La categoria del giocatore più fumoso è forse la più ambigua degli Ultimo Uomo Awards. È difficile definire con precisione cosa sia un calciatore fumoso, eppure tutti hanno un’idea abbastanza chiara di che cosa si intenda. Cioè: un giocatore che, nel modo in cui sta in campo, ha creato una forte scollatura tra ciò che è e ciò che appare.
Messa in questi termini generali un giocatore fumoso è una bugia, una promessa non mantenuta, una perenne illusione di efficacia disilllusa. Per dirla con un’espressione che ha a che fare con questo universo semantico: un venditore di fumo.
Dentro questa idea generale, un calciatore può essere però fumoso in tanti modi diversi. Può essere fumoso, ad esempio, un giocatore appariscente, per la sensibilità con cui tocca il pallone o per l’esuberanza fisica, ma che poi, alla fine dei conti, produce poco. Oppure può essere fumoso un giocatore meccanico, che gioca un calcio iterativo, fatto della ripetizione di pochi gesti troppo ambiziosi. Questa visione è spesso dominante nella votazione degli Ultimo Uomo Awards, un premio vinto da Antonio Candreva nelle ultime due edizioni e che potrebbe quasi prendere il suo nome per quanto gloriosamente l’ala dell’Inter incarna le caratteristiche di un giocatore fumoso: i mancati passaggi ai compagni, le corse a vuoto, le valanghe di cross. Tutto il gioco di Candreva è un grande monumento all’inconcludenza.
Anche quest’anno i suoi numeri sui cross sono spaventosi: 10.1 ogni novanta minuti, di cui 8 sbagliati, appena 1 in meno in media rispetto allo scorso. Praticamente una macchina lanciapalle sulla fascia destra dell’Inter. Candreva sembrava poter vincere questo premio per sempre, forse anche perché in tempi di minimalismo e di “smart culture” la nostra sensibilità verso giocatori così fumosi è più alta che mai. Ma quest’anno qualcuno è riuscito a insidiare il suo dominio sulla nostra insofferenza allo spreco. Domenico Berardi ha vissuto la peggior stagione della sua carriera, arrivando forse al punto più basso del suo percorso involutivo.
Sempre peggio.
A fronte di questo numeri pietosi, però, Berardi ha aumentato i suoi tentativi, come quegli artisti stanchi che incidono più dischi per non arrendersi alla fine delle loro idee. Ha provato due tiri in più ogni 90 minuti rispetto allo scorso anno, quasi sempre partendo da destra e rientrando sul sinistro, come se giocasse su un binario immaginario. Qualche anno fa aveva mostrato tanti possibili margini di miglioramento nei suoi movimenti senza palla, nei suoi attacchi al lato debole. Sarebbe potuto diventare un grande finalizzatore ombra, cioè una seconda punta molto prolifica (come Callejon, per intenderci), e invece ha finito per adagiarsi sulla versione più pigra di sé, quella di un’ala che rientra verso l’interno per tirare.
Berardi in realtà è solo il nono giocatore della Serie A per quantità di tiri ogni ’90 (fra quelli che hanno giocato almeno 2000 minuti), ma la sua percentuale di conversione è tristissima: ha bisogno di più di 21 tiri per fare gol, nessuno peggio di lui. Come faceva notare Flavio Fusi in un pezzo di qualche mese fa, la sua efficienza sotto porta è letteralmente crollata.
Questo aspetto, più di ogni altro, ha fatto vincere Berardi su altri maestri di fumosità: Perotti, con le sue meravigliose e inutili sgroppate sulla fascia; Cerci, che viene candidato nelle categorie negative d’ufficio; Andrè Silva, che ha dimostrato un’ascesi quasi zen nel non concludere assolutamente nulla in campo (dopo un arrivo in pompa magna). Berardi è sembrato più fumoso di tutti loro forse perché lo spreco dei palloni è sembrata una grande metafora della dissoluzione del suo talento. A 24 anni Berardi avrebbe dovuto essere la stella dell’Italia ai Mondiali, invece è ancora a Sassuolo a svirgolare tiri verso le tribune vuote.
Berardi impegnato in un’esultanza antipatica con Politano, che quest’anno gli ha rubato la scena.
Il rientro da destra sul sinistro e il tiro sul palo lontano è comunque la signature move di Berardi, il modo con cui ci ha mostrato la sua eccezionalità nei campionati scorsi, quando Sacchi era arrivato a definirlo “un giocatore totale”. I suoi tiri però col tempo sono sembrati sempre più spuntati, i suoi primi passi sempre più pesanti.
Adesso Berardi sembra solo un mitomane, nel senso che descrive la Treccani di “persona che vive in una realtà fittizia”, in cui i suoi tiri a giro dovrebbero sempre infilarsi nel sette lontano. Berardi sembra uno di quegli oggetti alla deriva che hanno perso la loro forma originaria, diventando relitti, un palloncino sgonfio, una scarpa rotta, un pupazzetto buttato per strada. Le sue corse da destra a sinistra, i suoi mancati passaggi ai compagni, i suoi tiri fuori equilibrio, sono rimasti come testimonianza che l’idea che Berardi ha di sé ormai non corrisponde più a quella che tutti noi possiamo vedere.
Per questo c’è una grande malinconia nella figura del calciatore fumoso, quella di chi vede le proprie ambizioni infrangersi su una realtà grigia. Solo che nessuno è pronto a concedere compassionea Berardi: ora che la sua antipatia non è neanche giustificata dal suo talento tutti possono odiarlo senza censure. Forse è anche per questo che Berardi quest’anno è riuscito a vincere questo premio, superando la “linea Cerci”, quella per cui le prestazioni non bastano più per giustificare il fatto di avercela col mondo. Come Cerci, Berardi sembra non far niente per voler piacere a qualcuno. Le sue interviste e i suoi sorrisi sono più rari dei suoi passaggi e sembra esprimere se stesso solo nei brutti gesti in campo.
Anche quest’anno si è guadagnato ormai la sua ormai rituale espulsione, alla ventiseiesima giornata, contro la Lazio, quando è entrato in ritardo su Radu dopo essersi allungato palla. Dopo l’intervento Berardi chiede subito scusa, con le braccia alzate, conscio del suo errore. Non sarebbe neanche un fallo così brutto ma la sua reputazione ormai lo condanna.
Il suo gol alla penultima giornata contro l’Inter, quando ha dribblato Skriniar verso l’interno e tirato col destro all’incrocio dei pali, è suonato quasi come una provocazione. La sua personale dimostrazione che il suo talento è ancora capace di assoli grandiosi. Per la prima volta da quando è al Sassuolo, Berardi sembra dover rimanere in una squadra di provincia semplicemente perché non avrà altra scelta.
Roberto Mancini nel frattempo lo ha incluso nelle sue prime convocazioni in Nazionale, forse per provare a spezzare l’incantesimo, per convincere tutti che il talento di Domenico Berardi non può essersi esaurito ad appena 24 anni. Staremo a vedere, magari l'anno prossimo lo troviamo in lizza per qualche premio "positivo", non si sa mai.