A cosa serve il Mondiale? Perché dovrei seguirlo se la mia squadra, la mia Nazionale, non si è neanche qualificata? Me lo sono chiesto, come molti italiani, quest’estate, dopo che il Real Madrid aveva vinto l’ennesima Champions League consecutiva. In fondo di partite ne abbiamo abbastanza anche negli anni dispari, e la qualità del calcio dei club è difficilmente raggiungibile da quello delle Nazionali.
Quindi, a che cosa serve il Mondiale?
A un certo punto, quando mi sono trovato a organizzare le mie giornate per provare, quanto meno provare, a vedere tutte le partite di Russia 2018, l’ho capito. Qualcuno me lo aveva già detto, o forse devo averlo letto da qualche parte, in ogni caso quest’estate ho capito di nuovo che il Mondiale serve a scandire il tempo che passa.
Ho una memoria pessima, fatico a ricordare date e nomi imparati anche pochi anni fa, e ci sono interi periodi della mia vita che a volte mi sorprendo di aver vissuto. L’altro giorno, mettendo a posto dei documenti, ho trovato un contratto di lavoro a tempo determinato in un ristorante di cui avevo completamente rimosso ogni ricordo. Eppure, con un po’ di sforzo, ricordo di averci passato un intero inverno, dalle sei del pomeriggio alle tre di notte. Ed era appena sei anni fa.
I diversi momenti della mia vita sembrano fondersi l’uno nell’altro e in questo flusso si stagliano alcuni macroeventi, per lo più matrimoni e funerali. E Coppe del Mondo. Ricordo con esattezza ogni Mondiale che ho visto, con chi ero, cosa facevo in quel periodo, come stavo.
Foto di Kevin C. Cox / Getty Images
Il primo Mondiale che ricordo è quello di Italia ‘90, avevo nove anni e mio nonno mi ha portato allo stadio a vedere Italia-Austria, Schillaci ha segnato saltando altissimo di testa e ricordo ancora che quando le persone si sono alzate per esultare per me si è fatto buio.
Mio nonno mi ha sollevato per vedere il campo? Non lo ricordo.
I rigori di Usa ‘94 li ho visti a casa di mio padre, io e lui da soli, i miei genitori si erano separati da poco. Durante le partite mio padre non parlava molto, ma dopo l’errore di Baggio ha detto: “Lo sapevo”. Diceva “Lo sapevo” ogni volta che qualcosa andava storto, quando trovavamo un cinema pieno, quando faticavamo a trovare parcheggio. Era l’unica manifestazione di un’angoscia profonda che ha tenuto il più a lungo possibile nascosta, almeno a me.
Nel ‘98 eravamo un po’ di amici a casa di un compagno di liceo quando la Francia ha battuto l’Italia ai rigori, è lì che abbiamo iniziato a provare antipatia per quella squadra che due anni dopo, all’ultimo anno di liceo, avremmo maledetto con tutte le nostre forze in quella stessa casa. Quattro anni dopo non ero più in contatto con nessuno di loro, la maggior parte dei miei amici del liceo si era iscritta a Economia e io mi ero depresso da solo a studiare teatro. Non avevo dato esami e quando l’Italia è uscita con la Corea stavo facendo il servizio civile sostitutivo nella Biblioteca Nazionale Centrale, perché non avevo voglia di fare il militare.
Dove ho visto la partita? Non lo ricordo, probabilmente da solo a casa.
Non sapevo cosa fare della mia vita e Byron Moreno mi sembrava colpevole come qualsiasi altra persona sulla faccia della terra, il killer a pagamento di un’ingiustizia più trascendente e inevitabile. Stavo cominciando anche io a pensare “Lo sapevo”, quando il mondo mi deludeva.
Nel 2006 invece mi stavo laureando in storia dell’arte, stavo facendo l’Erasmus a Parigi quando l’Italia ha battuto in finale la Francia. Mi pagavo l’affitto facendo il cameriere part-time e frequentavo un bistrot gestito da una famiglia araba a Pigalle. Ho visto lì la finale con altri italiani e il mio migliore amico francese, che qualche anno dopo sarebbe stato mio testimone di nozze, che ha iniziato a piangere dal momento dell’espulsione di Zidane. Dopo, per festeggiare, ho invitato tutti a casa mia e il cameriere del bar si è scopato un’italiana amica di amici sul divano in camera mia.
Nel 2010, mentre la Slovacchia batteva 3-2 una delle nazionali italiane più allo sbando che io ricordi, ero in aeroporto. Stavo tornando in Francia, dove convivevo con quella che sarebbe diventata mia moglie. Quando avevo preso i biglietti mi ero detto che la terza partita del girone - dopo Paraguay e Nuova Zelanda - non sarebbe stata importante. Non ho trovato una sola tv su cui vederla e alla fine ho ascoltato la partita in un negozio di profumi dell’aeroporto in cui avevano tolto la musica e messo la radiocronaca.
Poi, quando l’Italia di Prandelli è naufragata in Brasile io già scrivevo di sport, l’Ultimo Uomo aveva un anno e Antonio Gagliardi, analista della Nazionale e amico mi aveva invitato in albergo prima della partenza per un saluto. C’era un bel clima, avevo visto Balotelli scherzare con Verratti che spingeva una carrozzina gigante con dentro il figlio. Credevo molto in quell’Italia e ci sono rimasto male per il modo in cui il gruppo si è sbriciolato nel momento decisivo. Ho visto quasi tutto il Mondiale brasiliano in un teatro del ‘700, il Valle, che in quel momento era occupato e adesso è lasciato all’abbandono.
E così, arriviamo a Russia 2018. Il primo senza mio padre e senza l’Italia. Ma anche il primo da sposato, con mia moglie incinta.
C’è una vita intera in 8 Coppe del Mondo.
Foto di Eric Feferberg / Getty Images.
Ho provato a tifare Francia dall’inizio. In fondo è il Paese dove ho vissuto tre anni della mia vita, dove torno ogni anno e dove ho ancora molti amici. Il francese è la mia seconda lingua e la metà dei libri che ho letto a casa sono in francese. Il mio più feroce litigio con mia madre è stato per farmi comprare una grammatica francese quando avevo diciotto anni, lei pensava non mi sarebbe servito a niente.
Mia moglie è francese e mia figlia lo sarà almeno per metà: avrà due bisnonne e un bisnonno, un nonno e una nonna, due zii e un’altra dozzina di parenti francesi. Probabilmente la porteremo in Francia almeno una volta all’anno ed è bene che lo senta anche io un po’ come il mio Paese.
Ma ovviamente non è la stessa cosa che tifare il Paese dove vivi tutti i giorni. Se un albero cade in una foresta e nessuno ne parla al bar dove fai colazione, non si può dire che quell’albero sia caduto veramente. Le prime tre partite del girone hanno peggiorato le cose: già dopo la vittoria sofferta con l’Australia Deschamps ha fatto marcia indietro dalla formazione che preferivo (quella con Dembelé) per giocare un Mondiale prudente. E a togliermi qualsiasi entusiasmo ci hanno pensato la vittoria con il Perù e il pareggio con la Danimarca.
Per giunta la settimana in cui sono iniziati gli ottavi di finale ero a Siena. Stavo preparando un articolo sul Palio e dentro la passione di un momento totalmente diverso, in una città che in quei giorni vive su una linea temporale parallela. Dato che era un giorno di prove, ho faticato a trovare un posto dove vedere la partita con l’Argentina e mi sono dovuto accontentare di un ristorante in cui una famiglia di turisti americani stava finendo di pranzare davanti al televisore.
Che senso aveva tifare la Francia in quel modo?
Argentina-Francia doveva essere la partita tra la squadra più disfunzionale del torneo e quella più noiosa, e invece è stata la partita più pazza e divertente del torneo. La singola partita capace non solo di riconciliarmi con il Mondiale in corso, ma con l’idea stessa di Mondiale di calcio.
È stata anzitutto la partita in cui il talento sproporzionato di Mbappé è esploso in faccia al mondo intero, proprio quando la Francia ne aveva bisogno. Ha procurato il rigore del 1-0 e poi ha segnato i gol del 3-2 e del 4-2, e in più di un’occasione sembrava una moto in corsa che schivava i giocatori argentini come fossero stati pedoni su un marciapiede.
Ma non sarebbe stata una partita così divertente se l’Argentina non fosse riuscita a pareggiare, prima, e a passare addirittura in vantaggio a inizio secondo tempo. Il gol di Di Maria è stato uno dei più belli del Mondiale ma, insieme a quello di Mercado, che si è trovato sulla traiettoria di un mezzo tiro di Messi, sembravano la replica del gol di Eder di due anni prima, nella finale dell’Europeo con il Portogallo. La Francia aveva perso quella partita in modo inaspettato, per una trovata estemporanea, e anche contro l’Argentina sembrava potesse uscire così, quasi per uno scherzo del destino.
Insomma, a inizio secondo tempo la Francia perdeva 2-1: quante squadre, seppur superiori alle loro avversarie, non riescono a ribaltare il risultato in meno di 45 minuti?
Alla Francia però ne sono bastati 11. E il gol che ha contraddetto la narrativa della Francia talentuosa ma noiosa e sfigata è stato quello di Pavard.
Poi è stato scelto come gol più bello della competizione, ma è stato soprattutto il gol più importante. La Francia non si è mai più trovata sotto nel punteggio, né veramente in difficoltà - anzi, la vittoria finale è sembrata sorprendentemente naturale - e il gol di Pavard ha riportato tranquillità e al tempo stesso ha contagiato di euforia il resto della squadra.
Riguardatelo quel gol, non c’è niente di naturale. Mettete pausa nel momento esatto in cui Pavard colpisce la palla con il piede destro, guardate la sua caviglia sinistra, piegata con un’angolazione tanto innaturale che sembra spezzata. Guardate il busto di Pavard, è quasi in orizzontale, parallelo al terreno. La palla si stacca dall’esterno del piede con pulizia e precisione, Pavard la taglia senza toglierle potenza e la colpisce in alto senza mandarla in tribuna. C’è un’eleganza e una pazzia in questo gol, ancor più pazzo se si pensa che l’ha segnato un terzino destro, che lo rende ancor più unico.
La Francia è passata in pochi secondi dall’essere una squadra sempre un po’ preoccupata, con il freno a mano tirato, posata sui suoi talenti migliori, al giocare con la disinvoltura e la leggerezza di chi sa che può fare qualcosa di eccezionale in ogni momento.
Quando Pavard ha colpito quella palla di esterno spedendola sotto l’incrocio, mia moglie era incinta da due mesi e non lo avevamo ancora detto quasi a nessuno. Non avevo potuto vedere l’Italia giocare il Mondiale e sentivo la mancanza di mio padre. Avevo 37 anni e non sapevo se avere paura o essere felice. Il gol di Pavard mi aiuterà a ricordare come stavo in quel momento, quando magari sarà passato qualche altro Mondiale e faticherò a ricordarlo.