gonzalo Rodriguez.

Anche “Pepito” Rossi si inserisce benissimo, a questo aggiunge un controllo perfetto e una finalizzazione molto swaggy. Che tra l'altro era quasi l'unica opzione a sua disposizione.

3. Keita Baldé. 2 dicembre. Lazio-Napoli 2-3 (finale 2-4). Assist: Brayan Perea.

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Niente, i tifosi della Lazio non riescono a godersi neanche un talento ex-canterano della cantera più prestigiosa d’Europa che segna il suo primo gol in serie A tipo uno di quegli slalom che si facevano nelle edizioni passate di PES e che adesso sono praticamente impossibili. Qualche settimana dopo Keita non è stato convocato perché ha litigato con Radu, poi è scoppiato il casino Petkovic/Reya. Insomma, se veramente tenessero a Keita, per il bene del calcio, dovrebbero metterlo in una cesta di vimini e lasciarlo davanti la porta di casa di Rudi Garcia.

2. Rodrigo Palacio. 22 dicembre. Inter-Milan 1-0. Assist: Freddy Guarin (sì insomma, assist alla cieca).

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Tecnicamente secondo me dovremmo cercare un termine diverso da tacco per questo genere di cose. È più simile a un bel passaggio dietro la schiena a basket. Non è un gesto difficile, ma raro. Che poi sia utile per vincere un derby a 4 minuti dalla fine è ancora più raro. Al tempo stesso il derby di Milano quest'anno era così squallido che non me la sento di sceglierlo come "Gol del Mese".

Il Gol del Mese. German “El Tanque” Denis. 8 dicembre. Verona-Atalanta 0-1 (finale 2-1). Assist: Moussa Koné.

Ci sono molti gol di prime punte in questa classifica (e ci sarebbe potuto essere anche questo di Llorente) e la Serie A in effetti è un campionato da prime punte. Questo del "Tanque" però è speciale. È identico al secondo di Milito contro il Bayern di Monaco in finale di CL nel 2010, solo che Milito dopo aver saltato Van Buyten incrocia sul secondo palo, mentre Denis scavalca il portiere con un tocco sotto di sinistro. (E, certo, non era in finale di Champions.) Tipo il gol di Messi uguale a quello di Maradona contro l'Inghilterra. La Storia del Calcio magari si ripete più spesso di quanto me ne renda conto, e mi chiedo se quella dei gol derivativi sia una vera e propria categoria e quanti ce ne siano. Per quel che mi riguarda la loro circolarità (il fatto che un gol sia bello perché è uguale a un altro gol bello) ha un potere di seduzione vicino all'ipnosi.

Le Perle del Mese in Liga

di Valentino Tola (@ValentinoTola1)

1. La quadratura dell’Athletic.

In estate era uno dei progetti più stimolanti. L’acquisto di Beňat sommandosi ad Ander Herrera prefigurava il centrocampo con più doti di palleggio della "Liga degli Umani"; il ritorno sulla panchina di Txingurri (“formica”) Valverde suggeriva invece una normalizzazione fisiologicamente necessaria della locura di Bielsa, e cioè offensivi sì ma con qualche passaggio orizzontale in più, aggressivi pure ma con una zona meno esigente rispetto alle peculiari marcature a uomo di Bielsa.

Fatto sta che quest’Athletic immaginario non si è visto: Beňat si è rivelato una delusione, e oltre a non amalgamarsi con Ander è finito presto in panchina, mentre la squadra non riusciva né a consolidare il possesso-palla né a pressare in maniera coordinata. I punti arrivavano, ma improvvisando rimonte basate sui cross e le mischie eroiche che San Mamés riesce ad evocare anche nella sua nuova versione: costruito a due passi dal vecchio impianto, senza allontanare gli spiriti benefici e con il busto di Pichichi sempre lì a vegliare.

Pian piano però nell’ultimo mese le cose hanno cominciato a quadrare, a partire dalla vittoria col Barça. Al posto di Beňat l’ultra-funzionale Mikel Rico: non è un incontrista, non è un regista, non è un incursore, non è un rifinitore, però sa giocare a calcio. Offre sempre linee di passaggio, non fa mai sentire solo un ottimo Iturraspe (il più regolare di tutti) davanti alla difesa e al tempo stesso non appesantisce mai l’azione, lasciando ad Ander Herrera lo spazio e il tempo per tornare gradualmente fulcro della manovra (quello che mancava con Beňat, che lo espelleva troppo a ridosso della punta), superando un inizio irregolare e pure qualche panchina. E sempre più determinante è un Muniain che partendo dalla sinistra e svariando su tutta la trequarti nel 4-1-4-1 (con puntuali passaggi al 4-2-3-1) di Valverde, ha rimesso a fuoco il suo talento dopo l’allarmante scorsa stagione.

Una parte di merito va infine a Toquero: tecnicamente il peggiore attaccante della Liga per controllo e tocco, ma corre con l’entusiasmo incondizionato del cane a cui lanciano un osso, e da centravanti il suo pressing sta dando il la a tutta la squadra per guadagnare metri… fermo restando che finché non recupera il teorico centravanti titolare Aduriz (vecchio bomber che sta perdendo i colpi) la scarsa efficacia offensiva rimane un potenziale freno per quest’Athletic.

2. La setta degli esterni puri.

Gli ultimi anni di Liga hanno visto una progressiva sparizione degli esterni puri (oltre che delle due punte vere e proprie), perché nessuno vuole più cedere un uomo in mezzo al campo. Però fra tanto parlare di superiorità nella zona della palla e di esterni che tagliano dentro, a volte la via più breve è un tizio che la superiorità te la crea da solo. Chiedete anche in questo caso all’Athletic, e alla sua riserva, ormai di lusso, Ibai Gómez. Ibai semplifica il gioco, che a volte è un male ma altre è un bene, perché non richiede appoggi ravvicinati dei compagni, apri verso la sua fascia e lui la mette sempre in area, con una facilità di calcio col destro che non ha uguali nella Liga (soprattutto con l’esterno, direi á la Quaresma se il paragone ora non risultasse poco stimolante).

E nel campionato del fraseggio paziente, anche qualcun altro prende il diretto verso la linea di fondo: impossibile tralasciare Lass Bangoura del Rayo, che perennemente sospettato di discontinuità resta statisticamente uno dei più efficaci dribblatori della Liga. Poi c’è Bernat del Valencia, ancora a metà strada da un lato fra il progetto di nuovo Jordi Alba (adattato a terzino già da Lopetegui nel mondiale Under-20), perché le caratteristiche sono clamorosamente simili (anzi forse controllo in velocità e dribbling sono pure superiori) e perché ormai per non perdere palleggiatori in mezzo questo è il destino dei Vicente ed Etxeberria di solo pochi anni fa; e dall’altro l’idea invece di conservarne le energie per l’uno contro uno da esterno puro, dove finora ha convinto di più.

Da segnalare anche la crescita del 19enne Álvaro Vadillo, unica nota lieta nell’annata finora disastrosa del Betis: acclamato come il nuovo Joaquín per il ruolo (a destra meglio che a sinistra), non ne ha la sensibilità artistica ma il cambio di ritmo lascia il segno.

3. Jesé bussa alla porta.

In un Real Madrid che fatica a trovare continuità sia nel gioco che nella formazione, chi non sgarra mai è il canterano Jesé, davvero impressionante per l’incisività che riesce a concentrare negli spiccioli che Ancelotti gli concede. Il canario ha un’andatura cristianoronaldeggiante palla al piede e ancora un ruolo non completamente definito (nel Castilla partiva al centro o a sinistra, nell’Under 20 si cambiava la fascia con Deulofeu a partita in corso e spesso finiva centravanti), subentra quasi sempre nella posizione presumibilmente meno comoda (a destra, senza poter rientrare al tiro) ma sorprendono la determinazione e la capacità di abbinare potenza e controllo.

Quando c’è da rimontare il pallone non gli brucia tra i piedi come al tarantolato Di Maria, e nemmeno si nasconde come a volte capita a Benzema, e se non arrivano gol decisivi come a Valencia sono comunque magnifiche e altrettanto decisive le azioni come quella che ispira il gol dell’altro canterano Morata sul campo del Levante.

Le 5 giocate più brutte e le 5 più belle del Mese

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

#erpeggio

1. Sabato 7 Dicembre, Livorno - Milan 2-2. M'baye Niang.

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Che non fosse la stagione di M'baye Niang s'era capito da ben prima di dicembre: escluso dalla lista Champions per quello che—a posteriori—più che strafalcione si può ben reputare mossa lungimirante, una sola presenza da titolare (all'esordio contro l'Hellas Verona), impiegato per poco più di duecento minuti, un'excalation à rebours nella gerarchia delle punte utilizzate da Allegri, zero reti. Tanto da essere uno dei primi movimenti di mercato acclarati (ceduto al Montpellier con diritto di riscatto) già in apertura del mese. A Livorno, nella gara contro gli amaranto poi terminata 2-2, Kaká gli ha confezionato un assist con la premura con cui si confeziona un regalo di Natale per un amico in partenza per un lungo viaggio. A lui bastava soltanto scartarlo, sciorinare un ultimo sorriso pieno di mestizia e lascivia, l'espressione di chi rimugina risentimento, imbracciare le valigie e lasciare che i passi si perdessero nella neve, lucine a intermittenza, dissolvenza. Invece, l'ingratitudine.

2. Sabato 7 Dicembre, Napoli-Udinese 3-3. Rafael Cabral.

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In due partite da titolare ha incassato cinque reti, un quarto del totale di quelle subite dai partenopei in tutto il campionato. È del 90, ha le spalle larghe e tutt'una serie di luoghi comuni su chi ha una carriera luminosa davanti da spendersi: nondimeno, il dicembre di Rafael Cabral Barbosa—secondo di Reina, ex Santos col quale ha vinto molto in Sudamerica—è stato discretamente da dimenticare. Nella rete del momentaneo 2-2 dell'Udinese al San Paolo (la gara finirà 3-3), siglata da Bruno Fernandes, c'è tutta la sua inesperienza: traiettoria sottovalutata, il braccio alzato solo in maniera accennata, quasi repressa, con la timidezza di chi si propone d'ospitare tutti a casa propria per il veglione, salvo poi riconsiderarne —quando scene di bagordi rilucono inquietanti—l'opportunità.

3. Domenica 22 Dicembre, Inter-Milan 1-0. Andrea Poli.

Segnare da tifoso e da ex nell'ultimo appuntamento di campionato dell'anno, in un derby e vieppiù davanti alla curva avversaria, è la seconda scena più toccante che si può immaginare quando i centri commerciali sono agghindati a festa e sì, is the season to be jolly.

Per impartire o farsi impartire certe lezioni moraleggianti, però, ci vuole d'averci la faccia furba di Ronaldo, o il cuore duro di Ebenezer Scrooge. Andrea Poli non ha l'una né l'altro: e quando nella stracittadina milanese ha avuto l'occasione, sullo 0-0, di portare i suoi in vantaggio, di cambiare le sorti d'una partita fino ad allora molto equilibrata e anche decisamente brutta, l'ha sciupata sparacchiando al quarto anello. Sulla linea di porta, i Fantasmi del Natale Passato, Presente e Futuro saltellavano di nervosismo ed euforia: no happy ending is an happy ending.

4. Domenica 22 Dicembre, Roma-Catania 4-0. Gervinho.

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Il team che ne cura il merchandising e i profili sui social network, per Natale, gli ha regalato due paia di scarpe tutt'imbellettate di glitterosità. Se ne googli il nome, la ricerca correlata ti propone "naso, capelli, hair, moccio e scatarrata". Ciononostante, Gervais Yao Kouamé è incontrovertibilmente la sorpresa dell'anno e il mese di dicembre non ha fatto che esaltarne le lodi: una prestazione eccelsa contro la Fiorentina e un susseguirsi di tambureggianti incursioni contro il Catania—nonché un goal.

Eppure è a lui che spetta l'oscar dell'epic fail miss dell'ultimo mese dell'anno: percussione centrale dei giallorossi, palla a Totti che piazza un sinistro che Frison respinge alla bell'e meglio. Palla sui piedi di Gervinho che, distante poco più di due passi dalla linea di porta, specchio spalancato, la stampa sul palo.

5. Ancora Domenica 22 Dicembre, ancora Roma-Catania 4-0. Alberto Frison.

Hai presente quelle scene da pre-beverino natalizio, in ufficio, quando il collega ti dice di non starti a preoccupare per le lenticchie di buon auspicio che le porta lui ,e tu lo rincuori rassicurando che ne preparerai anche tu un po' per sicurezza, e poi il giorno del beverino te ne sei completamente dimenticato e pure il tuo collega e allora un terzo qualsiasi, tipo quello del reparto marketing con la scrivania in fondo che non aspetta altro che un vostro scivolone per fare buona impressione sul capoufficio, piglia e si presenta con una bella casseruola di lenticchie?

Ecco, è andata un po' così tra Frison e Rolín. Destro sarebbe il collega arrivista.

I contorni sfocati rendono bene l'idea dell'incubo.

#ermejo

1. Sempre Domenica 22, sempre Roma-Catania 4-0. Mattia Destro.

Ma proviamo per un attimo a inquadrarla dall'ottica del collega arrivista; vedrete come di colpo una storia di meschina bassezza possa volgere a favola moderna.

Mattia Destro l'ultima partita di campionato l'aveva giocata contro il Napoli nella 34a e conclusiva gara della stagione 2012-2013, sette giorni prima del 26 Maggio.

Poi l'infortunio, la lunga riabilitazione, le illazioni sulle radio locali, lo scetticismo di alcuni tifosi, i demotivational. È tornato contro la Fiorentina l'8 Dicembre e l'ha messa dentro dopo 10 minuti, si è ripetuto a Milano dove è andato a segno dopo un quarto d'ora, per poi finire il filotto contro il Catania, approfittando dell'indecisione della difesa etnea. In tutti e tre i casi dando gran sfoggio di quella caratteristica che lo contraddistingue, qualcuno la chiama rapacità sotto porta, o essere-al-posto-giusto-al-momento-giusto. C'è chi ne avverte la nostalgia dai tempi di Filippo Inzaghi: chissà che non si ripresenti rediviva in Destro.

2. Domenica 15 Dicembre, Napoli-Inter 4-2. Gonzalo Higuaìn.

Ora, io questo tipo di passaggio filtrante palla-in-corsa, spalle al versante d'attacco, con l'esterno a seguire, lo chiamo passaggio bocciolo-che-sboccia perché mi ricorda i petali quando si schiudono (e anche certe macchinine da luna park che spazzano le monete da un ripiano all'altro). Una volta l'ho visto fare a Iniesta in una finale del Mondiale per Club contro il Santos, e recentemente anche a Luis Suárez contro il Manchester City nel Boxing Day. Qua lo interpreta Higuaín per mettere in moto Dzemaili, del quale ci sarebbe da apprezzare poi il doppio balletto sul pallone, il duplice cambio direzionale. A rimorchio arriverà di lì a poco Dries Mertens e poi Mertens la butterà dentro, ma questa son cose che nell'immagine non si vedono.

3. Domenica 22 Dicembre, Atalanta-Juventus 1-4. Paul Pogba.

E quindi c'è questa palla scodellata al limite dell'area, dove sta arrivando Paul Pogba. T'aspetteresti la staffilata volante, da uno come Pogba, ma è pur vero che il difensore della Dea s'è staccato e gli si sta parando contro col corpo a cuspide, la gamba leggermente tesa. Intrasenti il rumore sordo del contatto, come di rotula di renna che cede sotto i colpi impietosi della cavalcata notturna. L'astuzia del francese invece sta tutta nel movimento con cui sfiora la palla con un tocco morbido, aggirando il difensore senza parare la rincorsa, come se smorzasse il cross producendosi da sé l'invito al tiro. Il destro è secco ma impreciso, però pensa, sarebbe stata una rete bellissima: di Pogba, su assist di Pogba.

4. Sabato 7 Dicembre, Livorno-Milan 2-2. Mario Balotelli

Ricevere sulla trequarti, girarsi, puntare la porta: un tocco, tre passi veloci sinistro destro sinistro e poi scaricare con tutta la potenza, gamba d'appoggio ben salda a terra, gamba del tiro che arriva all'altezza della vita. Balotelli contro il Livorno ha segnato due reti, sulla strada per la tripletta s'è frapposta questa traversa che i giornalisti del calcio avrebbero definito clamorosa e che invece è una normalissima traversa percossa da un tiro balisticamente perfetto scoccato da un centravanti assolutamente geniale.

5. Sabato 7 Dicembre, Paris St. Germain - Sochaux 5-0. Marco Verratti.

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Dice: e che c'entrerebbe parissangermè sosciò? Ma non era il classificone della Serie A? Verratti, in un'intervista recente, ha dichiarato che per lui è stato semplice rifiutare un trasferimento alla Juventus, semplice perché dettato da una pretesa, alla fine della fiera, semplice anch'essa: giocare, e non fare la riserva (fatto del quale, evidentemente, a Torino nessuno gli aveva dato garanzia)(ma neppure a Parigi, secondo me)(resta il fatto che diciannovenni titolari, nella nostra Serie A, pochi). Nel match in cui i parigini hanno asfaltato il Sochaux Verratti s'è prodotto in una zidanésca veronica, anche se per come la vedo io la meravigliosità della giocata è tutta nei momenti immediatamente precedente e successivo: il recupero palla in tackle (che non si vede nella gif ma viene prima del numero) e la finta di corpo con cui sbilancia la seconda punta spalancandosi il centrocampo per l'impostazione del contropiede. Si può dire chapeau?

Le 3 rinascite del Mese in NBA

di Dario Vismara (@Canigggia)

3. I Toronto Raptors, il rottamatore e l’effetto post-Rudy Gay

Circa un anno fa di questi tempi, i Toronto Raptors erano in un guado. Troppo scarsi per solo pensare di fare i playoff, ma pur sempre troppo forti per avere una delle prime cinque scelte al Draft (che poi non avrebbero nemmeno avuto, dato che la loro scelta era stata ceduta a Oklahoma City). In un tentativo disperato di salvare il suo posto di lavoro, il GM Bryan Colangelo ha orchestrato uno scambio per prendere uno dei più “tossici” giocatori dell’NBA contemporanea: Rudy Gay, il presunto “giocatore franchigia” che mancava. L’esperimento, più o meno, ha funzionato: 17-16 il record con lui in campo, ma playoff comunque mancati. A quel punto da Denver è arrivato il nuovo GM, Masai Ujiri, aka “il rottamatore”: via Andrea Bargnani (sbolognato a New York lucrando anche una prima scelta al Draft) e dentro il lavoratore Tyler Hansbrough; piazza pulita di tutti i collaboratori del front office di Colangelo (tra cui il nostro Maurizio Gherardini); immediate quanto innumerevoli telefonate in giro per la Lega per disfarsi del contratto di Rudy Gay. Ci ha messo diversi mesi, nei quali i Raptors sono rimasti invischiati nel piattume dell’Atlantic Division (7-12 il loro record) e il loro attacco consisteva in un’infinita sequenza di tiri dal palleggio di Gay e DeMar DeRozan senza che la palla venisse toccata da altri giocatori (17,4 assist di media, ultimissimi in NBA). Ma alla fine ce l’ha fatta, liquidando il suo “miglior giocatore” a Sacramento per una serie di mestieranti NBA senza arte né parte, con l’obiettivo neanche troppo celato di puntare al Draft e in particolare a Andrew Wiggins, di cui avete già letto su questo sito nei giorni scorsi.

Il risultato? Da quel momento a oggi il record dei Raptors è di 10-5 (battendo anche Oklahoma City e Indiana), il loro attacco è passato da 101,4 punti su 100 possessi (20° in NBA) a 103,9 (11°), il numero di assist è salito ad un rispettabilissimo 22,5 a partita (11°), la difesa subisce 6,3 punti in meno su 100 possessi rispetto a prima (4° in NBA nell’ultimo mese) e la squadra, oltre a divertirsi a giocare insieme, è ormai ampiamente da playoff. In particolare si stanno mettendo in mostra i due giovani più interessanti del roster, Jonas Valanciunas (9 punti e 7 rimbalzi prima della trade, 12,6 + 9,3 dopo) e Terrence Ross (6,5 punti di media prima, 13 ora), finalmente liberati e investiti di un po’ di responsabilità. Anche il playmaker della squadra Kyle Lowry è cresciuto (14,8 e 6,7 prima, 17 e 8,5 poi) tanto da finire tra le honorable mentions dei miglior giocatori del mese di dicembre, in quello che è stato forse il suo periodo migliore degli ultimi tre anni. In generale, i Raptors stanno provando la sensazione di libertà post-Rudy Gay che ha portato i Memphis Grizzlies fino alle finali di conference dello scorso anno. I Raptors non arriveranno mai a quei risultati, ma nonostante ciò, giù il cappello davanti a Masai Ujiri.

2. Jeff Hornacek avanza la candidatura ad allenatore dell’anno

Se i Raptors non erano messi bene, i Phoenix Suns erano messi malissimo. Avevano appena concluso una stagione da 25 vittorie e 57 sconfitte, peggior record a Ovest. Avevano appena cambiato il GM, assumendo il 33enne (trentatreenne) Ryan McDonough. La loro prima scelta, Alex Len, era arrivato in Arizona infortunato. I bookmakers di Las Vegas avevano posto la loro quota over/under a 21,5 vittorie. Soprattutto avevano preso un nuovo allenatore, anche lui esordiente: Jeff Hornacek. Forse vi ricorderete di lui per i suoi trascorsi da tiratore mortifero e dai capelli impomatati agli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone, nonostante sia stato nominato anche All-Star nel 1991 quando giocava proprio a Phoenix. Dopo qualche anno da guru della meccanica di tiro, nel 2011 è diventato assistente allenatore a Utah dopo l’addio del leggendario Jerry Sloan. Nello scorso giugno è stato preso, un po’ a sorpresa, dalla squadra con cui ha iniziato la sua carriera NBA, i Suns, per iniziare quella da capo allenatore, senza grandi aspettative.

Sembravano infatti destinati ad una stagione di ricostruzione, ovvero dedicata allo sviluppo del talento giovane a disposizione, di partite combattute e divertenti ma, alla resa dei conti, contrassegnata da tante sconfitte, visto che alle porte c'è “il miglior Draft di sempre” e avere un talento da top-5 avrebbe fatto tutta la differenza del mondo. Peccato che al momento in cui scrivo abbiano già vinto le 21 partite che Las Vegas gli pronosticava a fronte di sole 13 sconfitte e siedano comodamente al settimo posto a Ovest, ampiamente e meritatamente in corsa per i playoff. Ma che cosa è successo?

Semplice, che questa squadra corre, difende, è profonda, si passa il pallone, diverte e si diverte in campo, e larga parte del merito è di coach Hornacek, che a dicembre è diventato il primo di sempre a vincere il premio di giocatore del mese e allenatore del mese per la stessa squadra nel corso della sua carriera. Con un roster che concede minuti significativi a P.J. Tucker (che in passato ha giocato anche per squadre del calibro dei Colorado 49ers in D-League, Hapoel Holon e HaSharon in Israele, Piratas de Quebradillas in Portorico e anche Sutor Montegranaro in Italia), Miles Plumlee (scarto degli Indiana Pacers, che l’anno scorso gli hanno concesso la bellezza di 55 minuti in campo), Channing Frye (rientrato dopo aver saltato l'intera scorsa stagione per un intervento al cuore), Gerald Green (passato tra mille peripezie anche dalla Russia dove “non avevano mai visto un nero in vita loro”) e i gemelli Markieff e Marcus Morris (presto ribattezzati “gemelli Derrick” dai più nostalgici appassionati italiani). Questo cast di “scappati di casa”, insieme ai leader Dragic e Bledsoe, forma una più che meritevole squadra di playoff ad Ovest, dove Lakers, Timberwolves, Grizzlies e Nuggets al momento sarebbero fuori dalle prime 8. Il basket è meraviglioso.

1. Damian Lillard #NBABallot

Quando nel maggio scorso ho avuto la possibilità di intervistare il rookie dell'anno in carica Damian Lillard a Udine, ho incontrato un ragazzo con le idee ben chiare in testa. «Il primo anno è andato bene, ma io voglio di più. Voglio l'All-Star Game, voglio andare ai playoff e voglio portare questa squadra a vincere.» Lo dicono tutti i giocatori NBA, sia chiaro, ma la convinzione con cui me lo aveva detto mi aveva lasciato un po' stupito, così come quando gli ho chiesto se si aspettasse tutto questo successo così presto. «Sì. Assolutamente», la sua risposta, con quell'aria da “e come altro doveva andare?” Come se fosse la cosa più normale e facile del mondo che uno snobbato da tutti i college più importanti d'America e proveniente da una sperduta università dello Utah prendesse per mano una franchigia NBA allo sbando e la trascinasse ad un record di 27-9 al più alto livello di pallacanestro del mondo nel giro di un anno e mezzo. Il mese di dicembre di Lillard è stato, senza mezzi termini, irreale: 23 punti, 6 assist, 3,5 rimbalzi, il 44% dal campo, l'88% ai liberi e, soprattutto, il 47% da tre punti su 7,7 tentativi a partita. Numeri StephenCurriani.

Proprio Steph Curry era il modello a cui mi diceva di volersi ispirare («voglio che il mio nome inizi a girare come il suo negli scorsi playoff») e tra i due è iniziata una sorta di competizione a distanza per attentare al record di triple segnate di Ray Allen (2.901). E, incredibilmente, Lillard potrebbe anche essere meglio di Steph Curry. Al momento in cui scrivo i due hanno segnato rispettivamente 119 e 110 triple in questa stagione e, continuando di questo passo, il play di Portland finirebbe quest'annata a 271 triple segnate, solo una in meno rispetto al record stabilito da Curry nella scorsa (leggendaria) stagione. Considerando le loro carriere, invece, Lillard ha segnato 304 triple in 118 partite finora, mentre Curry ha chiuso le sue prime due stagioni in NBA a 317 in 154. (Per dare un'idea, Ray Allen alla fine della sua stagione da sophomore ne aveva segnate 251 in 164). Le percentuali sono a favore del play di Golden State (44% in carriera contro il 38% di Lillard), ma il numero “0” di Portland gli ha già strappato il record di triple per un rookie (185 vs 166) e, se la salute sarà dalla sua parte, promette di continuare su questo passo ancora per molto tempo, considerando l'età (23 anni) e margini di miglioramento.

Come se non bastassero questi numeri impressionanti, Lillard ha impreziosito il suo mese folle con due canestri della vittoria in due sere in fila: il primo a Detroit, in isolamento prolungato dopo una virata e cadendo sia all'indietro con le spalle che di lato con il corpo; il secondo a Cleveland, sparando una tripla frontale in faccia a tutti i Cavaliers, chiudendo a 36 punti e 8/12 da tre. (La partita dopo? Altri 36. Quella dopo? Scrivete 29. E non gli hanno nemmeno dato il premio di giocatore della settimana!). In questa stagione è 5/8 quando si decide la partita, ovvero con il punteggio entro 3 punti negli ultimi 30 secondi di partita, di cui 3/3 da tre. In carriera è 15/19 nei supplementari.

La cosa incredibile è che se tutte le guardie dell'Ovest fossero sane, uno che sta facendo una stagione del genere non andrebbe nemmeno all'All-Star Game. I due posti del quintetto vanno ai più votati dai tifosi (al momento in cui scrivo Kobe Bryant e Steph Curry), mentre le restanti tre guardie della panchina vengono scelte dal coaching staff con il miglior record di conference. Contando che ad Ovest girano Russell Westbrook, James Harden, Tony Parker e Chris Paul, ovvero quattro mammasantissima del gioco, i posti sono già belli che finiti. Per avanzare la sua candidatura si è scomodato addirittura Kobe Bryant («Non votate per me, votate per i giovani, per i Damian Lillard di questa Lega»), ma nonostante ciò se tutti gli altri sei fossero disponibili a metà febbraio Lillard, che guida una delle tre migliori squadre a Ovest, resterebbe a casa. Non servirà a niente, ma andate su Twitter, scrivete «Damian Lillard #NBABallot» e pubblicate. For the love of the game.

Le partite del Mese

di Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)

È bella una partita che ha giocate di alta qualità o quella in cui ci si mena e che si definisce “intensa”? Quella in cui la tattica vince o quella in cui prevale il cuore? Non essendo chiaro il concetto di bello nemmeno nella selezione delle partite che ho scelto per dicembre, le ordinerò come piace a me.

1. Galatasaray-Juve 1-0. 10-11 dicembre.

Di tanta neve, un campo di ghiaccio e polemiche di fuoco. Del “this is not football” di Conte e degli inservienti istruiti per mettere in difficoltà la Juve approfittando del terreno e del maltempo (cosa che Mancini ha smentito), di due giorni per una partita e dell'abbraccio di Drogba a Sneijder immersi nella neve. Del gol doloroso, perché a cinque minuti dalla fine è dramma o leggenda, di Muslera colpito dalla neve che si stacca dal tetto dello stadio. Di un'eliminazione che non nasce qui.

A Istanbul si scrive un romanzo. Accade sempre qualcosa, la partita comincia nel freddo e il primo giorno non finisce (dura 28'), e già stabilire l'orario per giocare il giorno appresso non è facile. E poi si gioca, e la Juve vede gli spettri di Perugia, si lamenta, infine perde, si infuria. Pure il gol sembra perfido nella sua struttura: fa sponda Drogba che ogni sessione di calciomercato diventa bianconero almeno per lo spazio di un titolo in prima pagina, segna Sneijder, uno che era all'Inter ai tempi del Triplete e che, insomma, amico non viene considerato.

A me, fango e pallone piacciono.

2. Fiorentina-Verona 4-3. 1 dicembre.

Io i 4-3 li abolirei. Perché sono belli, ma perdono sempre al confronto con "el partito del siglo", e poi mi intristisco perché io quell'Italia-Germania avrei voluto viverlo in diretta e invece non ero ancora in programma. Questo, però, è di un casino che merita: quattro gol in nove minuti (in mezzo, un ribaltamento), cinque in un tempo, sei dopo nemmeno dieci minuti di ripresa. E, volendo, altri venti minuti abbondanti dal settimo gol alla fine che avrebbero potuto sorprendere ancora e che invece comunque hanno tenuto viva una partita che già scoppiava di vitalità. In sequenza: Borja Valero, Romulo, Iturbe, Borja Valero, Vargas, Rossi, Jorginho. Rivisti, poi, i due gol di Borja Valero (compreso il secondo, con una deviazione) e quello di Iturbe (soprattutto) sono pure discrete prodezze, e poi ci sono affascinanti imperfezioni delle difese e immancabili incertezze dei portieri. E momenti di condivisione delle sofferenze da qualunque parte penda il risultato, mentre un pezzo di leggenda—al secolo, Gabriel Omar Batistuta—siede in tribuna.

A me, la sofferenza piace.

3. Taranto-Marcianise 3-1. 15 dicembre.

È serie D. È una cornice bellissima , è tre gol del Taranto alla capolista (allora erano otto i punti di distacco), altri tre annullati (ché metterla sei volte da quella parte non è comunque facile nemmeno se sono irregolari), è un calcio di qualità, è un tempo ad aspettare una rete che non arriva e una ripresa in discesa, è il gol di uno che si chiama Procolo (Caiazzo, il cognome). Dice Carlo, amico che ha vissuto senza leggerezza il tracollo in un anno dalla Prima Divisione alla D, e altro che disincanto, che «sembrava il Taranto di Dionigi», che per chi non è della zona vuol dire una di quelle squadre che veramente ha fatto innamorare. Comprendete l'amor di patria, ma anche il senso di giustizia: parlare, in tanto calcio di lustrini, di come possa essere bella anche la serie D, se vissuta con passione e vivo senso di appartenenza (qui si fa il tifoso della squadra della propria città: facile, quando tutto va bene), se sui gradoni sono in tremila (e non era il periodo prolifico che è adesso), se in campo si intravedono pepite (segnatevi Alberto Migoni, vent'anni: velocità, dribbling, fantasia e solo la frenetica parte finale delle azioni da controllare per poter volare), e se si può raccontare la storia di un allenatore buono, uno semplice, bravo e poetico come Aldo Papagni. Che sa sempre cosa dire e rende il calcio un affare di sentimenti, oltre che di tattica (per inciso: pure tatticamente questa partita è stata perfetta). Dunque, chi sta più in alto cade, il Taranto si eleva.

A me, la capolista che cade piace.

4. Napoli-Arsenal 2-0. 11 dicembre.

Bello, bellissimo, praticamente inutile. Però una di quelle notti che rendono fiero chi tifa. Che si sente di là, al prossimo turno, a fasi alterne. Doveva vincere di tre gol, il Napoli, oppure vincere e basta se il Marsiglia bloccava il Borussia, ma a 180 secondi dalla fine i tedeschi hanno preso il comando della partita in Francia e dunque il 2-0 non è bastato. Oppure sì, per un po' di orgoglio per una città che nelle notti di Champions riesce a combinare questo.

L'urlo del San Paolo in Napoli-Borussia, registrato dall'esterno dello stadio

Il concetto di bellezza qui diventa oggettivo : nella costruzione del gol di Híguain (e anche nella sua girata spalle alla porta), nel lancio di Insigne e nel pallonetto di Callejon, nel frastuono che si sente in sottofondo e che è musica quando il calcio è concetto allargato non solo al campo, ma soprattutto al coinvolgimento emotivo e alla capacità di essere passione e riscatto popolare. Poi c'è il veleno, da assorbire in fiale se con dodici punti nel girone si saluta la Champions.

A me il veleno non piace, ma una italiana che batte gli inglesi, piace assai.

5. Juventus-Sassuolo 4-0. 15 dicembre.

Il Sassuolo è simpaticissimo. I puri direbbero che è un esempio di calcio senza piazza e io invece in serie A lo vedo bene perché sì ha i soldi di Squinzi ma anche un po' di coraggio e giovani che valgono. Nella stessa domenica (che è pure quella di Taranto-Marcianise) il Liverpool vince 5-0 in casa del Tottenham e leggo dello strapotere di Reds nella partita. Fortunati, visto che giocano in Inghilterra. Perché invece in Italia se Juve-Sassuolo finisce 4-0 è perché «si scansano», perché «la domenica prima è stato ammonito Berardi perché così non giocava contro la Juve» e altri ricchi esempi di complottismo che partono da settimane prima come se i modenesi, che poi sono gli stessi che ne hanno prese sette – sette! – dall'Inter, fossero una truffa e gli juventini non avessero il diritto di vincere. Tutto molto divertente (vabbè, anche che segni Peluso può essere divertente), se non fosse vissuto con serietà. È vero che Pegolo ne combina un po', ma discutere di questo sarebbe non conoscere un portiere che oggi può parare tutto e domani può prendere gol anche da me. Poi, se Tevez segna una tripletta ed è pure un successo di chi l'ha preso sentendosi dire (forse pure da me, ma non ricordo bene) di aver acquistato un bollito non passa dall'analisi. Siamo troppo impegnati a fare le equazioni per dimostrare l'inganno. È che sono per il pallone ignorante, quello che non controlla le ammonizioni del giorno prima.

A me il complottismo non esalta, è che mi piace quando gioca il Sassuolo.

I peggiori Tweet del Mese

di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)

È finito il Natale, è finito il cattivo gusto. I calciatori anche questo mese ce l’hanno messa tutta a twittare disperazione e squallore, e così tra un #RIP e l’altro è passato pure dicembre. Vediamo la top 5 dei peggiori tweet con l’hashtag più fastidioso di sempre, ricordando che in palio a fine stagione c’è il “Salvatore Fresi d’oro”, #RIP7MILIARDIDILIRE.

5. #RIPMANDELA

Ex aequo

5. #RIPPAULWALKER

4. #RIPSAUSSURE

3. #RIPPALLONEDORO

2. #RIPDUX

1. #RIPPEPITO

Le Interviste del Mese

di Francesco Costa (@francescocosta)

1. José Mourinho intervistato da Rory Smith per FourFourTwo

«Io sono l’allenatore del Campionato dei Record. È questo il mio posto nella storia del Real»

Questa intervista è una piccola storia esemplare. In Italia è stata raccontata su boxini e piccoli articoletti intitolati «Inter, Mourinho a Thohir: “Pronto a tornare”» oppure «Mourinho: “Sì, potrei tornare”», ma Mourinho non ha detto niente del genere. Nemmeno con altre parole: proprio zero. Il giornalista si limita a ricordare che Mourinho ha lasciato l’Inter “con la promessa da parte di Massimo Moratti che sarebbe stato il benvenuto in qualsiasi momento avesse voluto tornare”. Questa frase, piuttosto inequivoca, e che comunque non dice Mourinho, sul sito della Gazzetta dello Sportè diventata Mourinho che “tiene aperta una porta all’Inter” e “la promessa di un ritorno fatta a Massimo Moratti”, su altri siti è diventata addirittura un virgolettato che Mourinho non ha mai pronunciato. Non è chiaro se il falso si debba a ragioni promozionali – l’intervista è stata tradotta e pubblicata sul primo numero dell’edizione italiana di FourFourTwo – o all’usuale disinvoltura, per usare un eufemismo, della stampa italiana con i virgolettati. Fatto sta che un’intervista ricchissima di racconti e di idee è stata ridotta a un virgolettato inventato su una notizia falsa, ed è un peccato: Mourinho racconta a FourFourTwo perché è tornato al Chelsea invece che accettare una “nuova sfida”, fa un bilancio dei suoi anni a Madrid (si definisce «l’allenatore del miglior Real Madrid della storia»), spiega cosa succede alle sue squadre quando lui va via («Io sono stato al Chelsea solo per tre anni e mezzo, ma è stato il mio team per otto») e i suoi obiettivi per il futuro. «Non ho un nuovo campionato da vincere. Li ho vinti tutti. Perciò quello che voglio fare ora è ripetere il passato».

2. Gianluigi Buffon intervistato da Alberto Polverosi per il Corriere dello Sport

«Cominciamo dalla sua domanda: i portieri non escono più. La domanda giela faccio io: sa quanto è grande l’area piccola?»

Un caso più unico che raro, e c’è da complimentarsi: un’intervistona lunga e densa sul gioco del calcio, piuttosto che sulla prossima partita, in apertura su un quotidiano sportivo italiano. Buffon parla di come è cambiato il ruolo del portiere e di come è cambiato di conseguenza il suo modo di giocare: dice che il «pensiero rapido» necessario al ruolo dipende più dall’esperienza che dall’istinto (l’avrebbe detto anche 15 anni fa?), sostiene che se non giocasse in Serie A – «se non fossi Buffon» – in certi casi eliminerebbe la barriera, definisce sopravvalutata l’attenzione alla bravura con i piedi dei portieri rispetto a quella con le mani («i piedi si possono sempre migliorare») e spiega perché non fa più uscite basse. «Nei primi 10 anni della mia carriera ero considerato uno dei migliori in questo tipo di uscita. Ora non lo faccio più, non esco più, troppi rischi». Questo per la regola che in molti casi prevede espulsione più calcio di rigore per un fallo in area. «Regola disumana», dice Buffon. «L’hanno pensata per favorire lo spettacolo e invece è una regola contro lo spettacolo, perché non dà la possibilità a un portiere di compiere un gesto tecnico bellissimo».

3. Paul Pogba intervistato da Emanuela Audisio per Repubblica

«Non sono di quelli che fanno i duri»

Qui invece non si parla di calcio quasi per niente, ma il racconto che fa Pogba della sua vita è comunque interessante: i genitori separati, l'infanzia, la voglia di fare la-persona-seria («non sono di quelli che si fanno i tatuaggi»), il suo rapporto con la Guinea, da dove viene la sua famiglia («a Konacry è tutto un problema»). E una bella rivendicazione liberale. «Guadagniamo soldi, non li rubiamo. Se voglio comprarmi una bella macchina sono affari miei, nessuno me lo può rinfacciare o giudicare il mio profitto sportivo da quello». È sempre un ventenne, ma ne viene fuori più sfaccettato di quanto possa superficialmente sembrare, per essere un ventenne.

4. Rudi Garcia intervistato da Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport

«Se chiedo ai miei di salire dieci volte su un albero, lo fanno»

Intervista dall’impostazione più ordinaria, con domande più ordinarie, ma l’allenatore della Roma è un personaggio e le sue risposte non sono banali quasi mai – quando lo sono, in realtà sembrano più che altro furbe (a Roma userebbero un altro aggettivo). Garcia racconta, tra le altre cose, che la famosa frase detta dopo il derby, «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio», se la preparò, mentre quella «Mi sento romanista», detta sempre dopo il derby, gli venne sul momento, anzi, «l’ho sentita nelle mie trippe». Ammette con qualche candore che tutta la fuffa sul “meglio essere secondi che primi” è per l'appunto fuffa per placare l’ambiente, ma nello spogliatoio di scudetto si è parlato eccome («Ma certo, se non troviamo noi il modo di crederci! Come pensate che abbia vinto uno scudetto a Lilla»). E spiega che una delle cose che lo hanno colpito di più in Italia sono gli stadi. Nel senso che fanno schifo. «Giocare a Livorno senza tabellone. Mai visto. Nemmeno nei campi di seconda divisione francese».

5. Mesut Ozil intervistato da David Hytner per il Guardian (in inglese)

«Io non sento la pressione»

L’acquisto più caro della storia dell’Arsenal, nonché una delle ragioni più concrete per considerare la Germania tra le due o tre Nazionali favorite ai prossimi Mondiali di calcio, ne viene fuori come il ritratto della freddezza, della sicurezza di sé e della tranquillità. Dice che a Madrid la pressione costante era tale che dopo quell’esperienza si sente solido e sereno prima di qualsiasi partita; spiega di essere felicissimo del suo trasferimento all’Arsenal – «la mossa perfetta» – e di dovere molto a Wenger; racconta di quando da bambino giocava per strada dentro una specie di "gabbia". L’intervista merita anche per alcuni racconti di Hytner, per esempio la volta che dopo il suo ingaggio Ozil fece il giro dell’Emirates Stadium per salutare tutti i dipendenti.

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