Lamberto Zauli è: qualche figurina sbiadita, i capelli con la riga in mezzo, la maglia biancorossa del Vicenza con sopra lo sponsor Pal Zileri. Lamberto Zauli è la Coppa delle Coppe, è qualche video a bassa definizione, la pagina Wikipedia che lo descrive come un “Trequartista con un fisico possente”. Lamberto Zauli è un’idea di leggerezza che prende forma nel gol al Chelsea, nella vacuità su cui si regge l’incantesimo del suo equilibrio impossibile. Lamberto Zauli è reale quanto i ricordi del nostro primo bagno, della Viennetta dopo il pranzo della domenica. Per questo, quando me lo trovo davanti, ho un senso di vertigine: come se un personaggio di fantasia avesse preso vita, varcando la soglia che separa reale e immaginario.
Siamo nel centro sportivo del Santarcangelo calcio, la squadra che Zauli ha allenato la scorsa stagione e che ha portato a una brillante promozione. Non è semplice scendere a patti col fatto che la vita professionale di Zauli sia continuata, che non sia rimasta imprigionata nella parabola della sua perfetta incompiutezza. Verrebbe naturale immaginarlo come sono gli artisti a fine carriera: uomini sofisticati che non devono chiedere più niente alla vita. Ma Zauli è un ex calciatore e, nonostante abbia smesso da quasi 10 anni, è un uomo nel pieno delle forze: ha una camicia elegante e una macchina costosa. Al centro sportivo tutti lo chiamano, tutti lo salutano, tutti lo abbracciano. Il Santarcangelo è un piccolo club, sottodimensionato per la Lega Pro, e la salvezza che Zauli ha raggiunto rappresenta un grande successo. La nostra intervista si fa nella sala stampa: un piccolo edificio in legno prefabbricato che Zauli usa anche per far vedere ai suoi giocatori i video del prossimo avversario. «Qui è piccolo ma non ci manca niente», mi dice. Nel calcio non c’è niente di solido e gli eventi seguono una cronologia speciale. Un mese dopo l’intervista, Zauli ha deciso di non rinnovare con il Santarcangelo e ha firmato con il Teramo, una squadra con ambizioni di alta classifica, dal quale è stato già esonerato qualche settimana fa.
Il mestiere di allenare
Zauli ha iniziato la carriera di allenatore nel 2009 e in sette anni ha collezionato sei esoneri. La stagione al Santarcangelo è stata la più positiva della sua carriera ma quando provo a farglielo notare si nasconde un po’ per difendere il resto del suo lavoro e creare un’immagine complessivamente migliore: «Mi sono tolto altre soddisfazioni: una salvezza importante per la storia della Reggiana, una promozione in Lega Pro col Real Vicenza, per esempio». Alla fine però riconosce che questa è stata la stagione migliore: «I risultati sono arrivati tramite il bel gioco, quindi è il massimo». In quel momento al Santarcangelo vogliono rinnovargli il contratto, ma pare che Zauli sia cercato da squadre che vogliono salire in Serie B. Per dare l’idea del momento, dopo pochi minuti che ci siamo seduti gli squilla il telefono. Corre in macchina a parlare per un quarto d’ora, è una telefonata importante e quando torna mi dice: “Sai, in questi giorni…”. Io capisco che è molto ricercato.
In un certo senso volevo incontrare un’idea di Zauli e mi sono trovato di fronte una persona vera, alle prese con una carriera complessa. Il livello di pressioni che un allenatore deve sopportare è imparagonabile a quello di un calciatore, mi spiega: «C’è un abisso, quelle da giocatore sono ridicole a confronto. Da giocatore sei concentrato dal lunedì alla domenica sul tuo fisico, sulla tua prestazione, non pensi alla prestazione del tuo compagno: sei limitato al tuo mondo. Da questa parte invece devi considerare tutto: dal lavoro del magazziniere fino a quello dei giocatori, tenendo conto anche di come respirano. Devi gestire tutto: mettere vicino persone che si stimano, creare delle connessioni. Le responsabilità sono troppe».
Zauli è una persona intelligente, con una formazione borghese alle spalle non comune nel mondo del calcio. Il padre è medico-anestesista ed ex giocatore del Grosseto, dove la famiglia si è trasferita da Roma. Un background che non rendeva scontato che Zauli rimanesse nel mondo del calcio dopo il ritiro: «Ho iniziato al Bellaria, qui vicino, dove ho chiuso la mia carriera da calciatore. A 37-38 anni, finita l’annata la società mi ha proposto di allenare. Ho cominciato con mille perplessità sulle mie possibilità ma tutte le paure, appena cominci, spariscono. Ti innamori subito: è bello soprattutto il rapporto che crei con i giocatori. A quel punto mi sono accorto che potevo scommettere su me stesso».
C’entra forse la difficoltà, per una persona che ha praticamente vissuto nei centri sportivi sin da quando era un bambino, a re-immaginare la propria vita, a quasi 40 anni, fuori da un prato verde. Quello del ritiro dei calciatori è un tema di cui si discute davvero troppo poco, forse per un eccesso di tatto, forse per un minimo di senso di colpa che inconsciamente proviamo da spettatori. Anche Zauli taglia corto: «Sono approcci personali. Alcuni miei colleghi, una volta smesso, non hanno più voluto vedere il campo; per me invece continuare è stato naturale, ho iniziato ad allenare un mese dopo aver smesso». È stato proprio Zauli ad ammettere, in un’altra occasione, «Dopo vent’anni nel mondo del calcio è difficile uscirne». Gli chiedo se l’essere stato un ex calciatore lo ha aiutato: «Sì, per me è stato importante. Io dico ai miei giocatori: “Non voglio fare il professore, vi voglio insegnare quello il calcio che ha insegnato a me. È una ruota che gira”».
Anatrone
Quando Zauli è arrivato in Serie A aveva 26 anni, era alto 1,90 cm, aveva le spalle larghe e giocava da numero 10. Per un calcio abituato a dividere il fenotipo del fantasista tra veloci e brevilinei e alti ed eleganti, Zauli era davvero un animale strano. Con la maglietta dentro i pantaloncini tirati su fino all’ombelico e i calzettoni alti per scrupolo, Zauli sembrava appartenere al ceto impiegatizio: la sua corsa non era particolarmente bella, con le gambe lunghe e dritte costrette a portarsi a spasso un busto corto e largo da corazziere. Avanzava sopra al pallone masticandolo, sempre sul punto di perderlo senza mai perderlo davvero. Come i numeri 10 eleganti, però, Zauli era maestro di elusività: il linguaggio del suo corpo e le sue intenzioni entravano in contraddizione fino a un sottilissimo filo d’ambiguità.
Aggancio aereo di destro, dribbling al volo col ginocchio sinistro. Poi si ferma, fa una finta misteriosa, rientra verso il centro e serve l’assist a Luiso dietro la testa di Aldair. «La tribuna Monte Mario e mezza Tevere erano piene di gente che mi conosce. Dovevo per forza fare bella figura» ha dichiarato nel post-partita, lui che ha tutta la famiglia romanista.
Quando portava palla, Zauli sembrava sbilanciarsi volontariamente, rallentava fino a ridurre la propria azione a una serie di micro-movimenti, tendendo il proprio corpo fin dove non sembrava poter arrivare. Lì, in quel territorio di precarietà, riusciva sempre a recuperare il proprio equilibrio sempre un attimo prima del difensore. Zauli dribblava col busto, e le gambe lo seguivano successivamente, in leggero ritardo. Come se i pezzi del suo corpo riuscissero a stare insieme solo grazie a un linguaggio tortuoso e quasi impossibile. Guardiamo questo gol realizzato ai tempi del Bologna. Quando entra in area da sinistra, stappando la palla a rientrare col sinistro, la sua complessiva rigidità rende quasi inspiegabile la riuscita di quel dribbling. Persino lui sembra sorpreso quando abbassa la testa e si trova la palla incollata al sinistro.
Dentro quella coordinazione scoordinata c’è il compromesso che Zauli ha raggiunto per accordare il suo talento a un fisico sproporzionato. Zauli era davvero un freak, ma di quella categoria di freak che non hanno i superpoteri ma un insieme di qualità stonate: non era il gigante che sollevava le montagne ma il gigante che camminava in equilibrio sospeso su un filo.
Zauli era soprannominato “Lo Zidane della B”, per via della carriera provinciale; “Il Principe”, per una pigrizia verso le cose pratiche: «Sì è vero, di solito chiedo una mano nelle piccole cose. Mi passi questo, mi prendi quello… Un giorno non riuscivo a far funzionare la lavatrice, così ho chiamato Schenardi, mio vicino di casa, che mi ha risolto il problema». Ma il soprannome che meglio lo descrive è quello che gli ha attribuito Ulivieri: “Anatrone”, che richiama l’immagine di un cigno svegliatosi nel corpo di un’anatra gigante, costretta a sguazzare sempre in uno stagno troppo piccolo.Uno dei tanti esempi di Zauli che controlla i suoi centonovanta centimetri con una grazia da ballerina.
Oggi la stranezza di Zauli viene interpretata come anacronismo, come qualcosa di impossibile nel calcio attuale. Ma è davvero così?
Zauli, Fellaini, Pogba
Nell’immaginario comune Zauli era un 10 pigro e sregolato, che trovava la ragion d’essere solo in una Serie A ricordata a posteriori come un campionato sempre pronto a concedere una riserva di sregolatezza come sfiatatoio della propria rigidità tattica. Eppure Zauli mi ha spiegato che il posto da titolare nel Vicenza se lo è guadagnato per le ragioni opposte a quelle che ricordiamo: «Se pensi che da noi c’era Arturo Di Napoli, che era un fenomeno. Guidolin mi faceva giocare perché gli davo garanzie tattiche, di sacrificio».
Zauli ha un’idea del sé stesso giocatore che non coincide con quella che abbiamo noi, quando gli chiedo di descriversi mi dice: «Io sono stato un centrocampista, con qualche dote offensiva, che permetteva di dare equilibrio alla squadra». Una definizione che stona con quasi tutti gli articoli che si trovano in rete su di lui (qui per esempio, dove viene inserito nella categoria degli «artisti della trequarti, anarchici e indisponenti»; ma anche qui, qui o qui, dove la sua idea di calcio viene definita «da artista rinascimentale»). Zauli viene usato come esempio di un calcio che non esiste più e che ha perso la sua poesia.
Eppure, quando gli dico che gli anni ’90 sono ricordati come un periodo in cui ai fantasisti veniva concessa una certa anarchia tattica Zauli è quasi risentito: «Forse ai talenti di un decennio prima si chiedeva di correre meno». Gli chiedo esplicitamente se a lui veniva richiesto di correre «Certo, con Guidolin facevamo il pressing offensivo, con la linea difensiva alta e io dovevo pressare in avanti. Bisognava correre tanto». Zauli non è d’accordo neanche con l’idea che oggi si corra troppo e che il calcio sia sempre meno ragionato: «No, il calcio è sempre più studiato. I calciatori ormai giocano per come si allenano. Devono giocare a una certa velocità e il dovere di uno staff è di allenarli a quella velocità, sennò non ci si può arrivare. C’è un adattamento delle giocate». Secondo lui, la differenza nel livello dei giocatori non la fanno né la dimensione fisica né quella tecnica: «La fisicità c’è ovunque. La differenza tra le categorie la fa la lettura delle giocate».
Le idee che ci formiamo su questi giocatori di nicchia della nostra infanzia (in un vecchio articolo Condò aveva paragonato il culto di Zauli a “un film birmano”), senza il supporto di video approfonditi, difficilmente sono più definiti di piccoli bozzetti onirici. È difficile farsi un’idea più precisa del loro stile di gioco. Per questo spesso la via più nobile per raccontarli non è sforzarsi verso l’oggettività ma arrendersi ad esaltare la vaghezza lirica della nostalgia. Ma è triste non poter avere un archivio più esteso delle giocate di Zauli, perché dai frammenti che possono essere raccolti su di lui se ne può intuire un’unicità che sarebbe bello ricostruire.
Come faremo a conservare una memoria di questi giocatori tra vent’anni? Come farò raccontare a mio nipote la classe anomala di Lamberto Zauli cercando di convincerlo di non essere pazzo? Anche in questo gol l’altezza del punto d’impatto col pallone è assurda.
Provando ad andare più a fondo delle sue compilation di gol, viene quasi da pensare a Zauli non come all’ultimo residuo di una specie di talento estinto, che rimpiangiamo come il colore delle vecchie polaroid, ma invece a un giocatore in anticipo sui tempi, almeno sotto certi aspetti. Se oggi siamo abituati a trequartisti molto alti e fisici (Fellaini, ma soprattutto a Paul Pogba) due decenni fa un giocatore come Zauli era un unicum, come lui stesso mi conferma: «Quando giocavo io era particolare il fatto che ero rapido di piede pur essendo alto 1,90. Oggi è meno atipico».
Zauli veniva usato come trequartista anche per sfruttarne la fisicità nella zona centrale del campo: per ripulire le palle sporche negli spazi più congestionati, ma anche per attaccare l’area con la sua altezza. «Io avevo una qualità importante: la protezione della palla. La mole me lo permetteva e non ero velocissimo. Tanto che Ulivieri diceva sempre: “A Zauli dagliela anche se c’ha l’uomo attaccato” perché ero bravo con le braccia a difendere la palla».
Quando gli ho chiesto se la sua stazza sia stata un vantaggio o uno svantaggio mi dà una risposta pragmatica, che però contiene il processo fatto per far coincidere in minima parte il proprio fisico con la propria tecnica: «Non lo so, mi sono adattato».Zauli cambiava il contesto, portava i propri marcatori in uno spazio e in un tempo di gioco in cui contavano solo spallate, sterzate e tocchi di suola.
Del 10 classico Zauli aveva senz’altro l’istinto alla rifinitura e la sensibilità nell’esecuzione. Si può apprezzare in questo lancio di piatto per Cruz, alle spalle della difesa del Chievo, ma anche in questa verticalizzazione anticipata per premiare il taglio dell’esterno. Mi spiega che un’altra sua grande qualità era la cerebralità: «Io in campo era uno che pensava» che è una delle poche frasi che pronuncia con un certo ego. «Il giocatore deve pensare, non deve solo eseguire gli ordini: deve leggere le situazioni. È questo che fa la differenza di categoria».
Anche nelle azioni e nei momenti più concitati, Zauli riusciva a trovare una lucidità beffarda per fare la scelta più logica, le sue giocate decisive realizzate appena dopo una caduta sono un genere letterario: ecco uno “scavetto” in area ed ecco un cross vincente dopo uno scivolone da calcio saponato. Per questo era maestro della giocata più cerebrale del calcio, perché una delle più contro-intuitive, ovvero il pallonetto al portiere.«È una cosa che mi veniva naturale. Quando arrivavo al limite dell’area guardavo spesso il portiere: la devi pensare prima di farla perché il portiere ha sempre in testa di chiuderti lo specchio».
Zauli ha giocato con tanti centravanti forti, da quanto mi dice Julio Cruz, “El Jardinero”, insieme a Luca Toni sono stati i più forti: i più bravi a fare i movimenti, a dettare i passaggi: «È la punta che deve chiedere l’ultimo passaggio e che valorizza la mia rifinitura». Zauli non ha mai segnato molto in carriera, mai più di 6 gol in una stagione e questo, confessa, è stato un problema per la sua carriera: «Era un mio difetto. Avevo il piacere di dare l’ultimo passaggio, che a volte provavo anche in maniera forzata, piuttosto che tirare in porta» e quando dice “piacere” ci sono delle sfumature di gusto profonde nella sua voce, che in parte restituiscono l’idea di come lo ricordiamo. Zauli l’esteta: «Era l’istinto: guardavo più il compagno che la porta. Era un mio difetto: io facevo la C2 o la A non faceva differenza, facevo sempre 6 gol». Un difetto che Ulivieri ha anche provato a correggergli: «Mi diceva sempre: “allargati e vai dentro”, ma io in area non ci andavo, preferivo restare dietro a guardare i movimenti dei compagni».
E se Zauli fosse arrivato tardi al grande calcio proprio a causa della sua originalità? Come se la Seria A in quel momento non fosse capace di capire davvero i vantaggi oggettivi di usare un trequartista così fisico e tecnico.
Arrivato tardi
Non è una teoria così assurda. Era difficile prendere Zauli sul serio, quasi tutto quello che faceva era nell’ordine dell’inaspettato e abbiamo continuato a stupirci del suo talento finché non si è ritirato. Molti però hanno ipotizzato che fosse arrivato tardi a causa della sua origine borghese, un’interpretazione che tempo fa respingeva: «La cosa che mi fa rabbia è sentire che sono esploso tardi perché sto bene di famiglia. Ora gli addetti ai lavori dicono che ho messo la testa a posto, che ho trovato continuità. È vero che ho un rendimento più costante, ma io sono sempre stato serissimo. Forse questa è una loro scusa per non avermi scoperto prima».
Oggi, invece, ammette un problema di agonismo: «C’entra il fatto che non venivo da un settore giovanile importante. Sono cresciuto nel Modena, ho fatto la gavetta ma nei primi anni non ho messo la cattiveria agonistica massima, quindi ho perso qualche stagione». Ad inizio carriera Zauli ha giocato con Modena, Ravenna e Crevalcore, ma il percorso lento forse non è stato necessariamente un bene, provando a interpretare quello che mi dice: «Ho fatto sempre la Serie C al vertice, magari mi ero seduto, ma tutti fanno il loro percorso particolare: oggi, per esempio, Lapadula a 26 anni è stato pagato 9 milioni di euro».
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Il Ravenna gioca la migliore B della sua storia e dopo quell’anno Guidolin chiama Zauli al Vicenza, in A. Lo aveva allenato a Ravenna nel 1993-94, quando Zauli aveva 22 anni e in squadra c’era anche “Bobo” Vieri. Arriva per 800 milioni ed è un momento di svolta anche dal punto di vista tattico, visto che fino a quel momento aveva giocato largo a sinistra: «Da ragazzo si faceva sempre il 4-4-2, mancavano giocatori offensivi e quello che giocava esterno sinistro era una mezzapunta che rientrava dentro il campo. Guidolin mi mise dietro la punta».
Quando gli chiedo qual è stato l’insegnamento più importante di Guidolin mi ha risposto: «Convincere ogni giocatore, anche quelli offensivi come ero io, di giocare per la squadra. A prescindere da un movimento. Ti insegna la cultura di metterti al servizio della squadra».
Nonostante tendiamo ad associare Zauli a un’epoca aurea del numero “10”, in quegli anni il ruolo di trequartista centrale - se è questo che intendiamo per “numero 10” - era raro. Del Piero giocava seconda punta; Totti addirittura attaccante esterno nel 4-3-3 di Zeman; l’unico esempio di trequartista centrale puro era Zinedine Zidane, a cui infatti Zauli veniva continuamente associato: «Per il Vicenza Zauli in quella posizione è importante come Zidane per la Juve» ha dichiarato Colomba. Al punto che non è così sbagliato pensare che l’arrivo tardivo di Zauli in Serie A abbia anche motivazioni tattiche: il ruolo in cui avrebbe espresso il proprio gioco migliore non era ancora stato riaccettato dall’integralismo del 4-4-2.
La saga di Vicenza
L’anno prima il Vicenza aveva vinto incredibilmente la Coppa Italia, in finale contro il Napoli, e nel 1997-98 deve giocare la Coppa delle Coppe, che è la vetrina in cui Zauli si mette in mostra insieme ad altri talenti: Gabriele Ambrosetti , Massimo Ambrosini e Pasquale Luiso, capocannoniere di quella competizione davanti a Gianluca Vialli. «Quello della Coppa delle Coppe è stata la mia annata migliore» mi ha detto.
Ad inizio stagione gli viene preferito Arturo Di Napoli, ed è solo nel girone di ritorno che Zauli inizia a giocare con più continuità. Al Menti, in una partita contro la Sampdoria inaugurata da un gol di esterno di Veron, Zauli segna il primo gol in Serie A, su cross di Schenardi, agganciando al volo - e in quel modo per certi versi inspiegabile molto Lamberto Zauli - in anticipo sul difensore.Il telecronista definisce il tiro di Zauli “Fantastico, circense”.
Il Vicenza arriva in semifinale di Coppa delle Coppe e le partite di andata e ritorno possono essere considerate l’apogeo della carriera di Lamberto Zauli, che in quel momento ha 27 anni e un talento che sembra all’altezza di un contesto a cui non apparterrà mai davvero. Quelle due partite di Zauli brillano di una bellezza effimera, anche perché sono le uniche sue due prestazioni che possono essere riguardate più o meno per intero.
Zauli dopo un quarto d’ora taglia in area dal centro verso sinistra. Gli arriva un lancio lento e alto di Viviani, estende la gamba a un’altezza inverosimile ed esegue un controllo con dribbling a rientrare talmente magico che la palla sembra sparire per un attimo. Quando ricompare, al centro dell’area, Zauli riesce ancora ad anticipare Leboeuf col destro, che usa poi come perno per incrociare la conclusione col sinistro. Sembra davvero un elefante che fa pattinaggio artistico sul ghiaccio.
«Ho sentito il difensore arrivare, volevo rientrare per calciare, poi con lo stop l’ho saltato ma non è stato volontario. Eravamo in area e il difensore fatica ad andare sull’uomo. Nonostante l’altezza sono stato veloce a ricoordinarmi per tirare. Nonostante fossi alto ero abbastanza elastico». È un tipo di giocata nata da un’alchimia quasi unica tra doti atletiche e tecniche, a cui i super-giocatori di oggi - tipo Pogba e i suoi stop da ballerina di can-can - ci hanno abituato, ma che negli anni ’90 doveva sembrare lo skateboard in Ritorno al Futuro. In quest'azione possiamo ammirare la contrapposizione tra l’eleganza apollinea dello stop e l’astuzia arrangiata della conclusione.
Il Vicenza vince per 1 a 0, e nel ritorno, dopo mezz’ora, Zauli ha già servito un altro assist vincente. Riceve una sponda sulla trequarti, controlla di petto e fa una “pausa” come per lasciarsi accerchiare, poi, quando ha tre giocatori ed è ancora girato in orizzontale, sterza improvvisamente verso la porta, ribaltando il piano inclinato del campo. Nel frattempo tre giocatori biancorossi hanno attaccato la profondità, e Zauli “scucchiaia” con quella parte del piede - tra collo ed esterno - che appartiene solo ai trequartisti.
Luiso incrocia il tiro e zittisce Stamford Bridge.
Proprio nel momento in cui cominciavamo ad accettare una realtà in cui il Vicenza può dominare il Chelsea in un doppio confronto europeo, i “blues” segnano 3 gol, rimontano, vanno in finale, vincono la coppa. Mentre il Vicenza pensa a salvarsi, e l’anno dopo addirittura retrocede. L’ordine delle cose torna al suo posto, finisce forse quel momento in cui il nostro dominio europeo era quasi sboccato.
A riguardarle oggi, quelle due partite col Chelsea, fa tristezza pensare che siano state le prime e uniche due partite ad alto livello di Zauli. Non è del tutto chiaro come sia possibile che dopo un’annata così positiva nessuna squadra di primo livello abbia investito su di lui. Ovviamente glielo chiedo: «Alla fine di quell’anno sembrava dovessi passare all’Inter. Mi aveva chiamato il figlio di Moggi… insomma, c’erano dei segnali. Poi sono rimasto a Vicenza».
Animale esotico
Sarebbe ingiusto in realtà dire che la carriera di Zauli si sia fermata lì, perché in seguito ha giocato diverse annate di alto livello in Serie A. Però, se andate a riguardare gli archivi di Gazzetta quell’anno, Zauli entrava negli stessi discorsi di Totti, Nesta, Pirlo e Zambrotta. Insomma, in quel momento sembrava poter vivere una carriera di primo livello, mentre in seguito si è costruito una carriera di culto, da animale esotico della provincia italiana.
Dopo altre due stagioni al Vicenza, non particolarmente esaltanti, Zauli va al Bologna, sempre chiamato da Guidolin. Gioca un’altra ottima stagione, in cui segna 6 gol e i rossoblù arrivano settimi qualificandosi per l’Intertoto. Nel 2002 viene comprato da Zamparini in Serie B al Palermo per formare lo squadrone che sarebbe salito subito in Serie A, componendo con Luca Toni una coppia di freak unica. «Vi ho comprato lo Zidane della B» proclamò Zamparini.
Quando il Palermo arriva l’anno dopo in Serie A gioca la prima esterna a San Siro. All’inizio del secondo tempo, con l’Inter in vantaggio, Zauli passa in mezzo a tre difensori avversari e, dando sempre l’impressione di cadere, serve l’assist per Luca Toni.Le azioni in cui Zauli sembra controllare il pallone solo per evitare di inciamparci sopra, stregando i difensori.
Zauli dice di aver a casa incorniciata la foto del Palermo prima di quella partita: «C’erano: Toni, Barzagli, Barone, Zaccardo, Grosso. Di undici cinque hanno vinto i mondiali, una squadra che era appena stata promossa».
Quasi tutti loro dopo quella stagione, o dopo il mondiale, sono andati in una grande squadra. Zauli invece nel 2004, al Palermo, aveva già 33 anni, nonostante fosse appena alla sua quinta stagione in Serie A. È andato alla Sampdoria, dove ha ritrovato il 4-4-2 di Novellino e non ha visto il campo: «Giocava ancora col 4-4-2 e io non avevo più l’età per fare la fascia»; e poi ha chiuso la carriera nelle serie minori. Scrivendo l’articolo mi sono chiesto se non stessimo esagerando con la categoria dell’“incompiutezza”, del talento sprecato, dei what if. Probabilmente però non è solo per l’idea di un potenziale inespresso che ha reso Zauli un’icona assoluta della nostalgia, ma anche il fatto di non essere mai stato in una grande squadra, che gli ha concesso una strana forma di verginità. Non andando in grandi squadre non ha corrotto la propria immagine né con la tristezza del fallimento né col rancore e l’invidia del successo.
Mentre noi tentiamo di mantenere l’immagine di Zauli calciatore più intatta possibile, la sua vita prosegue. Ha deciso di non rinnovare con il Santarcangelo mentre ha accettato l’offerta del Teramo (era loro quella telefonata?) che, come si dice in un gergo molto da calcio di provincia, “gli ha fatto la squadra per salire”. Il 16 settembre, poche settimane dopo l’intervista, dopo 1 punto in 4 partite, Zauli è stato esonerato.
Verso la fine dell’intervista gli avevo chiesto perché, secondo lui, è ancora così amato. Mi ha detto una cosa a cui non avevo mai fatto caso: «Ho avuto la fortuna di giocare sempre nei periodi d’oro delle squadre in cui andavo. Nel Vicenza della Coppa delle Coppe; nel Bologna arrivato quasi in Coppa Uefa; nel Palermo arrivato in Europa subito dopo la promozione in Serie A. I tifosi di queste squadre sono molto legati a quei periodi, e quindi sono legati a me che vengo ricordato con affetto. Sono stato molto fortunato».