In un presente parallelo a quello che stiamo vivendo, Milinkovic-Savic avrebbe potuto essere il trequartista del 3-3-1-3 di Bielsa, come si divertivano a immaginare i giornali nei primi giorni di luglio. Avrebbe potuto indossare come un abito su misura quella centralità tecnica che aveva esaltato Payet e Muniain prima di lui, oppure avrebbe potuto soffrire i ritmi elevati del calcio predicato dal Loco. Avrebbe potuto illuminare la produzione offensiva con il suo repertorio di tocchi di prima, sponde e passaggi filtranti, oppure fare a pugni con l’idea di aggredire immediatamente il possesso avversario alla riconquista del pallone.
Per quel che sappiamo, però, in ogni caso sarebbe stato titolare nella Lazio. Negli stessi giorni di luglio, mentre Keita giustificava su Twitter la decisione di non presentarsi ad Auronzo di Cadore per il ritiro («non posso più accettare il trattamento che mi stanno riservando»), mentre Felipe Anderson minacciava di restare in Brasile se non avesse ricevuto l’autorizzazione a partecipare alle Olimpiadi, Milinkovic-Savic ribadiva il suo amore per la squadra e la città attraverso le parole dell’agente, Mateja Kezman: «Non vogliamo andare via da Roma, Sergej è felice e sta compiendo un percorso di crescita: il suo futuro è al 100% alla Lazio».
Dal momento in cui Tare e il suo staff lo hanno opzionato, fino a quando hanno svuotato il centrocampo per ritagliargli un posto da titolare, Milinkovic-Savic ha sentito riposta in lui quella fiducia che ha utilizzato come carburante per il continuo miglioramento. Per acquistarlo, la Lazio aveva agito d’anticipo, tanto da costringerlo a farne una questione di principio e ad abbandonare in lacrime lo stadio della Fiorentina, e aveva poi finalizzato l’accordo con il Genk sulla base di 9 milioni, una cifra che oggi promette di diventare una ricca plusvalenza.
Fin dalla prima giornata, aveva lasciato intuire che stagione dovessimo attenderci - qui in due tocchi trasforma uno spiovente in un assist vincente.
Oggi Sergej è quarto tra gli U21 più utilizzati del campionato, con 2644 minuti e 33 presenze, di cui 30 da titolare. Al termine della scorsa stagione aveva collezionato 1644 minuti divisi in 25 presenze, di cui 17 da titolare. Se allora poteva essere considerato il dodicesimo uomo, la prima riserva a centrocampo, quest’anno ha visibilmente ottenuto i gradi di titolare indiscutibile, dimostrando di meritare lo spazio che gli è stato ritagliato. La Lazio ha infatti approfittato dell’assenza di impegni europei infrasettimanali liberandosi di Mauri, Onazi, e successivamente anche di Cataldi e Morrison, finché la mediana Biglia - Parolo - Milinkovic non è diventata l’unica opzione percorribile per un allenatore pragmatico come Simone Inzaghi.
Non è stata una decisione banale, se consideriamo che Sergej aveva chiuso lo scorso campionato con 1 gol e 0 assist, un bottino poco appariscente, per usare un eufemismo. Negli ultimi anni, però, la Lazio ha dimostrato grande fiducia nei suoi investimenti. Ha saputo aspettare Felipe Anderson quando non segnava mai e Petkovic gli preferiva Ederson, ha dato il tempo a Lucas Biglia di recuperare dagli infortuni muscolari e di adattarsi ai ritmi del campionato, ha recuperato Immobile e gli ha restituito quella credibilità che gli anni all’estero e gli Europei alle spalle di Pellè, Zaza e Éder gli avevano sottratto.
Certo, guardando a ritroso non è sempre facile tracciare un confine tra la paziente sopportazione e la sincera convinzione, distinguere la strategia e la progettualità dal fare di necessità virtù. Però ha funzionato: più delle rivali, la Lazio riesce a migliorare i giocatori che acquista, o almeno a mantenerli in sella ai rispettivi percorsi evolutivi. Due anni fa a vincere il premio di giocatore più migliorato del campionato, nei nostri Awards, era stato un altro giocatore della Lazio, ovvero Felipe Anderson.
In questo percorso è stato agevolato dall’intesa con Immobile e Keita, decisamente più capaci di attaccare i corridoi verticali rispetto a Matri, Djordjevic e all’ultimo Klose.
Le statistiche grezze non dicono fino in fondo quanto sia migliorato Milinkovic-Savic, perché erano effettivamente già molto positive quelle registrate la passata stagione. Semmai è notevole come abbia mantenuto quei valori costanti pur aumentando notevolmente il volume del campione di presenze, perché è più facile incidere sulla partita quando si entra dalla panchina, ed è più facile gonfiare le medie parametrate sui 90 minuti avendone 10 a disposizione.
I passaggi tentati, ad esempio, hanno subito una variazione leggerissima, passando da 44 a 46, mentre la percentuale di precisione è salita di pochi decimi, dal 72% al 73%. Registra sempre 2 dribbling tentati, anche se qui la percentuale di riuscita è cresciuta dal 59% al 69%, a conferma della maggiore confidenza nei propri mezzi, e ha diminuito di poco le palle perse, passate da 5.4 a 4.9. Nell’ultimo terzo di campo, però, è stato molto più presente, oltre che più coinvolto: il salto da 1.4 tiri tentati e 1.1 occasioni create fino a 2.1 tiri e 1.7 occasioni, per quanto lieve possa sembrare in apparenza, se moltiplicato su un’intera stagione da titolare gli ha concretamente permesso di raggiungere la quota di 4 gol e 7 assist.
Possiede il senso della pausa e la sensibilità per innescare azioni da gol in ogni fase di gioco, anche a difesa schierata.
L’impressione è che abbia perfezionato la convivenza con se stesso, in particolare con quel fisico fuori dai canoni per i trequartisti, se così ha senso considerarlo. Un indizio lo offrono le statistiche difensive, leggermente calate alla voce intercetti (da 1.4 a 1.2) e leggermente aumentate alla voce contrasti tentati (da 2.8 a 4.1, anche se si è abbassata la percentuale di riuscita). A tratti Milinkovic-Savic soffre la velocità dell’azione, fatica a recuperare la posizione, per cui è evidente come un approccio più conservativo in fase di non possesso lo aiuti a entrare poi più facilmente nel vivo dell’azione.
Nonostante tutto, accetta con sicurezza l’uno contro uno difensivo. Quando ne esce vincitore, ci mette veramente poco a rilanciare l’azione.
In più ha lavorato su tutti quei fondamentali che lo rendono un rebus di difficile soluzione per i centrocampisti avversari, dai movimenti nello spazio al gioco spalle alla porta, in cui pagava una certa timidezza che è scomparsa con l’aumentare del minutaggio. Adesso combina con invidiabile naturalezza gioco corto e gioco lungo, facilità di passaggio con entrambi i piedi, senso della pausa, lettura del contesto: può avviare l’azione davanti alla difesa, come ha fatto contro la Juventus quando Allegri ha abbassato il baricentro della squadra per proteggere l’area, oppure dirottarsi sulla fascia, come ha fatto contro la Roma per far pagare a Bruno Peres le leggerezze difensive e il mismatch fisico.
Milinkovic non ha neanche bisogno che il pallone passi dai suoi piedi per incidere sulla partita. Nelle fasi di gioco più statiche, come già faceva Pioli, Inzaghi lo utilizza come uno specialista: quest’anno ingaggia 7.5 duelli aerei contro gli 8.2 della stagione passata (un’enormità in entrambi i casi), e in più ha aumentato la percentuale di duelli aerei vinti dal 60% al 66%, iscrivendosi di diritto alla categoria dei migliori saltatori del campionato.
Qui modifica continuamente la posizione mentre segue l’azione, ma non dovrebbe essergli concesso di accoppiarsi a un terzino in area di rigore.
Raccogliere la tradizione tipicamente americana del premio di “giocatore più migliorato” è particolarmente divertente perché pone di fronte a una riflessione concreta, razionale, che muove da una base di partenza e valuta il tragitto compiuto fino al traguardo, una sorta di indice di redditività applicato agli esseri umani. E in un campionato che ha mal digerito le mezze misure, che ci ha regalato molti alti, molti bassi, e una diffusa sensazione di vertigini sia guardando alla testa che alla coda della classifica, tutti i possibili vincitori del “giocatore più migliorato” potevano vantare diversi argomenti a sostegno della candidatura.
Per sua natura, il premio non ha una definizione univoca e quindi nel ballottaggio potevano finirci tranquillamente giocatori come Belotti, che sapevamo essere in grado di fare determinate cose ma ci hanno stupito sul piano della continuità, giocatori come Mertens, che nella considerazione popolare partivano già un gradino sopra gli altri ma hanno saputo reinventarsi tatticamente fino a stravolgere quella percezione, oppure giocatori come Emerson Palmieri, per cui la proverbiale espressione «oggetto misterioso» suonava quasi come un complimento e adesso indossano la maglia della Nazionale.
L’evoluzione di Milinkovic-Savic è stata più morbida, diluita nel tempo, ma non per questo meno sorprendente. Dopo un’ottima prima parte di stagione, che aveva mostrato molte luci e qualche ombra, era ancora legittimo chiedersi se nel corso della carriera avrebbe conservato l’etichetta di freak, o sarebbe diventato un giocatore in grado di spostare le partite e far vincere con continuità le sue squadre.
È più semplice ragionarci adesso, dopo che ha trascinato la Lazio al quinto posto e alla finale di Coppa Italia, ma vale la pena ricordare come la dirigenza biancoceleste non avesse un piano di riserva: la sua esplosione, oppure un altro campionato speso nella mediocrità del centro-classifica. L’esplosione è poi arrivata e ha premiato l’investimento, la valorizzazione del talento, l’idea che un ventunenne potesse fare il titolare in una squadra in lotta per l’Europa. In fondo chi ha bisogno di un piano di riserva, quando c’è la fiducia.