
Il professor Faroldi è direttore al Master in Sport Design and Management del Politecnico di Milano e al POLIMI Graduate School of Management. Questo è un articolo sponsorizzato.
Il calcio del 2024 è sempre più digitale e meno fisico, frammentato al suo interno da squilibri finanziari estremi. In questo contesto gli stadi rimangono unico caposaldo tangibile dell’identità dei tifosi e del loro legame con i club, ma sono anche oggetti in evoluzione, difficili da gestire, che segnano le città e il loro futuro urbano.
In Italia, in particolare, il tema dei nuovi stadi e/o del destino di quelli esistenti viene troppo spesso presentato al pubblico in modo superficiale. I media sportivi riducono l’argomento alla banalità di una scelta fra giusto (stadio a favore del club) e sbagliato (qualunque tipo di ostacolo progettuale o burocratico), in un meccanismo di notizia a uso e consumo dei tifosi. La comunicazione specializzata, invece, non fa breccia tra il grande pubblico perché quasi mai coinvolta e valorizzata come “voce competente” di approfondimento parallelo.
I pochi investimenti, la mancanza di programmazione a lungo termine del sistema-calcio, il dibattito mediatico che prende derive spesso confusionarie e una tendenza alla conservazione culturalmente radicata e forse troppo estrema, completano il quadro di un parco impiantistico italiano ormai fermo su sé stesso da almeno trent’anni.
Per comprendere queste dinamiche e capire come in Italia si possa fare finalmente un salto culturale decisivo nel considerare questo tema e affrontarlo con efficacia, abbiamo incontrato Emilio Faroldi (Architetto e Rettore Vicario del Politecnico di Milano)direttore del Master in Sport Design and Management di POLIMI Graduate School of Management, business school del Politecnico di Milano, e autore di libri fondamentali sul tema dell’impiantistica sportiva, fra cui “Progettare uno stadio. Architettura Costruzione Gestione” (Maggioli Ed., 2022).
Prof. Faroldi, in che momento ci troviamo per la progettazione degli stadi?
Siamo certamente in una fase che guarda al futuro sul piano tecnologico e considera l’integrazione dello stadio con la città e con le necessità della popolazione come un risvolto cruciale dal punto di vista dell’uso. È il passo successivo a quello post-1990, che rappresentò la nascita dello stadio di calcio contemporaneo come siamo ormai abituati a conoscerlo oggi (ma che all’epoca era ancora focalizzato solo sull’evento sportivo), e ci sta mostrando nuovi impianti maggiormente interconnessi con le città in cui viviamo, fin dalla loro pianificazione.
Quello che serve oggi è avere una considerazione più ampia di questo edificio, che non può riferirsi solo alla partita settimanale ma che va nella direzione di un luogo davvero al servizio degli abitanti.
E in Italia?
In Italia abbiamo stadi molto obsoleti, lo sappiamo. Se l’età media dei nostri impianti è di circa 60-70 anni, alcuni sono stati costruiti addirittura negli anni ‘30 e si avvicinano al secolo di vita.
Per contro, la fortuna è che la loro posizione originale, un tempo all’esterno dei perimetri urbani, oggi è molto spesso diventata quasi centrale con il graduale sviluppo e ampliamento delle città. Questo ci dà modo di ragionare su un’evoluzione organica di questi luoghi ma è necessario cambiare il punto di vista: bisogna innanzitutto dare valore allo sport come uno degli aspetti che arricchiscono la popolazione e forniscono benefici. Uno stadio ben progettato sarà poi la conseguenza naturale di questo approccio.
Lei è direttore del Master da quasi dieci anni. Come ha visto cambiare in questo periodo i partecipanti al corso e com’è invece cambiato il modo di affrontare l’argomento in generale?
Il Master oggi cerca di adeguarsi a un nuovo tipo di formazione che invita a ragionare sulla multidisciplinarietà attorno a un determinato tema. Sarebbe fuorviante pensare di poter trattare un certo argomento in modo mono-dimensionale, a maggior ragione se affrontiamo il ventaglio di spunti e soluzioni che ruotano intorno alla progettazione degli impianti sportivi.
Noi siamo partiti nel 2001 con corsi di formazione permanenti sulla progettazione di stadi per il calcio, e per l’epoca era un argomento molto innovativo (almeno in Italia). Poi, nel 2007 abbiamo avviato il corso di Progettazione e Gestione delle Infrastrutture Sportive (di cui sono titolare) per l’ultimo anno della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e questo ha rappresentato un’ulteriore svolta, con più di 1200 studenti che si sono avvicendati nel frequentarlo.
Infine, il Master è stata sia la conseguenza di questo percorso sia il punto più alto di come volevamo sviluppare lo studio e l’analisi di questo tema. Avviato una decina d’anni fa, oggi è denominato Sport Design and Management (attivo ogni anno accademico, da Novembre a Luglio) e credo che questo titolo racchiuda tutto: non pensiamo solo alla progettazione in senso stretto ma vogliamo formare una classe di professionisti che abbia una cultura e una preparazione tale da conoscere (e poter gestire) tutte le criticità che ruotano attorno alla realizzazione di un nuovo stadio, prima, e alla sua vita di edificio al servizio della città, poi – comprendendo quindi anche la gestione delle società che usufruiscono di quegli spazi o che ne hanno la proprietà, l’organizzazione di grandi eventi sportivi, la gestione del Match-Day, etc.

Questa e le altre foto dell'articolo raffigurano il Vélodrome di Marsiglia durante i lavori di ristrutturazione del 2013.
Anche perché di stadi in Italia si parla molto ma sempre in modo estemporaneo, legandosi alla notizia del momento. Di sviluppo dello sport e delle infrastrutture si parla molto meno.
Quando abbiamo iniziato nel 2001, il tema-stadi in Italia era “eccezionale” sia a livello mediatico che accademico. Il fatto che continui a essere un argomento poco approfondito e strutturato sia nel dibattito che nella programmazione dipende da una serie di questioni politiche e burocratiche, ma soprattutto culturali: la mancanza di visione dello sport come uno degli elementi fondanti nella vita delle persone.
Bisogna trovare la consapevolezza che lo sport oggi ha e deve avere un ruolo fondamentale nella nostra società, sia come evento a cui assistere ma anche (e questa poi è la conseguenza più forte di questo approccio) come “tempo libero”, che garantisce alle persone benessere e cultura.
Parlare solo dei grandi casi come San Siro, Roma o Firenze non è utile al dibattito vero e proprio. Il tessuto principale degli impianti sportivi italiani è fatto di almeno 100-150 stadi diffusi su città medio-piccole, che hanno una rilevanza fortissima sul territorio e per le persone. E il confronto con l’approccio degli altri Paesi ce lo conferma, dove ci sono interventi di rinnovamento su diverse scale e dimensioni e dove lo sport è considerato un ambito di crescita e sviluppo per tutti.
...e da cui dipende una programmazione migliore proprio per il rinnovamento degli spazi della città.
Infatti. Purtroppo l’Italia è un Paese molto debole nella valorizzazione dello sport. Si parte con banali pillole di “attività sportiva” offerte qui e là a bimbi e ragazzi negli anni scolastici, senza una vera organizzazione e struttura a medio termine, per arrivare poi a una copertura mediatica che si concentra su pochi macro-eventi e situazioni elitarie che non hanno un riscontro sulla pratica sportiva generale e che distorcono l’abitudine della popolazione nel considerare lo sport e l’impatto che ha sulle vite di tutti.
Se un Paese, invece, riesce a capire che lo sport è in primis benessere psico-fisico per le persone, e che non si riduce ai pochi anni di pratica agonistica professionistica - e ancor meno al nostro semplice ruolo di spettatori/tifosi - ma che va accompagnato nella pratica a tutti i livelli della singola persona e nella formazione di una sua cultura sportiva, allora quel Paese avrà fatto un enorme passo avanti sia nella progettazione degli spazi sia nella crescita complessiva a lungo termine della sua popolazione.
Su questo punto dobbiamo però constatare che lo “stadio” come argomento mediatico italiano è legato solo ai massimi sistemi, ai macro-casi della Serie A del calcio. Lo scenario del tessuto impiantistico del territorio rimane un tema totalmente scollegato e spesso in secondo piano. In realtà, invece, in un sistema organizzato e lungimirante, sarebbero due parti dello stesso campo d’intervento.
Infatti dobbiamo anche fare un salto in avanti nel modo di parlare di questi argomenti e di portarli al grande pubblico. Troppo spesso si affronta il tema di un nuovo stadio da un punto di vista soltanto oggettuale, e mai analizzando i benefici che potrebbe donare a un territorio come edificio catalizzatore di funzioni e di sviluppo. Questo convince le persone a ragionare sugli stadi come semplici macchine per lo sport, legate al club che ne ha necessità in quel momento, o peggio sfruttati come barometro del momento politico della città coinvolta.
Noi, come studiosi e di conseguenza nell’organizzazione del Master, da anni proponiamo questo cambio di paradigma. Lo stadio, e in particolare quelli di medio-grande dimensione, devono essere visti principalmente come edifici integrati che servono alla città e dove, in parallelo, una volta alla settimana si gioca una partita di calcio.
Riuscire a vedere la questione da questo punto di vista permetterà di considerare lo stadio un edificio “utile” alla città, un luogo catalizzatore di persone e lavoro, e che non deve legare il suo destino (quindi il suo uso e la sua gestione) a doppio filo soltanto al destino sportivo del singolo club.
Stadi che servono alla cittadinanza sono stadi polifunzionali, integrati tecnologicamente, ecosostenibili.
La polifunzionalità è ormai fondamentale nel concepire i nuovi stadi. In Europa abbiamo moltissimi esempi di stadi di diverse grandezze che inglobano servizi al pubblico, anagrafi, caserme dei pompieri o attività sanitarie e ambulatoriali.
E bisogna sottolineare un altro aspetto. La vicinanza al centro città è una caratteristica ormai comunemente riconosciuta come fondamentale nel valorizzare l’uso di un nuovo stadio – o nel rinnovamento di uno esistente. Come approccio progettuale globale, abbiamo superato la fase in cui si spingeva uno stadio fuori dalla città per isolarlo e trasformarlo in luogo singolo ed eccezionale – ma allo stesso tempo poco valorizzabile.
Se lo stadio deve servire alla popolazione, la sua collocazione è all’interno del tessuto urbano e questo fornisce occasione di rigenerazione di aree urbane e ripensamento di spazi che miglioreranno i luoghi in cui viviamo. Anche perché dobbiamo ormai fare i conti con necessità di risparmio nell’uso del suolo, e la rigenerazione degli edifici e degli spazi urbani è un’altra delle chiavi cruciali della progettazione contemporanea.
Quest’estate abbiamo visto gli Europei di calcio in Germania e le Olimpiadi in Francia. Due Paesi che per motivi diversi e in tempi diversi hanno rinnovato con coraggio il loro tessuto di impianti sportivi.
Globalmente, e come studiosi, negli anni abbiamo provato a tracciare un filo logico di riferimento, e sappiamo che sono esistite finora 6 generazioni di stadi, per concezione e architettura.
Francia e Germania si inseriscono nei periodi più recenti di questo sviluppo, sia per lungimiranza nella progettazione sia per necessità di ricostruzione post-bellica o di rinnovamento di un modo di vedere il calcio al servizio del pubblico.
Ma questa evoluzione continua del tessuto di impianti sportivi è visibile soprattutto nei Paesi che hanno sempre dimostrato, culturalmente, molto più coraggio (e spregiudicatezza, forse) nel rinnovare il proprio patrimonio, anche urbanistico e di edilizia civile. E dove ci sono ragionamenti coordinati di ottimizzazione nei collegamenti stadio-città, nei trasporti, nell’uso dello spazio urbano. Qui le città devono fare la loro parte, in modo consapevole e costruttivo.
Non possiamo più guardare gli stadi come edifici che dipendono dalle singole fortune di una squadra. E soprattutto non bisogna più parlarne come se la loro fattibilità fosse consegnata solo al bisogno preteso in un certo momento da una certa proprietà di un club. È anche qui che serve un cambio di paradigma, nel lavoro coordinato fra le proprietà sportive e le municipalità: l’obiettivo è realizzare un edificio utile a tutti, sul medio-lungo periodo.
La rincorsa a un “modello estero” da copiare è forse un altro dei falsi miti che ci si affanna a inseguire in Italia pur di trovare una soluzione utile.
L’Italia storicamente non ha mai abbracciato il concetto di vera integrazione antico/moderno o di completa sostituzione dell’edificio del passato, e l’attaccamento alla memoria è sempre stato un nostro modo di concepire la conservazione dell’antico come preservazione quasi museale.
Nel caso degli impianti sportivi, questo stacco mentale va invece fatto, ed è qui l’ambizione anche del Master di riuscire a formare nuovi progettisti e persone che sappiano giudicare quali porzioni di uno stadio abbiano un valore storico e testimoniale da salvare, e dove invece si possa intervenire con un rinnovamento.

Personalmente, sono convinto che dopo la completa demolizione e ricostruzione di Wembley questo sia un argomento ormai sdoganato, che ha liberato la mano dei progettisti.
Nel momento stesso in cui un edificio di quelle proporzioni - che era anche il luogo sportivo più importante e iconico al mondo a livello concettuale - sia stato ricostruito da zero per una serie di necessità sia tecniche che di redditività, allora è chiaro che la strada del rinnovamento è percorribile senza timore, e non ce lo dimostrano solo l’Inghilterra o la Francia ma anche la Spagna (con progetti anche su realtà medio-piccole) o la Turchia e la Polonia, che negli ultimi anni stanno rinnovando in modo graduale tutto il loro tessuto di stadi.
Viene da chiedersi perché l’Italia sia ancora ferma, però, soprattutto in rapporto all’enorme connotazione storica del calcio nella cultura del Paese, e anche alla variegata esperienza architettonica che ci portiamo dietro.
Questa è una giusta osservazione. È paradossale che con i tanti imprenditori che sono stati protagonisti per decenni del calcio italiano mai nessuno si sia davvero preso “il rischio” di investire sullo stadio dei propri club. Al contrario, la visione è sempre stata a breve termine, sul risultato sportivo nell’immediato, e mai sullo sviluppo futuro del club a 360°. E questo lo abbiamo visto anche per i centri sportivi, mai davvero considerati e solo molto recentemente inseriti in un percorso di rinnovamento ancora puntuale e non del tutto “a sistema”.
Ma il tessuto italiano è fatto dei tanti stadi cosiddetti “di provincia”, che danno la cifra del tipo di gestione del nostro Paese, e anche ragionare sul dimensionamento dei nuovi stadi diventa una chiave, dove ci vuole programmazione, lungimiranza. Va fatto in coerenza con il territorio e con le necessità locali, che forse da nessun’altra parte come in Italia sono fortemente peculiari a seconda della zona in cui ci troviamo.
Si dice che sia meglio una persona che rimane fuori dallo stadio piuttosto che un posto vuoto, ed è sostanzialmente vero oggi soprattutto in un mondo del calcio costretto a ripensare il modo in cui si offre al pubblico, con ragazzi/tifosi che sono sì la nuova generazione di appassionati ma che allo stesso tempo sembrano dimostrare (almeno in media) una capacità di attenzione più breve rispetto alle generazioni del passato.
Quindi lo stadio è solo l’apice di quanto è ben strutturato un club. Non va visto come il primo tassello che miracolosamente regalerà al club tutto il resto.
E c’è poi un problema di lunga burocrazia o, per meglio dire, iter progettuali dove ogni parte in causa sembra punti a prevaricare sull’altra, invece di lavorare tutti insieme per un bene comune.
Come accennavamo prima, fare bene uno stadio per avere una ricaduta positiva sui cittadini dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le parti in causa, quindi anche loro responsabilità.
Di recente nel calcio italiano sono entrate proprietà straniere, con molte idee e ambizioni ma anche loro hanno finito per bloccarsi di fronte agli iter progettuali farraginosi e pieni di ostacoli.
Quando tre anni fa furono presentate le due proposte di progetto per il nuovo stadio di Milano, al di là dell’affascinante dibattito sul gusto soggettivo delle due varianti, era difficile immaginare che oggi ci saremmo trovati in un infinito tira e molla dove chi detiene la proprietà di San Siro non vorrebbe più farsi carico di quella gestione ma allo stesso tempo non si è ancora deciso se abbia senso ristrutturarlo o demolirlo, e in parallelo i club fanno il giro dell’hinterland cittadino alla ricerca di aree utili edificabili.
Se la domanda è “Quanto tempo ci metterò per fare un nuovo stadio?” e la risposta è “Non lo so” perché l’iter passa da un centinaio di fattori diversi e ognuno di questi può farlo ripartire da capo in qualunque momento, allora l’investitore non correrà mai un rischio di tali proporzioni.
[Prova ne è che i progetti portati avanti e realizzati negli ultimi anni in Italia sono tutti la conseguenza di una municipalità che mette in mano ai club gli stadi o i luoghi presi in esame, e accompagna l’iter in modo costruttivo. E sono quelle situazioni dove i club hanno avuto un’idea solida fin dall’inizio e proposto progetti con una forte ricaduta positiva sul territorio a lungo termine (qualche esempio: il nuovo stadio della Juventus, l’ampia e virtuosa ristrutturazione di quelli di Udinese e Atalanta, l’ammodernamento a tappe dello stadio del Monza, la costruzione del nuovo centro sportivo della Fiorentina. nda]
È come se in Italia ci fosse un’impasse “di approccio culturale” che all’estero non vediamo. L’obiettivo del Master diventa anche quello di smarcarsi da questo modo di ragionare molto selettivo e rigido?
Oggi la progettazione di uno stadio non chiama solo in causa architetti e ingegneri, ma è una grande questione urbanistica, di sostenibilità e di efficientamento energetico. Uno stadio deve avere un piano finanziario a medio termine, ha implicazioni sul territorio, può avere risvolti legati ai Beni Culturali e a eventuali vincoli da rispettare o da valutare. Per analizzare (e per parlare di) tutto questo serve un’apertura mentale nuova, moderna, connotata da diverse discipline, sia tecniche che umanistiche.

Il Master è organizzato in diversi moduli che sono indipendenti fra loro ma si intrecciano grazie alle competenze dei circa 180 docenti che coinvolgiamo annualmente (oltre ai rapporti di collaborazione con club professionistici ed enti sportivi nazionali). È quella multidisciplinarietà a cui accennavamo prima che poi è propria dell’architettura: dall’arte all’urbanistica, dalla tecnologia alla conoscenza dei regolamenti legislativi, dallo sport (che è il riferimento principale) ai cambiamenti sociali e culturali della popolazione.
E infatti al Master abbiamo studenti sia al I che al II livello che arrivano dalle discipline più varie: architettura, giurisprudenza, economia, scienze motorie. Questo contaminarsi del sapere di ognuno di loro e dei docenti che coinvolgiamo, ci permette di formare una nuova rete di professionisti che sia consapevole dell’importanza dello sport per lo sviluppo delle aree delle nostre città.
Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni?
Oggi la letteratura ci dice che uno stadio deve durare idealmente 35-40 anni. È un ciclo di vita, dopo il quale per motivi diversi l’impianto può essere ripensato, modificato. Ma quando i tuoi stadi hanno un’età media di 70 anni se non di più, in linea generale non ti devi nemmeno porre il dubbio. Il rinnovamento è imperativo e solo rarissimi casi specifici ti metteranno di fronte a una valutazione di parziale conservazione architettonica.
Mi auguro che anche nel nostro Paese si riesca a comprendere l’importanza dello sport e dei luoghi dello sport con un approccio organizzato e messo a sistema. Quando si decide di costruire un nuovo stadio è ovvio che si vada a scontentare qualcuno ma questo succede a tutti i livelli della progettazione, anche quando si inserisce una panchina in un parco pubblico…! La cosa fondamentale è che i soggetti protagonisti capiscano che questi luoghi fanno il bene delle città, e di conseguenza riescano a portare un dibattito sano e un iter progettuale efficace.
Se riuscissimo a concretizzare 5-10 progetti che già sono in partenza o in attesa, questo darebbe un grande slancio a tutto il movimento e traccerebbe una strada da seguire [e non solo per il calcio, perché in Italia c’è un’enorme necessità di rinnovamento di impianti e spazi sportivi anche per tutti gli altri sport e le discipline cosiddette minori, nda].
L’arch. Vittorio Gregotti, che firmò il progetto di trasformazione del Ferraris di Genova (e gli stadi per il calcio in Francia e in Marocco) diceva di sé stesso: «Non sono un tifoso di calcio ma so che per la progettazione di uno stadio la chiave fondamentale è il rapporto con il contesto». Per contro, Sir Norman Foster, architetto autore del nuovo Wembley, ci propose una visione più opportunistica, accomunando l’idea di quel progetto alle necessità di un Boeing 747, dove i ricavi del 20% dei posti élite garantiscono la sostenibilità dell’intero velivolo. Se il secondo approccio è sempre più attuale nel calcio-business, la connessione con il contesto locale rimane la chiave per il nostro Paese?
Senza dubbio. E questi due approcci potranno coesistere ma in Italia dobbiamo fare leva soprattutto sull’unicità dei nostri luoghi.
Abbiamo citato Wembley - quindi Londra e il suo modo di rinnovarsi quasi estremo. C’è il sistema tedesco, potremmo guardare Madrid con il progetto del nuovo Bernabéu e il coraggio di cambiare che ha avuto l’Atlético, o l’evoluzione architettonica del Vélodrome di Marsiglia negli ultimi 30 anni, e il modello francese in generale: dappertutto vediamo un rinnovamento, una sostituzione con qualcosa di nuovo. La bellezza della storia deriva proprio dal continuo ricambio culturale che ha accompagnato ogni epoca, e non dobbiamo pensare che rinunciare a qualcosa di esistente sia una sconfitta. Ecco perché è fondamentale formare professionisti capaci di valutare se il valore architettonico va preservato oppure se uno stadio è sacrificabile nel nome di un passaggio di sviluppo per lo sport e per quella città.
Il lavoro che facciamo con il Master punta a ricollocare il valore dello sport anche come volano economico di importanza primaria: è un tema importante perché attraverso un’istruzione di eccellenza si costruiscono professionalità e si sviluppa un modo di pensare e fare le cose nuovo, moderno, dinamico.
In Italia l’incredibile varietà artistica e naturale dei diversi contesti locali lungo la Penisola è la forza che dobbiamo sfruttare senza mezzi termini. Sempre di più il tifoso deciderà di andare a vedere una partita a Venezia, a Como, a Firenze, a Lecce o dove preferite, perché prenderà quel pacchetto “città+stadio” come stimolo principale. Realizzare stadi davvero simbolici per questi luoghi, renderli visitabili, inserirli in un sistema culturale, valorizzarli come oggetti della città.
Il valore del nostro Paese, sia in architettura che nell’identità sportiva e dei tifosi è questo, è legato alla forza dei luoghi e alla diversità locale. I nuovi stadi che dobbiamo realizzare devono nascere sotto questi presupposti, seguendoli, e appartenere al contesto in cui si trovano, valorizzandolo ancora di più.
Cos'è il Master in Sport Design and Management (Progettazione e Gestione dello Sport)
Il Master è un riferimento di eccellenza nel panorama nazionale e internazionale dell’industria dello sport. Unisce in un programma unico l’esperienza nel design del Politecnico di Milano e quella nel management di POLIMI Graduate School of Management, offrendo agli studenti un’esperienza formativa completa e proponendosi di formare professionisti in grado di operare con successo nell’ambito della ideazione, pianificazione, progettazione, costruzione e gestione delle infrastrutture sportive, degli spazi pubblici per lo sport in generale e dei luoghi dello sport diffuso e delle società che vi operano, secondo logiche e competenze trasversali e multidisciplinari.
L’offerta formativa (sia in italiano che in inglese) è composta da lezioni frontali in presenza con più di 150 relatori di prestigio nazionale e internazionale, lezioni a distanza, workshop, match-day, site-visit di impianti sportivi, viaggi studio, e possibilità di svolgere stage presso importanti realtà legate al mondo dello sport in tutti i suoi aspetti.
Il Progetto Formativo
Il Master in Sport Design and Management è organizzato dal Politecnico di Milano in collaborazione con POLIMI Graduate School of Management e in sinergia con le maggiori istituzioni dello sport italiano: CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio), ICS (Istituto per il Credito Sportivo) e Lega Serie A.
Requisiti di Ammissione
Sono ammessi candidati in possesso di Laurea Triennale (I livello) o Laurea Magistrale/Specialistica (II livello) in Architettura, Ingegneria, Design, Scienze Politiche e del Turismo, Giurisprudenza, Economia, Scienze Motoriee discipline affini. Saranno considerati validi titoli esteri equivalenti nei rispettivi ordinamenti di studio.
Sede delle lezioni
Politecnico di Milano, nel rinnovato Campus Leonardo (piazza Leonardo da Vinci 32, 20133 Milano).
Durata delle lezioni
Ogni anno, da novembre a ottobre.
Tutte le informazioni qui.