Introduzione: Benvenuti al primo classificone mensile de l'Ultimo Uomo
di Tim Small (@yestimsmall)
La fine dell'anno è il periodo migliore per le liste. I libri dell'anno, i film dell'anno, le migliori nuove serie tv, i migliori nuovi look, i migliori cardigan, calzini, le migliori ricette, i migliori animali, i migliori meme, i profumi: ogni sito fa il suo. Le leggiamo tutte. Voracemente. Io, personalmente, le amo. Mi danno sempre ottime idee per i regali di Natale e, in generale, avere delle chiare liste dove ogni cosa è in ordine e tutto ha un suo senso mi dà lo stesso piacere che provo guardando lo sport, quel senso di sicurezza che mi permette di ignorare il fatto che il mondo è caotico e imprevedibile e di riversarmi in uno spazio mentale dove esistono delle regole e dei confini ben delineati.
La calla: prima classificata, "migliori fiori di novembre"
Purtroppo però, come tutto in questo mondo di lacrime, l'attuale panorama-liste non è perfetto. Per quanto queste ci appaghino dal punto di vista più sociopatico e ossessivo-compulsivo, tendono ad arrivare tutte assieme, nel periodo che va da novembre a fine anno, forzando tutte queste informazioni in un imbuto natalizio che ci porta all'overdose. Sarà che, alla fine, non sono altro che commerciali e consumistiche liste della spesa che si concentrano nell'unico periodo dell'anno in cui possiamo ancora permetterci di comprare qualcosa per qualcun altro, sarà che l'inverno ci stimola a stare in casa e contare le nostre nocciole, sarà che a fine anno è naturale guardarsi indietro e fare un punto sui dodici mesi appena passati. Rimane il fatto che sono poche: sembrano tante solo perché le leggiamo tutte nello stesso periodo dell'anno.
Il caco: primo classificato nella lista "frutti più deliziosi di novembre"
Dato che qui a l'Ultimo Uomo vi vogliamo molto bene, invece, abbiamo deciso di rendere il piacere di leggersi tante liste una lieta abitudine mensile piuttosto che annuale. Iniziamo oggi, con la prima lista, quella di novembre. Abbiamo chiesto a diversi collaboratori di partecipare, proponendo loro di fare un po' quello che gli pare: basta che sia sotto forma di classifica. Non ci sono regole, qui. Il classificone sarà mensile, ma cambierà forma ogni mese nei suoi contenuti e nella sua struttura. Buona lettura.
I Gol del Mese
di Daniele Manusia (@DManusia)
10. Emerson Ramos Borges. 30 ottobre. Livorno-Torino 3-2 (risultato finale 3-3). Assist: se stesso.
Dovendo limitarmi ai gol segnati a novembre e non avendo fatto classifiche nei mesi passati ci sono molti gol che non posso citare. Ad esempio il bel tiro di Birsa contro l'Udinese (di collo sinistro con la palla che viene da sinistra a giro sul secondo palo, ma con una traiettoria interno-esterno opposta a quella solita dei gol a giro sul secondo palo) il collo piede al volo di Gilardino contro la Fiorentina, il pallonetto di Pjanić contro l'Hellas Verona, una classica rovesciata di Kone, lo slalom di Ibarbo sulla linea di fondo, la bella finta di Cuadrado contro il Chievo (o quella di Tévez a Genova). Per rappresentare i gol fuori classifica ho scelto quello di Emerson in Livorno-Torino. Un tiro da più di trenta metri con una di quelle parabole perfette che scendono poco prima di entrare in porta. Il tiro sembra avere una pesantezza diversa dalla norma, come se la palla a metà del proprio tragitto fosse diventata di piombo. Questo è il primo gol in serie A di Emerson, 33 anni, il culmine di una scalata cominciata dieci anni fa dalla serie D che lo ha fatto passare per il Lumezzane, la Reggina e il Taranto (su suggerimento di Fulvio Paglialunga linko un gol su punizione seguito da un'esultanza simbolica sotto la curva squalificata e quindi vuota del Taranto).
9. Yuto Nagatomo. 9 novembre. Inter-Livorno 2-0. Assist: Mateo Kovačić.
A volte la cosa più bella di un gol è quello che succede prima. In questo caso Kovačić riceve palla, gira intorno all'uomo che lo pressa, poi protegge palla col corpo dall'uomo alle sue spalle, poi sterza, poi serve Nagatomo sulla corsa con un assist di punta esterna (Nagatomo è bravo a coordinarsi in velocità e schiacciare la volée e poi tutti insieme abbracciano Capitan Zanetti).
8. Paul Pogba. 2 novembre. Parma-Juventus 0-1. Assist: la traversa di Quagliarella.
A volte, poi, uno fa una cosa incredibile appena prima del gol di un altro, i commentatori dicono che il gol è a metà tra il primo e il secondo ma lo sanno tutti che è una cosa tanto per dire. Addirittura può capitare che uno faccia un tiro assurdo, ruotando di 180° il corpo al momento del tiro, cadendo a terra perché c'è un avversario che sta per intervenire, che colpisca la traversa e che un suo compagno faccia gol su ribattuta. E in questo caso non conta neanche come assist. Due settimane dopo se provi a cercare “Quagliarella traversa Parma” non succede niente. Scrivi “Pogba gol Parma”, ed eccolo.
7. Daniele Conti. 10 novembre. Cagliari-Torino 2-1. Assist: Andrea Cossu.
Daniele Conti è il capitano che qualsiasi tifoso vorrebbe nella propria squadra e tendo a dare ragione a chi dice che le sue qualità sono state sottovalutate perché non si è mai mosso da Cagliari. E somiglia così tanto al padre che persino i suoi gol sono anni ottanta. Questa è una bellissima punizione vecchia scuola: tocco ad uscire dalla barriera e collo pieno sotto la traversa.
6. Andrea Pirlo. 10 novembre. Juventus-Napoli 2-0 (risultato finale 3-0). Punizione.
Questa invece è una punizione molto anni '10. Con la palla che si alza e si abbassa, che scavalca la barriera senza girare e che va dritta dritta sotto l'incrocio come un drone comandato a distanza.
5. Jose Callejón. 2 novembre. Napoli-Catania 1-0 (risultato finale 2-1). Assist Blerim Džemaili.
Callejón è la prova vivente che no, non è detto che adattarsi al campionato italiano richieda mesi di tristezza e fatica. Perfettamente a suo agio tra le linee difensive della Serie A, bravissimo a tagliare alle loro spalle, è partito fortissimo e questo di inizio mese è il suo sesto gol sui sette totali segnati fin qui (quanti Higuaín).
4. Giuseppe Rossi. Fiorentina-Sampdoria 2-0 (risultato finale 2-1). Assist : Borja Valero.
Più o meno lo stesso tipo di tiro di Callejón, ma più bello. La velocità e il giro che Rossi imprime alla palla escludono qualsiasi possibilità di intervento umano da parte del portiere. Non ho mai segnato un gol del genere ma sono sicuro che se ci riuscissi mi sentirei in pace con me stesso e con il mondo almeno per un po'.
2. Panagiotis Kone. 30 novembre. Parma-Bologna 0-1 (risultato finale 1-1). Assist: Rolando Bianchi. ex aequo2. Antonio Cassano. 30 novembre. Parma Bologna 1-1. Assist: Nicola Sansone.
Kone e Cassano si dividono il gradino più basso del podio e quello di mezzo per aver realizzato due splendidi gol nella stessa partita. Forse Cassano merita qualcosina di più di Kone perché si trattava del suo centesimo gol in serie A. Al tempo stesso Kone non segna gol normali quindi arrivare a cento è impossibile, vanno contati in un altro modo. Quindi non so scegliere chi merita la medaglia di bronzo del gol del mese, e chi quella d'argento. Se la palla tagliata in “back” di Kone (a inizio video), che toccando terrà resta bassa per via dell'effetto ed è indirizzata alla perfezione all'angolino (bella anche la sponda di Bianchi), o il piatto al volo a giro di Cassano (dopo 44 secondi), sul secondo palo ma abbastanza centrale, morbido ma teso abbastanza perché il portiere non arrivi in tempo sotto la traversa. Fate voi.
Il Gol del Mese. Paul Pogba. 10 novembre. Juventus-Napoli 3-0. Assist: Vidal (per le statistiche; per chi ne capisce di calcio come me: Dio).
Pogba effettua un primo controllo errato e si alza la palla senza volerlo (colpa del campo?), poi però rimedia con un tiro di esterno al volo che tocca il palo prima di entrare in rete. Oltre alla splendida realizzazione (il busto in avanti per non mandare la palla in tribuna e la rotazione sul piede d'appoggio) ho premiato con il primo posto in classifica il fatto che solo a un fenomeno di vent'anni poteva, in una frazione di frazione di secondo, venire in mente una cosa così rischiosa. Pogba è quel tipo di giocatore che anche se avesse mandato questo pallone fuori dallo stadio non avrebbe avuto un'aria ridicola. In un certo senso, anzi, sarebbe stato bello lo stesso.
Il Giocatore del Mese
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
3. Jorge Luiz Frello Filho aka Jorginho (Hellas Verona Football Club)
Se a un decennio di distanza a Verona si è tornati a respirare con entusiasmo l'aria rarefatta e cosmopolita dell'Europa, il merito è di quanto di buono stanno facendo sul palcoscenico scaligero, sponda Hellas, gli uomini guidati da Mandorlini. Più del fascino esotico delle giocate di Iturbe, il Messi del Guaraní, buone per qualche calembour giornalistico (Iturbo, "iTurbe") e nulla più, si può dire che la chiave del successo - formula ridimensionabile a un più pragmatico la solidità - della compagine gialloblu sia da imputare all'ottimo lavoro che imbastisce in termini di quantità e qualità la linea mediana, dove al fianco di Hallfredsson e Donati, nel ruolo di regista e falso trequartista, si erige Jorginho, non propriamente un giocatore fantasioso né un goleador, brasiliano di nascita ma cittadino italiano (qui il sindaco di Verona Tosi gli autografa un tricolore).
2. Mattia Perin (Genoa Cricket and Football Club)
L'anno passato, di questi tempi, #passeggiaresulPescara era IL trend topic del Campionato Italiano di Serie A. E a Mattia Perin, ventenne pontino estremo difensore dei biancocelesti, non restava che cullarsi nella bambagia di una definizione, "il nuovo Buffon", appioppatagli suo malgrado, dato che sembrava portargli più sfiga che altro.
Nel Novembre 2012 il Pescara, in quattro giornate di campionato, con Perin tra i pali ha subito 80 tiri in porta e 8 reti: ogni dieci tiri uno vincente, come al Luna Park.
Nelle tre giornate novembrine del campionato in corso, di contro, con Perin ultimo baluardo il Genoa ha subito una sola rete a fronte di 81-e-dico-81 tiri in porta (39-e-dico-39 solo contro il Milan, rigore di Balotelli incluso: una sorta di Little Bighorn con Perin molto più fortunato del Tenente Colonnello Custer contro i Lakota rossoneri).
A inizio campionato non ero il solo a pensare che la stagione di Perin sarebbe stata, one more time, disastrosa. Mica per colpa sua. Per colpa delle difese che gli piazzano davanti. "Pòro Perin", pensavo. E invece Mattia "Para" Perin ha saputo smentirmi, dimostrando che l’agropontino è terra di bellissime donne e bufale, sì, ma bufale stricto sensu.
Il Giocatore del Mese: Domenico Berardi (Unione Sportiva Sassuolo)
Natio di Cariati Marina, nel cosentino, tre anni fa Domenico era uno dei tanti wannabe cresciuti col mito di Messi che hanno problemi ad imporsi sui fangosi campi della provincia meridionale. Un giorno decide di prendere un intercity per andare a trovare il fratello maggiore Francesco a Modena, dove studia all’università. Francesco, da bravo studente e pensatore, ovviamente allenta il ritmo delle proprie elucubrazioni intellettuali con intramezzi pseudo-agonistici al calcetto. In una di queste partite Domenico sciorina numeri da campione, e un amico del fratello decide di segnalarlo a Luciano Carlino, coach delle giovanili del Sassuolo. Un provino con il diesse dei neroverdi, di venti minuti appena, è sufficiente a convincere il responsabile del vivaio del Sasòl a tesserarlo.
«Era più determinato e meno viziato rispetto alla media», confida Carlino in un’intervista. «E a livello tecnico bastava guardarlo calciare: dieci tiri su dieci all’incrocio dei pali, segnava sempre, impressionante. Ha un sinistro che fa male da qualsiasi posizione».
C’è un adagio popolare che va molto di moda nelle terre campesine, anche in quelle della Sila, che dice: "se di novembre tuona, l’annata sarà buona".
Nel novembre del 2012, alla sua prima stagione da professionista con il Sassuolo, in serie B, Berardi aveva messo a segno una sola rete a fronte di tre presenze da titolare (per la precisione con una target="_blank">punizione chirurgica, una delle sue skills migliori, calciata col mancino contro il Novara). Di Francesco credeva molto in quel giovane abile nel dribbling e dal tiro pungente, che impiegava sul fronte destro d’attacco per dargli l’opportunità di inserirsi e finalizzare convergendo verso il centro, lui che calcia col mancino come - sempre a sentir Carlino - Robben o Bergkamp. A fine stagione Berardi si è consacrato capocannoniere della squadra con 11 segnature, tante quante quelle dei suoi compagni di tridente Boakye e Pavoletti (nonché quelle di Terranova, roccioso difensore centrale con velleità da goleador). Nell’estate appena trascorsa è finito nella prestigiosa summa teologica dei 101 giovani calciatori più talentuosi del mondo, la Don Balon list (che pur conservandone il nome dopo la chiusura della storica rivista spagnola viene stilata dal portale 101 Great Goals). Il nome di Berardi è affiancato da quelli dei nostri El Shaarawy, De Sciglio, Verratti e Hachim Mastour, ma anche Pogba, Alaba, Lucas, Neymar, Isco, Lamela, Marquinhos, Wilshere e Götze. Una sorta di gotha di teenager monstre.
Il Novembre del 2013 è decisamente il mese della consacrazione: tre partite e 5 reti (di cui 2 su rigore), e soprattutto una prestazione maiuscola al Marassi di Genoa contro la Sampdoria, quando ha preso per mano gli emiliani portandoli al primo pareggio, al primo sorpasso e al finale contro-sorpasso segnando dagli undici metri all’ottantottesimo minuto.
Contro i blucerchiati Berardi si è imposto non solo come cecchino implacabile dal dischetto, freddo e cinico come non ci si aspetterebbe da un ragazzo di poco più di diciannove anni, ma anche come faticatore sull’out di destra, capace di recuperare un numero notevole di palloni. Più centrocampista laterale con licenza di offendere e far male, specie in contropiede e in velocità grazie al suo passo arioso, che vero e proprio esterno alto d’attacco. In un’ipotetica scala di offensività sulla fascia che parte dal valore 1 di Angel Di Maria e passa per il 6 di Cuadrado fino a raggiungere l'apice, il livello 10 di Cristiano Ronaldo, Berardi si colloca a un’altezza vicina al 7 e un po’. In un tridente offensivo, si potrebbe azzardare, è un "Falso Siete", se la falsità fosse poi un concetto applicabile a tutti i ruoli (e sembrerebbe proprio di sì). A me ricorda molto anche Januzaj del Manchester United, anche se quest'ultimo ci mette più numeri e meno sudore. Contro la Roma all’Olimpico Berardi ha invece giocato non da esterno, ma subito dietro le spalle di Floro Flores, schierato come unica punta, oltre a mettere a segno in zona cesarini la rete di un insperato pari ha contribuito perlopiù al recupero di palla (nove palle recuperate contro le dodici di un interditore tout court come De Rossi, per dire) e a intessere un fitto reticolo di passaggi con Magnanelli, perno del centrocampo del Sasòl, di fatto soffocando sul nascere le folate offensive dei giallorossi.
Se i rimbombi dei tuoni novembrini continueranno a propagarsi forieri di un’ottima annata, presto potremmo vedere Berardi con una maglia azzurra indosso. Al giovane restano da scontare ancora tre dei nove mesi di squalifica comminatigli per aver violato il codice etico (in maggio ha saltato una convocazione dell’Under 19, «è sparito e non sapevamo dove fosse», ha detto Arrigo Sacchi).
Le Interviste del Mese
di Francesco Costa (@francescocosta)
1. Jürgen Klopp intervistato da Angelo Carotenuto su Repubblica
«Il Borussia sa che se mi chiama il Real Madrid, io resto qui. Non lavoro per guidare la squadra migliore al mondo, lavoro per poterla battere»
Ok, Klopp è un personaggio gigantesco, l’intervista praticamente se la fa da solo e ogni stagione ne dà praticamente almeno tre o quattro eccezionali. Ma questa prima della partita contro il Napoli è speciale: è il miglior manifesto anti-Barcellona in circolazione ma senza un briciolo del vittimismo complottista di Mourinho al Real Madrid. Klopp è uno con cui vorresti giocare al fantacalcio e a calcetto il giovedì. In ogni risposta ci sono più idee, pensieri e costruzioni originali rispetto a quante la gran parte dei calciatori e gli allenatori producano in tutta la loro carriera.
2. Robbie Keane intervistato da Graham Parker sul Guardian (in inglese)
«Tutto è movimento»
Era forte, e all’Inter per quel poco che giocò non andò nemmeno malissimo, prima che Tardelli lo emarginasse. Poi Tardelli ha inanellato solo fallimenti, prima di finire proprio alla Nazionale irlandese a fare il vice di Trapattoni. Keane invece si è fatto adorare in diverse città e gioca ancora, e bene, nei Los Angeles Galaxy. Qui parla praticamente di tutto quello che sa sul calcio e della sua carriera: come fregare i difensori, perché andò all'Inter, cosa consiglia ai calciatori più giovani, qual è il bello di giocare nella MLS.
3. Walter Mazzarri intervistato da Andrea Sorrentino su Repubblica
«L'ultima volta, un altro po' e ci muoio, su quella salita»
Mazzarri ne viene fuori larger than life: un personaggio tragico, che da dodici anni vive lontano dalla sua famiglia e che in dodici anni si è costruito un’ascesa professionale che non ha eguali. Da osservatore a preparatore dei portieri, da allenatore in C2 ad allenatore dell’Inter. Il tutto col motore perennemente su di giri, per tenere il passo degli altri. Tra una risposta e l'altra spiega anche perché secondo lui la difesa a tre è meglio della difesa a quattro.
4. Clarence Seedorf intervistato da Leonardo André per O Globo
«Voglio diventare il miglior allenatore del mondo»
Uno dei calciatori più intelligenti degli ultimi anni: non solo tatticamente, proprio intelligente di testa, di idee, di pensiero (non tutti sanno che Seedorf teneva una rubrica sul New York Times fino a poco tempo fa, mentre giocava al Milan). Qui parla della situazione al Botafogo, delle sue motivazioni («il calcio per me è un modo per migliorare il mondo») ma soprattutto del suo futuro: e dice che il suo modello è Phil Jackson, il leggendario allenatore dei Bulls e dei Lakers.
5. James Pallotta intervistato da Emanuela Audisio su Repubblica
«Ho spaccato televisori dalla rabbia»
Intervista che a Roma ha fatto molto ingelosire altri quotidiani concorrenti. Pallotta elenca una dopo l’altra tutte le cose che impediscono al calcio italiano di diventare globalmente una cosa seria, al punto che alla fine dell’intervista verrebbe da chiedergli: ma non facevi prima a comprarti, chessò, il Leeds? Lui però ha una risposta anche a questa domanda.
Gli Attaccanti del Mese per imparare a giocare a calciotto.
di Francesco Pacifico (@FzzzPacifico)
1. Germán Tanque Denis (Atalanta Bergamasca Calcio)
L’attaccante di peso (si chiama Tanque perché è un carrarmato) è chiamato a uno sforzo che apparentemente mal si concilia con l’essere di peso. Devi in sostanza tenere lontano da te il difensore e metterti fra lui e la palla, nel momento in cui la palla ti arriva, dalla fascia via cross o per vie centrali. Il che vuol dire usare una parte del cervello per pensare a chi hai alle spalle (può in qualunque momento scavalcarti se ti scordi di lui) e un’altra per allungare gamba e piede per stoppare la palla. Ma in qualunque momento questo doppio lavoro che richiede baricentro fermo e l’apparentemente opposta esigenza di usare la punta del piede come fosse un retino per le zanzare, può rendersi inutile perché arriva una palla alta. A questo punto, e Denis è bravissimo a farlo, tutto l’assetto cambia e ti tocca stare verticale come un silo e saltare solido per puntare alla porta o al compagno libero.
Ma la parte più imbarazzante e difficile è il recupero della pallaccia sporca.
2. Víctor Ibarbo (Cagliari Calcio)
Un attaccante grosso può avere come suo specifico trascinare due difensori verso il fallo laterale per aprire gli spazi. Si può partire da centrocampo, intrupparsi sulla fascia e lasciar tempo alla squadra di salire mentre si distraggono due-tre difensori.
Sulla fascia, ricordarsi di scaricarla dopo essersi impiccati contro tre uomini.
Devi perdere dieci chili se una volta arrivato a fondo campo vuoi pure accentrarti saltando l’uomo. In alternativa, fai un bel respiro, fermati sul posto e tenta il crossetto sporco per i centrocampisti che penetrano dal centro. Mettiti d’accordo coi tuoi centrocampisti: se loro non si infilano al centro è inutile che ti defili per portare via uomini.
Quando sei in aerea, nella mischia, puoi stopparla anche col pacco, di coscia, coi reni, e tirare a caso.
3. Ciro Immobile (Torino Football Club)
Gli highlights di Immobile mi ricordano una sensazione provata guardando il documentario su una partita di Zidane in cui viene inquadrato solo lui dall’inizio alla fine. Zidane sembrava toccare palla pochissimo. Però lì quando Zidane finalmente faceva parlare il piede per un istante, la palla veniva spedita esattamente dove doveva andare secondo le riflessioni complicate che gli leggevi in faccia per tutto il tempo in cui non toccava palla. Nel caso di Immobile, si vedono solo fiammate da crisi respiratoria: come se l’intervento di Immobile consistesse nel lanciarsi per un’istante a velocità assurda e in pochi secondi tirare o cadere o saltare il portiere e toccarla in porta, o fare una mezza rovesciata. Difficile per il mediocre attaccante di calciotto imparare qualcosa da lui. La dimensione in cui gioca ricorda Braid il videogioco in cui si può fermare il tempo. Mentre per le cose che fa Ibarbo serve fiato e fisico e senso tattico, per le cose di Immobile bisogna avere fondamentali perfetti la capacità di conservare lo sguardo anche nell’attimo in cui in tre metri puoi smarcarti e tirare.
Le Perle del Mese in Liga
di Valentino Tola (@ValentinoTola1)
1. La quasi rimonta del Rayo Vallecano.
Se visiti Vallecas sei davvero un appassionato incurabile, perché da vedere non c’è niente: niente museo, niente visita guidata, un negozio di gadget nel quale è più difficile trovare la sciarpa del club che in un negozio del centro, con magliette con foto giganti dei giocatori in un bianco e nero che più che altro richiamano la commemorazione di qualche persona cara defunta. Ma se ci vai sai che quella è una squadra speciale, una di quelle con più “anima” di tutto il calcio spagnolo. Un’identificazione con il territorio (uno storico quartiere operaio di Madrid) diversa ma paragonabile per intensità a quella delle squadre basche o del Barça.
Il Rayo è una delle bestie più rare nel calcio europeo: una squadra piccola, la più povera della Liga, che decide che la strategia più ragionevole per salvarsi (anzi per sfiorare la Uefa l’anno scorso) è la follia, perché se vivacchi appollaiato nella tua area magari retrocedi ugualmente e non ti diverti neppure.
Sempre avanti il Rayo, con la ricerca ossessiva del possesso-palla, la difesa alta e il pressing forsennato. Poco importa che la ricercatissima fase di uscita del pallone dalla metà campo difensiva quest’anno sia costata una serie di gol subiti fra il ridicolo e il tragico, e che la difesa altissima abbia subito un gol inconcepibile come quello di Málaga, in soli tre passaggi contando anche il rinvio corto dal fondo del portiere avversario.
Il Rayo va avanti per la sua strada perché la follia ha una sua logica (se hai la rosa intasata di mezzepunte e alette e il tuo unico centravanti-boa è Larrivey, uscire sempre palla a terra è una scelta non così irrazionale), e perché la follia contagia anche il suo pubblico, un moltiplicatore formidabile. La quasi-rimonta di Vallecas, non semplicemente del Rayo Vallecano, nel derby col Real Madrid (sotto 0-3, due gol in un minuto e pareggio che non arriva solo per sfortuna) pur incompiuto resterà uno dei momenti più emozionanti. Il Rayo quest’anno è in pessime acque, ha perso giocatori dimostratisi insostituibili come Piti, Chori Domínguez e Léo Baptistão ma crea e regala talmente tanto, al pubblico, a se stesso e agli avversari, che vederlo retrocedere sarebbe un delitto.
2. I sottomarini sono tornati, e ora volano pure.
La squadra più bella vista finora è il Villarreal, tornato come se nulla fosse dall’anno in Segunda al ruolo ormai storico a ridosso delle grandi, consolidando un marchio di buon calcio e pianificazione paziente.
A dire il vero lo stile di gioco è cambiato rispetto all’epoca di Pellegrini: rimane un calcio d’iniziativa, ma ora se si può il primo passaggio è subito verticale, e se con Pellegrini il giocatore in possesso del pallone doveva andare “lento per pensare”, ora il ritmo di certe combinazioni offensive è da piccolo Borussia Dortmund. Un incrocio felice fra il gusto per il toque della scuola-Villarreal e della traiettoria del tecnico Marcelino sempre fautore di un 4-4-2 corto e aggressivo in fase difensiva e con transizioni offensive in pochi tocchi.
La chiave sono i movimenti degli attaccanti: dei tre maggiormente impiegati (Pereira, Giovani, Uche) nessuno è prima punta di ruolo, tutti son piccoli, rapidi e iperattivi, che con movimenti dentro-fuori separano i centrali avversari e creano continuamente spazi. Lo so, la tiritera delle punte che tagliano verso l’esterno e dei centrocampisti esterni che incrociano non è nuova, nessuno ha più arieti o ali e tutti giocano da falso-qualche-cosa, ma il sincronismo e la precisione dei movimenti offensivi del Villarreal non li vedi da molte altre parti. Aprendo difese schierate o con spettacolari staffette in contropiede, la palla corre che è un piacere, e c’è sempre una soluzione.
I custodi dello stile-Villarreal sono i veterani Cani e Bruno. Cani, esterno sinistro che spazia su tutta la trequarti, ha sempre incantato per eleganza, ma ora a 32 anni sta giocando il miglior calcio della sua carriera, aggiungendo quella continuità e leadership che son stati un po’ i crucci, talvolta disperanti, della sua gioventù. Bruno Soriano invece è il miglior centrocampista centrale del campionato finora: mancino sublime per geometria e piazzamento, principale iniziatore del gioco sul centro-sinistra, ha un tale autocontrollo che potrebbe mettersi a danzare sull’orlo di un burrone. La sorpresa non è tanto il rendimento, ma che abbia già segnato 3 reti, un’enormità per uno che sembrava allergico persino al tiro in porta. Conseguenza inattesa ma logica del gioco di Marcelino, fatto di recupero del pallone alto e incursioni in blocco.
3. Neymar falso centravanti?
In un Barça che sembra sempre perdere le proprie certezze, anche l’entusiasmo di Neymar rischia di affievolirsi. Incollato all’out sinistro in ossequio al Messi-sistema, il brasiliano comincia a sentire sempre più stretto questo ruolo. L’infortunio di Messi ha controindicazioni ovvie, ma può anche smuovere le carte di un attacco ingessato dal poco dinamismo dell’ultimo Messi e da soluzioni tattiche usurate. Neymar ha un senso più che altro istintivo del gioco di squadra (non è un computer come Xavi o Iniesta), ma ce l’ha: la sua caratteristica migliore, anche più del dribbling, è la facilità nel generare continue superiorità tramite gli uno-due. Da falso centravanti è una perla ipotetica, suffragata finora solo dal gran secondo tempo col Valladolid (male invece col Granada), e su cui Martino (forse preoccupato anche dalla mancanza di ampiezza a sinistra per l’assenza di Jordi Alba, oltre che dalla necessità di far stare tutti insieme Xavi, Cesc e Iniesta) non sembra insistere a sufficienza. Da una decisa “liberazione” tattica del brasiliano però potrebbe venire una svolta salutare, anche dopo il ritorno di Messi.
I Peggiori Tweet del Mese
di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)
Nella top five non si prenderanno in considerazione quei tweet brutti e clamorosi, ad esempio questa presa a male, o quest’altra, ma soltanto i più disperanti, quelli che ridimensionano i nostri idoli in umani troppo umani, come questo capolavoro di mestizia. Chi sarà il vincitore del “Salvatore Fresi d’oro”?
Le storie strappalacrime del mese
di Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)
Daniele Conti, figlio di Bruno, padre di Manuel, capitano del Cagliari, occasionale doppiettista. Giocatore semplice, caso raro: ha scelto da tempo di tenere il suo talento nell'Isola, per quasi 400 partite e senza nessuna tentazione. La sua è la storia di campione normale, che non fa audience; una bella narrazione, che poco si intona alle polemiche tossiche che piacciono così tanto agli utenti del pallone che poi si lamentano perché il pallone è intossicato. Daniele Conti segna, gli capita. Due volte in una partita (contro il Torino), e questo gli capita meno di frequente. Corre, dopo il secondo, e non fa gesti goffi, né balletti o coreografie. Corre e basta, spontaneamente. Corre verso Manuel, secondo figlio, prima volta da raccattapalle: lo abbraccia, festeggia in campo in un momento che sembra uno dei tanti, in casa, tra padre e figlio: il piccolo che corre, il papà a braccia parallele al terreno che lo aspetta per lanciarlo in alto e incassare la risata prima e il sorriso poi.
Qui c'è un gol e quell'esultanza è gaiezza crescente anche per chi segue il momento passo dopo passo; il volto estasiato del bambino con i capelli a spazzola, gli altri giovanissimi di lato che pure esultano, ma un po' invidiano Manuel che per primo può abbracciare il capitano, perché è il papà. E poi il secondo “scatto” di una fotografia di amore e pallone: l'urlo con Manuel stretto stretto, la felicità raccontata da due occhi chiusi e la bocca aperta. Semplice, il perché di tutto questo: «L'anno scorso, dopo che avevo segnato una doppietta, ho abbracciato il grande, quest'anno per non farli litigare ho abbracciato il piccolo. Si chiama Manuel. Per chi tifano? Sicuramente per il Cagliari». E la lettera di Bruno, campione del Mondo, che da padre (di Daniele) e nonno (di Manuel) scrive: «quell’abbraccio racconta una famiglia, la nostra famiglia».
Alla maniera dei Conti, non con un dito che simula il ciuccio, né con il gesto della culla, nulla che sia a favore della telecamera ma la spontaneità di una corsa e un abbraccio, che poi Prandelli benedice come «lo spot del calcio vero da esportare nel mondo. Mi ha fatto tornare il sorriso. Conti non ha bisogno di inviti, se vuole venire a Coverciano portando il suo bambino, le porte sono aperte», non avendo colpe ma dimenticando che ad esempio in azzurro Daniele Conti non ci è arrivato mai, e infatti «la mia Nazionale è stata sempre il Cagliari. Sono legato troppo a questa maglia e il resto non mi interessa», ha detto chiudendo in modo definitivo la questione già da tempo e mostrando pezzi importanti della semplicità che un abbraccio da padre ha reso straordinaria e, per novembre, è dei momenti belli quello che mettiamo al primo posto.
Al secondo c'è una storia di lacrime accennate, negate, ma belle anche solo da immaginare: quelle di Javier Zanetti poco prima del rientro in campo, il 9 novembre contro il Livorno, quelle che seguono i nove minuti giocati sei mesi e undici giorni dopo la rottura del tendine d'Achille, a Palermo, a quarant'anni, un'età in cui noi sentiamo i primi acciacchi pure senza fare sport mentre Pupi corre ancora in serie A e prova emozioni che cerca di nascondere per pudore, ma riuscendoci solo un po': «Non ho pianto», ha detto dopo la partita: «L'emozione è rimasta tutta dentro ma era fortissima. Prima di entrare in campo mi sono ripassate in mente mille immagini. Pensare a tutti i tifosi che mi sono stati vicini mi ha reso felice. Il mio desiderio era di giocare almeno un'altra partita davanti ai miei tifosi».
La verità è che quando stava entrando era gioiosamente turbato e strizzava gli occhi, abbracciava persone, sentiva l'attesa, e che se non ha pianto è come se l'avesse fatto, anche quando Cambiasso a partita finita gli ha portato la fascia di capitano (durante la partita non avrebbe potuto), come volesse subito ristabilire le gerarchie, come omaggio immediato a uno dei più grandi calciatori capitati in Italia, esempio di tenacia, serietà, professionalità che sono qualità che potrebbero finire per essere attribuite a un uomo di ghiaccio, invece non è così. «Mi ero ripromesso di giocare almeno un'altra partita e ce l'ho fatta», ha detto l'uomo che, sostiene Moratti: «viene da Kripton».
Lacrime buone e infortunio dimenticato al secondo posto, lacrime amare e infortunio al terzo posto. È quello che accade a Rosolini, in Sicilia, in Eccellenza, quei campi da cui spesso arrivano le decisioni più fantasiose dei Giudici Sportivi e a volte sembra valere tutto, laddove il servizio d'ordine è spesso affidato a dirigenti piuttosto caldi e gli arbitri vanno quasi a scuola di sopravvivenza. Non sempre, non in quella occasione. Giocava il Siracusa, Luigi Calabrese, centrocampista e vicecapitano improvvisamente diventa simbolo: l'avversario – giovanissimo – aveva perso conoscenza, battendo la testa, e senza perdere un attimo Luigi è andato a soccorrerlo, lo ha preso in braccio e accompagnato fuori dal campo per accelerare l'intervento, con lo sguardo fraterno immortalato da una foto che restituisce la tenerezza che i calci a un pallone sembrano non prevedere. Infatti sorprende. Si sorprende il Siracusa («Questo momento racchiude in sé tutti i valori più alti che lo sport insegna. Grazie Gigi perché oggi ci hai fatto ricordare che il calcio è soprattutto lealtà, rispetto ed educazione»), si sorprende il Comune di Siracusa, che lo premia, si sorprende a un certo punto pure lui: «L'ho fatto perché il calcio prima di tutto è rispetto». Ma intanto la foto era arrivata al mainstream, il gesto era diventato un pezzo di favola. Come gli altri due, tutti tanto belli perché semplici: l'abbraccio di un padre al figlio, l'emozione per un rientro in campo, il soccorso all'avversario. Curioso, che ciò che appare normale diventi straordinario.
Oppure no. Nel dubbio, evviva.