Nel mese abbondante che è passato dalla fine delle NBA Finals, si aveva un po’ la sensazione che attorno ai Cleveland Cavaliers ci fosse fin troppo silenzio, che fosse quasi strano che non fosse successo sostanzialmente nulla di enorme. Dopo la sconfitta contro i Golden State Warriors era attesa una risposta dello stesso livello rispetto a quella orchestrata dai “Dubs” un anno fa, quando riuscirono a invertire i rapporti di forza con il resto della lega firmando Kevin Durant. Invece i Cavs, pur provandoci ripetutamente, non sono riusciti ad arrivare a quel giocatore in grado di colmare il cap con i rivali dell’ovest, e da lì in poi sono sostanzialmente rimasti fermi e inattivi. Una situazione inusuale per una squadra che negli ultimi tre anni è sempre stata al centro del “drama” della NBA — che fosse per gli scontri interni tra gli ego delle sue superstar, per l’enorme esposizione mediatica dovuta alla presenza del miglior giocatore della sua generazione, o per la più grande rimonta nella storia delle finali NBA che ha riportato un titolo nel Northeast Ohio dopo oltre cinquant’anni di maledizione.
Oggi, finalmente, sappiamo quello che stava bollendo in pentola, e improvvisamente gli ultimi giorni di luglio — notoriamente quelli più “scarichi” del calendario NBA, dopo la fine della Summer League e l’inizio delle meritate vacanze per gli addetti ai lavori — sono diventati rilevanti per il corso presente e futuro della lega. La notizia riportata da Brian Windhorst di ESPN è esplosiva: Kyrie Irving ha chiesto ai Cleveland Cavaliers di essere ceduto, perché vuole essere il punto focale di una squadra e sopratutto non vuole più giocare all’ombra di LeBron James.
Letta così la notizia può sembrare sconvolgente, ed è certamente clamorosa, ma in realtà gli scricchiolii erano già iniziati da almeno un anno — anche perché, secondo quanto riportato, Irving aveva considerato l’idea di chiedere di essere scambiato già dopo il titolo conquistato nel 2016. Ma per capire bene come si è potuti arrivare all’orlo del crollo totale del regno di Camelot-Cleveland bisogna fare qualche passo indietro e considerare una dopo l’altra le crepe che sono venute a crearsi tra le mura del castello di Re Artù-LeBron e i suoi rapporti con Lancillotto-Kyrie per il cuore di Ginevra — che poi altro non è il simbolo del potere all’interno di una franchigia. Quel ruolo da “giocatore-franchigia” che Irving non può ambire ad avere fintanto che lo scettro del potere rimane nelle mani di King James, e che King James per stessa definizione non può cedere a nessuno.
“We need a fucking playmaker”
Queste parole pronunciate da LeBron James in un lungo rantdopo una sconfitta di gennaio contro i New Orleans Pelicans hanno provocato un subbuglio a Cleveland, ma fanno riferimento a quanto successo nei mesi precedenti a quello sfogo. Già a inizio luglio, in piena sbornia post-titolo, i Cleveland Cavaliers decisero di rinunciare a Matthew Dellavedova senza pareggiare il triennale da 27 milioni offerto dai Milwaukee Bucks, pur senza avere la reale possibilità di sostituirlo date le limitazioni del salary cap. Una scelta che inizialmente poteva sembrare sensata — considerando anche che con la luxury tax quei 9 milioni all’anno sarebbero stati sostanzialmente triplicati, e Delly era reduce da delle finali viste soprattutto dalla panchina, complice una caviglia in condizioni precarie —, ma che creò un vuoto all’interno del roster che non è mai stato colmato (anche perché Mo Williams, veterano designato per il ruolo di backup di Irving, aspettò fino all’inizio del training camp prima di decidere di operarsi al ginocchio). Soprattutto, quella mancata conferma diede a James la percezione che il proprietario Dan Gilbert non volesse spendere per mantenere intatto il gruppo che aveva appena vinto il titolo — un peccato capitale agli occhi di LeBron, il cui rapporto con la proprietà è sempre accidentato, ma si basa su un semplice «Fintanto che io sono qui e ti faccio guadagnare un sacco di soldi solo con la mia presenza, tu hai l’obbligo di spendere tutto quello che serve per darmi le migliori chance di titolo. Poi in campo ci penso io». Un accordo rispettato da Gilbert con il quadriennale da 60 milioni allungato a J.R. Smith e precedentemente con gli accordi per Tristan Thompson e Kevin Love, ma non con la situazione legata al playmaker di riserva.
Arrivi durante la stagione: Kyle Korver, Derrick Williams, Deron Williams, Andrew Bogut
La dirigenza dei Cavs ha provato ad allungare la rotazione facendo dei movimenti durante la stagione, il più significativo dei quali è stato l’arrivo di Kyle Korver, per il quale è stata sacrificata la prima scelta al Draft. Poi sono state fatte delle scommesse anche su Derrick Williams, Deron Williams e Andrew Bogut, tutte finite tra il male (Derrick Williams dopo qualche partita incoraggiante ha perso rapidamente i favori di coach Lue), il malissimo (Bogut fuori dopo 58 secondi dal suo esordio) e qualcosa in mezzo (Korver ha dato la dimensione perimetrale di tiro che ci si aspettava e Deron Williams, quantomeno fino alle Finals, ha fornito un rendimento accettabile). Il problema è che nessuno di questi si è rivelato in grado di allungare le rotazioni contro i Golden State Warriors, in cui Korver e Williams sono sembrati ancora più vecchi rispetto a quanto dica la loro carta d’identità e il deficit in termini di atletismo e presenza difensiva è stato gigantesco. Di fatto, i giocatori affidabili del roster di Cleveland per una serie contro gli Warriors — destinati a essere ricordati come una delle migliori squadre di sempre, va ricordato — si contavano sulle dita di una mano. E questo è un enorme problema.
Il solito dominio a Est e la sconfitta alle Finals
Nonostante i limiti del roster, la presenza di tre stelle del calibro di James, Irving e Love è bastato e avanzato per fare man bassa della Eastern Conference pur facendosi sfuggire per pigrizia il primo posto a fine regular season, ma dominando tutti gli avversari ai playoff con un record complessivo di 12-1. Il fatto che questo sia da considerare il “solito” ruolino di marcia ci dice quanto questi Cavs — pur con tutti i loro problemi, limiti e inefficienze — siano in una posizione che altre 28 squadre della NBA ucciderebbero per avere: Cleveland anche senza muovere una virgola ha la strada più o meno spianata (dipende da cosa pensate dei Boston Celtics dopo l’arrivo di Gordon Hayward) per tornare in finale ogni anno. Il problema è fare il passo successivo dopo aver tastato con mano quanto sia difficile affrontare i Golden State Warriors con un Kevin Durant in più, specialmente con le poche carte in mano da poter spendere sul mercato. Di fatto, ai Cavs erano rimaste solo la Mini-Mid Level da 5.2 milioni, qualche trade exception con cui assorbire contratti sotto i 5 milioni e la possibilità di imbastire uno scambio attorno a Kevin Love: un po’ poco per pensare di colmare il gap in un colpo solo, ma non si può dire che il GM David Griffin non ci abbia provato. Almeno fin quando è rimasto al comando della dirigenza.
Le trade mancate per Butler e George, e l’allontanamento di Griffin
Secondo quanto è stato scritto, Dan Gilbert aveva dato un compito al suo GM: sii aggressivo sul mercato per migliorare il roster. Griffin si era messo immediatamente al lavoro cercando di imbastire uno scambio con i Chicago Bulls per arrivare a Jimmy Butler, ma nel giorno stesso in cui era al telefono per completarlo è arrivato il licenziamento — o, per meglio dire, il mancato rinnovo di contratto — da parte di Gilbert. I segnali che l’allontanamento potesse consumarsi, almeno stando a quanto trapelato, c’erano ormai da tempo, ma di tutte le crepe createsi a Cleveland nell’ultimo anno, questa è certamente la più grossa — nonché la più ingiustificabile. Griffin era a tutti gli effetti apprezzato e rispettato tanto da LeBron James (che dopo la notizia gli ha dedicato un tweet sibillino nei confronti dell’odiato proprietario) quanto dal resto del roster, in particolare da Kyrie Irving con cui aveva un grande rapporto. Soprattutto, è la tempistica della scelta di Gilbert a essere completamente sbagliata: come detto Griffin era al lavoro per prendere Butler e aveva fatto delle telefonate per imbastire uno scambio con gli Indiana Pacers per Paul George, ma sopratutto mancava solo una settimana dal Draft o poco più di due alla free agency — il momento dell’anno per cui un General Manager lavora per dodici mesi.
Affrontare quei 15/20 giorni senza una guida e senza un piano equivale a morte sicura, specialmente in un’estate così cruciale per il destino della franchigia intera — a maggior ragione data la nube nera sopra tutta Cleveland dovuta al possibile secondo addio di LeBron James tra un anno, quando avrà la possibilità di “uscire” dal suo accordo con i Cavs e diventare free agent. È inevitabile che ogni decisione presa dai Cavs dovesse tenere conto di questa possibilità e la scelta di “sacrificare” Kevin Love per arrivare a uno tra Butler e George — certamente più utili rispetto al lungo per una eventuale serie con i Golden State Warriors — andava nella direzione di convincere James che la squadra potesse rimanere competitiva negli anni a venire. Di fatto, LeBron si aspettava che i Cavs provassero a fare un colpo “in stile KD” per colmare il gap — e Griffin non ci era nemmeno andato così lontano, visto che i Cavs erano convinti di avere un accordo a tre coinvolgendo Denver per prendere Paul George, prima che i Pacers si ritirassero e decidessero di chiudere l’assurdo scambio con gli Oklahoma City Thunder.
Una free agency muta
E così i Cavs, senza una guida e senza uno scambio per poter migliorare significativamente il roster, non solo non hanno fatto letteralmente nulla durante il Draft (mentre Golden State metteva a segno l’ennesimo colpo comprando la scelta con cui chiamare Jordan Bell al secondo giro), ma hanno aperto la free agency limitandosi a firmare José Calderon (a malapena un giocatore NBA a questo punto della sua carriera), confermare Kyle Korver (con un contratto per certi versi fuori mercato, visto che non è chiaro chi stesse facendo offerte contro di loro), firmare Cedi Osman dalla Turchia (incrociando le dita che possa essere utile fin da subito sul perimetro) e iscrivendosi alla lunga lista di squadre che pensano di poter tirare fuori qualcosa da Jeff Green (piccola nota: tutte ne sono uscite interdette). In tutto questo tempo LeBron James non ha alzato nemmeno una volta la cornetta per dar loro una mano con il recruiting o per offrire il suo giudizio sull’operato — un mutismo inusuale per il personaggio e pericoloso in vista della prossima stagione. Se ci aggiungiamo quello che sono riusciti a fare a Golden State con limitazioni simili (confermando tutto il roster tranne JaVale McGee e rimpolpando la panchina con Bell, Nick Young e Omri Casspi), è inevitabile che la frustrazione stesse montando a casa James. Il gap, invece di diminuire, dopo il mercato è certamente aumentato.
La debacle con Chauncey Billups e l’assunzione di Koby Altman
Ad aggiungere ulteriore danno alla beffa bisogna considerare la paradossale situazione legata a Chauncey Billups. Immediatamente dopo l’allontanamento di Griffin quello dell’ex playmaker dei Detroit Pistons è stato l’unico profilo inseguito dal proprietario Dan Gilbert; Billups però non era convinto di prendere un posto di lavoro così poco allettante — data l’intricata situazione legata a James e le poche carte da poter giocare per migliorare un roster atteso al quarto ritorno alle Finali NBA, come dichiarato anche recentemente — e oltretutto pare che Gilbert, dopo non aver confermato Griffin anche per motivi monetari, abbia offerto due noccioline come compenso per “Mr. Big Shot” (circa 2 milioni di dollari, un compenso bassissimo per il ruolo di President Of Basketball Operation). Un affronto che, per un ex giocatore in eccellente situazione finanziaria e sotto contratto con ESPN, è sembrato troppo per fino per uno come Gilbert, il quale peraltro non si è mai fatto troppi problemi a pagare tantissimo tanto per la squadra (il monte salari è destinato a raggiungere livelli da record per la luxury tax) quanto per i membri dello staff (il coach Tyronn Lue percepisce 7 milioni di dollari). Per qualche motivo noto solo a lui, Gilbert non pensa che il suo massimo dirigente meriti uno stipendio adeguato quantomeno agli altri top della lega, e dopo settimane di tentennamenti è arrivato a offrire il posto a Koby Altman, fino a quel momento GM ad interim della squadra dopo esserne stato uno dei vice. Il tutto perché nel frattempo era scoppiata il caso Irving.
La richiesta di trade di Kyrie
La notizia è stata resa nota da ESPN solo venerdì scorso, ma da report successivi è emerso che la richiesta di scambio sia arrivata già il 7 luglio — una data molto particolare che merita un approfondimento. È strano infatti che Irving abbia aspettato così tanto per rendere noto il suo malcontento, perché al 7 luglio ormai la maggior parte dei giochi in sede di free agency sono fatti (per non parlare del Draft) e ogni scambio, inevitabilmente, è meno vantaggioso visto che le tessere più grandi del domino si sono già mosse. Il camp di Irving si è difeso dicendo che, non essendoci state le classiche exit interviews di fine stagione e con il caos creato dall’addio di Griffin, il playmaker non aveva nemmeno un GM a cui riferire il suo malcontento. Forse però Irving voleva anche rimanere a osservare le mosse della dirigenza prima di fare la sua richiesta, come a lasciare del tempo per cercare di recuperare una situazione che stava crollando, come una fidanzata che concede “l’ultima opportunità per rimediare” in una storia che sta andando a rotoli. Solo una settimana dopo l’inizio del mercato ha parlato con Dan Gilbert, rendendo noto che vuole essere il punto focale di una squadra e non vuole rimanere nell’ombra di LeBron James. L’ultima picconata a una franchigia che ora, inevitabilmente, si ritrova a fare i conti con lo sgretolamento di quanto costruito negli ultimi tre anni e rimette in discussione gli equilibri stessi della Eastern Conference che sembravano definiti e incrollabili.
Ci sono almeno tre soggetti coinvolti in tutta questa storia: il primo ovviamente è Kyrie Irving e quello che vuole per la sua carriera; il secondo è LeBron James e le sue responsabilità per quanto è accaduto; i terzi sono i Cleveland Cavs, messi ora in una situazione impossibile ma che loro stessi hanno aiutato a creare, specialmente con le scelte cervellotiche di Gilbert. Procediamo con ordine.
Le motivazioni di Irving
Si è scritto molto delle motivazioni che hanno spinto Irving a richiedere lo scambio, e negli ultimi giorni siamo venuti a sapere che l’idea era nata fin dalla fine delle scorse Finals — non quelle del 2017, ma quelle vinte nel 2016. Per capirlo a pieno bisogna tenere in considerazione che Irving non ha scelto di giocare con LeBron James, ma che semmai è stato James a scegliere Kyrie come compagno per la terza fase della sua carriera. La point guard nel 2014 aveva appena scelto di rimanere ai Cavs (dopo che già da qualche anno circolavano voci che lo volevano tutt’altro che felice a Cleveland, sia come franchigia che come città) con la promessa di esserne il giocatore-franchigia, di avere sempre il pallone in mano e di poter raggiungere tutti i traguardi individuali che la sua ambizione gli imponeva di avere. È abbastanza normale che i giocatori al primo contratto dopo quelli da rookie, specialmente quelli in grado di procurarsi un accordo al massimo salariale, utilizzino le annate che vanno dalla quinta alla nona nella lega — il prime della loro carriera — per togliersi le maggiori soddisfazioni a livello individuale e in seconda battuta di squadra, anteponendo i propri obiettivi (All-Star Game, All-NBA, MVP, top-5 nella lega) per porre le basi con cui procurarsi opportunità di guadagno anche fuori dal campo (signature shoes, spot commerciali, ecc…). Solamente dopo aver raggiunto tutto questo passano in modalità “Ring”, anteponendo a tutto il resto la possibilità di vincere un anello — la miglior aggiunta possibile al loro “brand”.
A Kyrie Irving questo non è stato concesso per l’arrivo di LeBron James, che gli ha tolto le luci della ribalta e ha spostato la sua modalità in “Win Now” prima di quanto probabilmente Irving avrebbe immaginato o voluto. Di fatto, dopo essersi già tolto la soddisfazione di vincere un anello, ora Kyrie vuole riprendersi le annate perdute a livello individuale, vuole avere il riconoscimento che altri della sua generazione come Damian Lillard e John Wall hanno a Portland e Washington (dove sono indiscutibilmente uomini-franchigia pur avendo attorno un contesto vincente) e dimostrare a tutto il mondo di cosa è capace, producendo un’annata da MVP. Verrebbe da chiedersi: perché non può avere tutto questo a Cleveland, che sarebbe più che disponibile a darglielo dal 2018 se, come pare, LeBron James decidesse di andarsene — per di più con la possibilità di dargli un’estensione da Designated Veteran Player pari al 35% del cap se raggiungesse un quintetto All-NBA?
Innanzitutto perché non è così scontato che LeBron se ne vada, visto che i Cavs potrebbero offrirgli un quinquennale che nessun altro può dargli, oltre a una conference decisamente più abbordabile rispetto alla Western. Poi bisogna anche pensare al fatto che evidentemente Kyrie non è poi così felice di essere a Cleveland e di sicuro non apprezza l’instabilità di una franchigia che non riesce a tenere un GM per più di un contratto. In ultima istanza, come scritto da Adrian Wojnarowski, c’è anche l’idea di prendere in mano la propria carriera e non subire più le scelte altrui, anticipando di fatto le scelte di James e cercando di creare da solo la propria narrativa.
Ciò nonostante, il fatto che abbia deciso così deliberatamente di lasciare un biglietto quasi sicuro per le Finali NBA ogni anno ci dice qualcosa sulle motivazioni che lo spingono, che evidentemente sono più legate alla soddisfazione del suo ego rispetto al sacrificio delle statistiche personali o dei riconoscimenti sull’altare della vittoria di un anello. Non so perché Irving senta la necessità di dimostrare al mondo di cosa è capace: ogni giocatore dentro di sé è animato dalla brama di avere “qualcosa in più”, di sbloccare parti del proprio talento che fino a quel momento erano state limitate per tutta una serie di ragioni. Ma davvero Kyrie pensa che il mondo non sappia di cosa è capace? Oramai dopo sei anni di carriera e tre finali consecutive, più o meno tutti abbiamo un’idea chiara di che tipo di giocatore sia, di quali siano i suoi difetti e di quali siano i suoi pregi. Perché rinunciare alla possibilità di competere per il titolo ogni anno per dimostrarci che può segnare 30 o più punti a partita? Cosa aggiungerebbe un risultato del genere al suo curriculum?
La vista della situazione da casa James
In tutto questo, bisogna considerare la posizione di LeBron James, il quale sostanzialmente per la prima volta in carriera ha visto qualcuno dirgli di non voler giocare più con lui. Di solito era sempre stato lui a prendere questa decisione, mentre ora è dall’altra parte della barricata: non avendo espresso la sua opinione in prima persona, come è nel personaggio, dall’esterno sono arrivate solo notizie contrastanti e molto spesso esagerate sul suo stato d’animo. È pacifico pensare che LeBron James sia arrabbiato e deluso per la scelta di Irving, ma non è plausibile che il suo camp voglia «prenderlo a calci in culo», come detto da Stephen A. Smith. È pacifico pensare che LeBron voglia voltare pagina il prima possibile e non perdere ulteriore tempo, ma non è plausibile pensare che ritenga il solo Derrick Rose abbastanza per sostituirlo degnamente.
Viene da chiedersi: quante colpe ha davvero James nella scelta di Irving? Avrebbe dovuto cedere di più le luci della ribalta per accomodare l’ego del suo giovane compagno? Avrebbe dovuto limitarsi di più in campo e/o diminuire la sua influenza sulla franchigia? Di sicuro uno come LeBron James è una presenza ingombrante ovunque vada, ma nell’ultima stagione ha chiuso tirando meno volte, tenendo il pallone per meno tempo e utilizzando meno possessi rispetto a quanto fatto da Irving — una cosa mai successa per nessun suo compagno nei precedenti 12 anni di carriera. James poi, dopo un inizio di relazione balbettante, ha avuto solamente parole di elogio per ogni grande prestazione di Irving, dicendo che lo avrebbe voluto vedere vincere un MVP prima o poi. Soprattutto, James gli ha ceduto uno dei possessi più importanti di una gara-7 delle finali, andandosi a piazzare in un angolo e lasciando che Irving segnasse il tiro che poi ha deciso il titolo del 2016. Se non sono investiture queste, cos’altro avrebbe dovuto fare?
Con ogni probabilità, almeno agli occhi di Irving, avrebbe potuto limitare le sue richieste fuori dal campo, che fosse con i subtweet nei confronti dei compagni, nelle richieste a gran voce alla dirigenza e nel generale controllo mentale ed emotivo su tutto quello che succedeva all’interno della franchigia. Forse a Irving non era tanto la presenza fisica di James a dare fastidio, ma l’ombra che stagliava su tutto il resto. E, dopo tre anni vissuti intensamente e alla prima sconfitta in una serie con tutti i membri dei Big Three al completo, ha deciso di averne abbastanza.
Cosa faranno ora i Cleveland Cavaliers?
Pensare di ricomporre i pezzi della frattura tra Irving e James, a questo punto, non è plausibile. Pensare di iniziare un training camp e affrontare anche solo una parte di stagione con questa situazione all’interno dello spogliatoio, anche. Eppure i Cavs non hanno ancora premuto il grilletto su nessuno scambio, pur essendo a conoscenza della situazione da quasi 20 giorni. Perché?
I recenti scambi di DeMarcus Cousins, Jimmy Butler e Paul George ci dicono che scambiare una stella è più difficile di quanto sembri in questa epoca. Eppure, rispetto agli altri, Kyrie Irving possiede delle caratteristiche che innalzano il suo valore di mercato e fanno pensare ai Cavs di poter ragionevolmente ottenere un pacchetto dal livello tale da mantenere competitiva la squadra nel presente e nel futuro. Innanzitutto Irving ha solo 25 anni, e i giocatori del suo talento di solito non arrivano sul mercato così presto; inoltre il suo contratto ha due stagioni piene prima dell’uscita nel 2019 a un prezzo più che ragionevole (anche considerando il 15% di bonus in caso di trade), visto che è stato firmato prima dell’esplosione del cap; per concludere, il suo potenziale extra-campo in termini di marketing, biglietti e merchandising è immenso, dato che è conosciuto a livello internazionale grazie ai suoi spot di Uncle Drew (pare stia anche girando un film), la sua linea di scarpe e il suo gioco estremamente fan-friendly.
Per tutti questi motivi e per il fatto di poter fare quello che vogliono con il suo contratto (Irving non possiede una no-trade clause), i Cavs sono nella posizione di fare quello che vogliono — anche, se non soprattutto, aspettare che si crei una specie di asta tra le squadre interessate, che potenzialmente potrebbero anche essere tutte le altre 29. A svantaggio di Irving gioca il fatto che ci troviamo nell’epoca d’oro delle point guard e diverse squadre hanno già investito tempo e soldi nella posizione in giocatori di livello simile o superiore. A peggiorare ancora la situazione, il fatto che si sia mosso solo il 7 luglio ha fatto in modo che diverse squadre (tra cui anche una di suo gradimento come i Minnesota Timberwolves) abbiano cercato sul mercato dei free agent la loro soluzione per il ruolo. Le altre tre squadre sulla sua lista — i San Antonio Spurs, i Miami Heat e i New York Knicks — non possiedono o non intendono cedere i pezzi necessari per rendere ragionevolmente fattibile una trade, perciò i Cavs con ogni probabilità si concentreranno sulle offerte dalle altre squadre. Molte di queste, reali oppure immaginarie, sono state descritte da Zach Lowe nel suo pezzo di lunedì, da cui emerge che la principale richiesta di Cleveland sia un blue-chipper, un giovane con talento da All-Star e sotto controllo per il futuro a livello contrattuale. In pratica, un altro Kyrie Irving.
Non è semplice prendere un giocatore del genere, specialmente considerando allo stesso tempo il fit al fianco a LeBron James (perché il Re ha già fatto sapere che il suo piano è di ripresentarsi al training camp per guidare i compagni alla quarta finale, «indipendentemente da chi sia») che il futuro nel caso in cui se ne vada. I Cavs devono riuscire a trovare allo stesso tempo un giocatore che sia vice-re ed erede al trono, ed è un’impresa complicata — specialmente con le crepe che si sono venute a creare negli ultimi anni.
Sembrava che il regno dei Cavaliers non dovesse interrompersi fino a quando King James non avesse deciso di far finire la festa, ma con la ribellione di Kyrie Irving quel momento è arrivato prima di quanto immaginato. Starà al proprietario Dan Gilbert, al GM Koby Altman fare in modo che il castello non crolli su se stesso lasciando delle macerie ancora peggiori rispetto a quelle del 2010. Il resto della lega, intanto, osserva con grande attenzione i segnali del crollo nel regno di Cleveland.