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Il lato oscuro del tifo argentino
26 ott 2017
Come funzionano le barras bravas, i gruppi violenti nel tifo organizzato in Argentina.
(articolo)
12 min
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Sono passati più di sei mesi dalla morte di Emanuel Balbo, 22enne tifoso del Belgrano caduto da un’altezza di cinque metri durante il derby con il Talleres. Aveva riconosciuto in curva Oscar Gómez, l’uomo che nel 2012 investì e uccise il fratello Agustin in una gara automobilistica clandestina alla periferia di Córdoba.

La situazione è degenerata all’intervallo, quando Gómez e alcuni complici hanno iniziato a insultare e picchiare Balbo, sostenendo fosse un tifoso del Talleres. Altre persone hanno partecipato all’aggressione, costringendo Balbo a scavalcare una balaustra per mettersi in salvo. Sotto di lui, però, c’erano soltanto il vuoto e il cemento dei gradoni contro cui ha battuto la testa.

La sua morte, al di là del movente extra calcistico, si è sviluppata all’interno di un contesto legato alle cosiddette barras bravas, cioè le tifoserie organizzate che controllano e lucrano sul calcio argentino. Gómez apparteneva alla barraLa Igualdad. Non avrebbe potuto essere allo stadio: era in libertà vigilata poiché ancora sotto processo e i poliziotti incaricati di controllare gli spettatori all’ingresso conoscevano la sua identità. Eppure, nonostante queste restrizioni, negli ultimi cinque anni Gómez era sempre stato lì, in quella curva dalla quale risultava interdetto.

L’influenza delle barras bravas sulle squadre argentine

Per cercare di capire il complesso mondo del tifo argentino bisogna partire dalla connivenza con le istituzioni e gli apparati statali. In cambio di una pressoché totale impunità dentro e fuori lo stadio, i tifosi diventano il personale braccio armato di politici corrotti, che ne sfruttano i servigi per reprimere i dissensi dei sindacati nelle manifestazioni di piazza, assicurarsi i voti e la loro presenza durante le conferenze.

In Argentina i tifosi appartengono al sistema calcistico e hanno un’enorme rilevanza all’interno del club, anche in virtù della conformazione societaria dei club stessi. Intervengono nella scelta del presidente, oltrepassando spesso i limiti imposti per convenzione ai "soci": in alcuni casi diventano le guardie del corpo dei calciatori e usano i servizi dello stadio come se fossero di loro proprietà. È un legame che non ha eguali da nessun’altra parte al di fuori del contesto sudamericano, nonché l’aspetto più caratteristico delle barras bravas che meglio le differenzia da altri movimenti di tifo organizzato sparsi per il mondo.

Foto di STR / Stringer.

Un episodio della serie “Ultras nel mondo: curve infuocate” condotto da Danny Dyer (che ha recitato nel film “Football Factory”) mostra ad esempio l’assoluta libertà con cui la Pandilla del Racing (letteralmente “la banda”; uno dei gruppi organizzati della tifoseria) accede alla sala dei trofei. Più in generale, il benestare degli agenti di polizia, uomini solitamente corrotti o in alcuni casi affiliati alle curve, ha reso l’interno e le vicinanze degli stadi autentiche zone franche, dove le barras bravas praticano il racket dei parcheggi nei giorni delle partite, l’estorsione, il bagarinaggio e la vendita di bevande e cibo, oltre naturalmente allo spaccio di droga, principale core business che vale un giro d’affari di decine di migliaia di euro al mese.

Le barras bravas agiscono inoltre sul mercato della squadra, intervenendo negli acquisti e nelle cessioni per ottenere una percentuale sul prezzo del cartellino dei giocatori che può arrivare anche al 30%. E se qualcuno prova ad ostacolarne gli affari, si ritrova a fare i conti con intimidazioni e aggressioni fisiche.

Nel 2012 Paulo Álvarez, detto Bebote, capo della barra dell’Independiente, aveva minacciato in diretta televisiva il presidente Javier Cantero. Alla sua elezione, avvenuta l’anno prima, aveva dichiarato l’intenzione di debellare quei tifosi violenti che occupavano la curva dell’Estadio Libertadores. Álvarez era riuscito ad avvicinarlo per strada, dandogli del bugiardo, ma Cantero aveva replicato elencando le decine di migliaia di dollari incassati dai componenti della barra. In questo caso, una serranda dietro la quale il presidente aveva trovato riparo e la presenza della sicurezza avevano evitato conseguenze peggiori (solo qualche giorno fa i tifosi dell'Independiente si sono resi protagonisti di un tentativo di estorsione, chiedendo all'allenatore del club argentino, Ariel Horan, 50mila dollari fuori dal ristorante dove si sarebbe tenuta una cena con la squadra).

Peggio è andata invece due anni più tardi a Juan Ignacio Mercier, giocatore del San Lorenzo. Al termine della vittoria contro il Boca Juniors, mentre stava raggiungendo la macchina parcheggiata fuori dallo stadio, era stato avvicinato da alcuni componenti della barra. Il loro capo, dopo una serie di ripetuti insulti, lo aveva colpito con un pugno alla nuca perché Mercier si era in precedenza rifiutato di consegnargli la sua maglietta.

Il calcio, in questo contesto, è solo uno sfondo dietro al vero obiettivo delle barras bravas: fare soldi, sempre e comunque. Il profitto è ciò che lega il tifo organizzato alle organizzazioni criminali.

Appartenere a una barra, in Argentina, è qualcosa che va oltre il semplice passatempo sportivo. È un lavoro a tutti gli effetti, una precisa scelta di vita. I tifosi sono una figura professionale, uno status reso possibile dall’inquadramento dei club: più che aziende, sono associazioni senza scopo di lucro di cui fanno parte gli stessi sostenitori.

Come sono nate le barras bravas

Le cause di questo circolo vizioso hanno seguito di pari passo la nascita e l’evoluzione delle barras bravas. Erano gli anni Cinquanta quando se ne era parlato per la prima volta. La stampa argentina aveva cominciato ad indicare con il sostantivo barras quei gruppi che assistevano alle partite incitando la squadra con cori, bandiere e striscioni, senza intenzioni necessariamente illecite. I dirigenti dei club ricambiavano il sostegno con biglietti, abbonamenti e viaggi gratuiti per incentivarne la presenza anche durante le trasferte e garantirsi soprattutto voti in vista delle elezioni nel consiglio di amministrazione.

La violenza nel calcio argentino non era certo una novità. Inizialmente sfogata contro arbitri e avversari, era poi stata diretta contro i sostenitori di squadre avversarie, solitamente quelli della medesima città o delle immediate vicinanze. Il primo decesso legato ad una manifestazione sportiva è avvenuto nel 1924, quando Pedro Demby fu ucciso con due colpi di pistola alla testa durante gli incidenti tra i tifosi di Argentina e Uruguay. Da lì in avanti, stando alle cifre di Salvemos al Fútbol – un’organizzazione no profit che si batte per migliorare la sicurezza nel calcio argentino – sono morte 322 persone, di cui oltre 40 negli ultimi quattro anni.

La relazione tra i disordini allo stadio e le barras è invece emersa più tardi, nel 1958, dopo la morte di Alberto Linker durante gli scontri con la polizia nella sfida tra Vélez e River Plate. Era stato il quotidiano La Razón a raccontare per primo la presenza di gruppi organizzati e gerarchizzati, indicati allora con il termine barras fuertes. L’aggettivo era rimasto in voga fino al 1967, quando la morte del tifoso dell’Huracán Héctor Souto aveva convinto la stampa argentina ad utilizzare l’ancora più selvaggio bravas (letteralmente “feroci”).

Foto di Eitan Abramovich / Getty Images.

Se il 1967 può essere preso come inizio dell’era delle barras bravas, il periodo che ne ha segnato la definitiva cementificazione nella società è avvenuto tra il golpe militare del 1976 e il 1978. Il Paese ospitava l’edizione del Mondiale e la nuova dittatura guidata dal presidente Jorge Videla, preoccupata di trasmettere un’immagine positiva al resto del mondo, aveva stretto un accordo con le barras bravas. L’accordo tra il governo e il tifo organizzato era sostanzialmente questo: niente disordini durante la Coppa del Mondo in cambio di soldi e biglietti gratis. Un trattamento simile sarà garantito anche nel Mondiale spagnolo del 1982 e in quello americano del 1994, nel quale si stima che il governo argentino abbia speso circa 150mila dollari in biglietti, poi rivenduti a un prezzo tre volte superiore dai leader della tifoseria Albiceleste.

La sete di denaro è al tempo stesso la principale causa dei dissidi interni tra gruppi di tifosi, che possono arrivare anche all’omicidio per risolverli. Gonzalo Acro, uno dei capi della barra Los Borrachos del Tablón del River Plate, venne ucciso nell’agosto del 2007 in un agguato organizzato da altri quattro tifosi dei Millionarios. Dopo la vendita di Gonzalo Higuaín al Real Madrid, la barra aveva ottenuto una provvigione di 50mila dollari sui 12 milioni dell’affare. E Acro, dipendente della società che lavorava nella piscina del Monumental con uno stipendio mensile di 5.500 dollari, venne ucciso perché avrebbe intascato più della metà di quei soldi senza il consenso dei compagni.

Ma non è solo la violenza estrema a renderle pericolose. Il problema è che il sistema delle barras bravas si è talmente istituzionalizzato da arrivare a congiungersi persino con l’AFA, la federazione calcistica argentina.

Le responsabilità di Grondona

Julio Grondona, morto nel 2014, ha ricoperto il ruolo di presidente per 9 volte (la prima nel 1979) ed è stato a lungo uno dei personaggi più controversi nel panorama sportivo del Paese. Sotto la sua presidenza ultradecennale, 183 persone sono decedute durante eventi calcistici. Soprannominato “Il Padrino del calcio argentino”, è stato più volte accusato di finanziare e agevolare le attività delle barras bravas.

Un episodio significativo è avvenuto nel 2010, in occasione del Mondiale in Sudafrica, quando una dozzina di tifosi con alle spalle un mandato d’arresto aveva viaggiato sullo stesso aereo dei giocatori della Nazionale. Grondona si era difeso sostenendo che la loro presenza a bordo fosse «una semplice coincidenza».

Qualche mese dopo, Grondona aveva rilasciato un’intervista, poi apparsa sul libro Football and Violence, in cui rimarcava l’intenzione di sradicare la barras bravas per «garantire la normalità negli stadi», aggiungendo che i club avrebbero dovuto introdurre un sistema di riconoscimento biometrico per tutti i tifosi.

Foto di Alejandro Pagni / Getty Images.

Sradicare questi gruppi organizzati rimane comunque un’operazione complessa, che va molto al di là del semplice riconoscimento dei loro membri. Le barras bravas contano solitamente poche centinaia di membri, che per conquistare la fiducia dei capi devono dimostrare un forte senso di appartenenza e una totale dedizione alla causa. Le nuove leve sono ricompensate con alcool e droga, mentre le figure più in vista possono arrivare a guadagnare anche decine di migliaia di dollari. In un interessante articolo del New York Times del 2011, si scriveva che i capi della Doce del Boca Juniors, probabilmente la barra più influente e importante in Argentina (che ha avuto rapporti torbidi anche con l'attuale presidente Mauricio Macri, ex presidente del club, che invece oggi sta cercando di combattere il fenomeno), riuscivano a racimolare addirittura 15mila dollari al mese.

I leader delle bande sono poi inseriti e apprezzati nella società in cui vivono. Le barras bravas sono un universo abbastanza eterogeneo, e non fanno distinzioni in base all’età e al ceto. Tutti gli appartenuti sono in realtà tenuti insieme dall’appartenenza al barrio, il quartiere di provenienza, da difendere ad ogni costo. Le partite, in questo contesto, sono solo il campo di battaglia su cui dimostrare la superiorità sulla barra avversaria.

Si tratta di persone con una fama da celebrità, ritenute dagli abitanti del quartiere autentici garanti della sicurezza e idoli a cui chiedere autografi o foto celebrative. La loro influenza è talmente grande da spingere i più giovani della comunità a considerarli modelli da imitare.

Le infiltrazioni nella politica

A rendere la situazione ancora più impermeabile al cambiamento c’è la corruzione dei politici e degli esponenti della federazione. I rapporti instaurati dalle barras bravas con i differenti governi, anche di ideologie politiche opposte, a partire dalla dittatura militare hanno alimentato un sistema duraturo fatto di scambi e favori finalizzati al mantenimento dello status quo.

L’atteggiamento di complicità e omertà ha reso molto più difficile contrastare la violenza in Argentina rispetto ad altri paesi europei. Dal momento che non esiste una sezione speciale per i reati da stadio, i casi vengono solitamente trattati dai tribunali comuni alla stregua di semplici risse, con la conseguenza che quasi sempre gli imputati vengono assolti, anche grazie all’intercedere delle stesse società che pagano i soldi della cauzione.

Foto di Eitan Abramovich / Getty Images.

Questa tendenza ha contribuito ad esasperare il clima di insofferenza e sfiducia nella giustizia argentina. Nel 2016 la situazione sembrava essere leggermente migliorata grazie all’iniziativa Tribuna Segura voluta dal Ministro della Sicurezza Patricia Bullrich. Si tratta di uno strumento di prevenzione che obbliga i tifosi a mostrare la carta d’identità ai tornelli. Il documento viene poi scansionato dai poliziotti con un cellulare che verifica all’istante precedenti penali o condanne pendenti del tifoso. Se la ricerca dà esito positivo, alla persona in questione viene impedito l’accesso allo stadio.

Un’idea simile era stata sperimentata qualche tempo dopo, ad aprile, dal Club Atlético Tigre, squadra della Primera Division. Si chiamava Ticket Pasión, prevedeva l’inserimento di un chip sottocutaneo nel corpo dei tifosi ed era pensato come un abbonamento digitale per sostituire il biglietto cartaceo. Il dispositivo avrebbe registrato tutti gli ingressi dai tornelli ed evitato che soggetti segnalati come violenti potessero farsi prestare l’abbonamento per entrare nell’impianto. Il progetto, testato durante una partita di campionato, ha però spaccato la tifoseria dell’Atlético Tigre, giustamente perplessa riguardo uno strumento decisamente invasivo della privacy (e infatti è stato bocciato dalla stessa Federazione argentina solo sei mesi dopo).

Sempre nello stesso anno, inoltre, la AFA ha tolto il divieto di trasferta che durava dal 2013, anche se solo per alcuni incontri. Il provvedimento era stato adottato per la prima volta nella storia del calcio argentino dopo l’ennesimo incidente costato la vita a un tifoso del Lanús, negli scontri con la polizia durante la partita contro l’Estudiantes.

Ma la repressione da sola non può produrre effetti significativi, anzi potrebbe nel lungo periodo essere addirittura controproducente. Servirebbe parallelamente un impegno sul piano economico e organizzativo, il cui primo inevitabile passo consisterebbe nella rottura dei legami tra questi gruppi e la politica.

La grande sfida cui è chiamato il calcio argentino è venire a patti con oltre sessant’anni di cultura curvaiola, ormai parte integrante del folklore locale, per depurarla dalla violenza, di tutti i tipi. Lo sforzo è notevole, ma al tempo stesso necessario per salvare il calcio argentino e impedire che morire allo stadio diventi qualcosa di implicitamente accettato.

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