Alla fine della stagione 2014/2015 il Lione sembrava destinato a grandi cose: era riuscito a crescere un blocco di giocatori molto giovani e di grandi potenzialità attraverso uno dei settori giovanili più prolifici d’Europa, la squadra si rispecchiava in una filosofia tattica al di là degli allenatori contingenti, e uno stadio nuovo di zecca sarebbe stato inaugurato di lì a pochi mesi.
Il Lione del presidente Aulas, insomma, sembrava avere la strada spianata per tornare alla grandezza perduta del periodo 2001-2008, tra l’altro attraverso un progetto sostenibile, di lungo periodo e alternativo a quello turbocapitalista del PSG. La conferma sembrava arrivare dal fatto che in quella stagione la squadra aveva a lungo conteso il titolo nazionale al club parigino. Eppure, solo un anno e mezzo dopo, il Lione mostra evidenti segni di invecchiamento precoce.
Invecchiare giovani
Il Lione, pur arrivando secondo, non è riuscito a contendere seriamente il primato del PSG nella stagione 2015/16 e quest’anno si è anche visto scavalcare dal Monaco (secondo a parimerito lo scorso anno, alla terza stagione consecutiva in Champions League) nel ruolo di squadra che, forse, quantomeno sul piano del fascino, può aspirare a farlo. Oggi come oggi è fuori quasi del tutto dalla lotta per un posto nella Champions League dell’anno prossimo, quarto a ben 15 punti di distacco dal Nizza e dal PSG.
Ma al di là dei risultati, che per loro natura vanno e vengono, è stata una graduale perdita d’identità ad aver invecchiato il Lione, rendendolo sempre meno riconoscibile.
Innanzitutto il nobile (e finanziariamente lungimirante) intento di puntare sul vivaio è andato via via annacquandosi. Per le cessioni di alcuni dei giocatori migliori cresciuti nel settore giovanile lionese (Umtiti al Barcellona, N’Jie al Tottenham), che per un club dalla statura internazionale del Lione forse sono inevitabili.
E, soprattutto, per gli acquisti che oggi fanno somigliare la squadra francese ad una partita di Football Manager finita male: il club di Aulas ha infatti puntato sempre più insistentemente su curriculum già affermati (Depay, Rafael, Valbuena, Yanga-Mbiwa, tra gli altri), invece di continuare nella rischiosa pratica di promuovere giovani leve dal vivaio per rinforzare la squadra. Quest’anno l’unico nuovo prodotto del Tola Vologe (il settore giovanile, appunto) ad essere arrivato in prima squadra è Diakhaby, che rimane comunque una seconda scelta.
Ma soprattutto, il Lione non ha più quella riconoscibilità tattica estremamente definita, che ne aveva disegnato l’identità negli anni scorsi e rendeva più semplice l’inserimento dei giovani provenienti dal vivaio. La strada tracciata da Remi Garde dal 2011, quella cioè di adottare un 4-3-1-2 a rombo dalle giovanili alla prima squadra, è stata abbandonata fin dalla scorsa stagione con l’esonero di Fournier, che aveva deciso di mantenere praticamente intatta l’intelaiatura ricevuta in eredità.
Con Bruno Génésio, che ha preso il suo posto dalla fine del 2015, le cose sono radicalmente cambiate. Oggi il Lione è tutto fuorché una squadra dall’identità tattica definita.
GoodmorningLione
Génésio ha abbandonato le velleità di controllo del possesso del 4-3-1-2, che per sua natura garantisce una superiorità strutturale a centrocampo e ha disegnato la sua squadra su due bozze di moduli interscambiabili a seconda dei giocatori a disposizione e degli avversari: il 4-3-3 e soprattutto il 4-2-3-1.
Il Lione non ha più obiettivi tattici prestabiliti e sostanzialmente si adatta al livello tecnico dell’avversario: se è inferiore al suo cerca di controllare il pallone alzando il baricentro (in Ligue 1 il Lione ha una media di possesso del 55%, seconda solo al PSG); se è superiore abbassa il baricentro e gioca in transizione (in Champions League la statistica sul possesso palla si abbassa fino al 51%).
Al di là del modulo, il Lione sembra tornato ad abbracciare un’interpretazione di calcio piuttosto tradizionale, se così si può dire. I giocatori non cercano di creare superiorità nella zona del pallone, ma sono distanti tra loro, a coprire il campo in tutta la sua superficie. Non c’è occupazione dei mezzi spazi da parte delle ali, che partono larghissime per poi accentrarsi solo una volta entrate in possesso del pallone. E i terzini si sovrappongono a turno, a seconda del lato dove si sviluppa l’azione.
Non esiste un’idea precisa su come recuperare il pallone. Vengono pressate alte le situazioni statiche, come i rilanci dal fondo, ma per il resto la fase di pressing viene lasciata all’iniziativa delle due giocatori più avanzati del 4-4-2 con cui difende, mentre il resto della squadra si compatta in due linee orizzontali di fronte alla propria area di rigore.
Anche il recupero immediato del pallone una volta perso viene sostanzialmente lasciato all’intensità dei singoli sulle palle nella loro immediata vicinanza (d’altra parte, con i giocatori così distanti tra loro sarebbe difficile pensare di fare altrimenti).
Il Lione vive nella situazione paradossale di essere più a proprio agio tecnicamente nelle partite in cui può giocare in transizione, soffrendo però drammaticamente la mancanza di equilibrio che ne deriva. Per essere pericoloso il Lione è costretto a perdere equilibrio.
Costruire dal basso, no merci
L’idea di fondo è forse quella di un calcio meno cerebrale e più diretto rispetto al passato, che lasci più libertà creativa ai giocatori; ma il risultato è comunque un Lione che fa una grande fatica a portare il pallone pulito sulla trequarti, soprattutto quando viene pressato alto in maniera organizzata.
I problemi iniziano fin dalla porta, dove Anthony Lopes - uno dei migliori portieri della Ligue 1 per esplosività e riflessi - non ha un gioco coi piedi all’altezza dei migliori portieri contemporanei. Anche i centrali di difesa sono piuttosto conservativi e timorosi nelle scelte, e la situazione è ulteriormente peggiorata dal fatto che i tre titolari che si alternano nel ruolo - Mammana, Yanga-Mbiwa e Diakhaby - sono tutti destri, limitando le scelte del centrale di sinistra.
Se non ricorre al lancio lungo, comunque non la soluzione ideale per il Lione che è quasi del tutto privo di grandi saltatori, la prima costruzione si limita ad un possesso orizzontale tra i difensori, volto a far arrivare la palla ai terzini.
È molto raro vedere un passaggio taglia linee dalla difesa, con i due mediani (di solito Tolisso e Tousart) che spesso per ricevere devono a loro volta allargarsi, andando ad occupare lo spazio liberato dalla salita dei terzini.
Per far arrivare il pallone pulito sulla trequarti il Lione passa dalle fasce: le ali, come detto, rimangono molto larghe a ricevere e i terzini hanno uno sbocco facile in verticale davanti a sé. Poi, però, dipende tutto dalle capacità individuali degli esterni.
L’altra possibilità, anch’essa non proprio ottimale, è che qualcuno dal centrocampo (di solito il trequartista nel 4-2-3-1) si abbassi a prendere il pallone per portarlo fisicamente nella metà campo avversaria.
Se la Roma decidesse di aggredire alta la costruzione del Lione, almeno all’inizio quando l’intensità è sufficiente a non lasciare troppi spazi, potrebbe raccogliere buoni frutti. Considerando anche la superiorità fisica di alcuni giocatori della Roma nei confronti dei diretti avversari e lo scarso impegno di alcuni giocatori del Lione (Valbuena, Fekir, Depay) in fase difensiva, potrebbe essere la strategia giusta quella di tenere la partita il più possibile - con e senza palla - nella metà campo francese.
Certo, non sarebbe una strategia senza rischi.
La centralità di Fekir (e Lacazette)
Fekir è l’uomo che di solito si prende la responsabilità di ricevere il pallone nella propria trequarti e portarlo in quella avversaria. È un’eventualità che impoverisce indirettamente il Lione dal punto di vista offensivo, perché una delle conseguenze che ne derivano è l’abbassamento di Lacazette centralmente, costretto a venire incontro tra le linee per non restare isolato contro la difesa centrale, sconnesso sia dagli esterni che dal trequartista.
Tecnicamente Fekir, uno dei tanti calciatori incautamente accostati a Zidane, è il giocatore migliore per orientare il gioco del Lione. È piccolo ma robusto, con delle gambe che gli permettono di difendere il pallone spalle alla porta anche contro i difensori più aggressivi, e un baricentro basso che gli dona nel girarsi un’esplosività unica (leggermente scalfita dal grave infortunio al ginocchio subito nel settembre del 2015).
Fekir è la vera forza creativa del Lione nella trequarti avversaria: attualmente è il giocatore in rosa che effettua più passaggi chiave (2.71 ogni novanta minuti), più dribbling (2.47 ogni novanta minuti) e più tiri (2.77 ogni novanta minuti; in quest’ultima statistica viene superato solo da Lacazette), tra quelli che hanno giocato almeno 10 partite in stagione.
In questo senso, il 4-2-3-1 vintage di Génésio ha almeno il merito di avvicinare i due giocatori offensivamente più pericolosi della rosa. La stragrande maggioranza delle occasioni del Lione nascono da combinazioni tra Lacazette e Fekir nello stretto, tra le linee, quando i due riescono ad associarsi.
Su questo ha influito positivamente anche la crescita di Lacazette, che nel tempo ha sviluppato un set di movimenti più ampio, che oggi include anche un ottimo gioco di sponda spalle alla porta con i corpi dei difensori avversari. In questo senso non sembrano casuali, né campate in aria, le voci che lo collegano al Borussia Dortmund, Atletico Madrid o Manchester City: la stima di allenatori come Tuchel, Simeone e Guardiola ne conferma indirettamente le capacità “tattiche” oltre che il talento puro evidenziato mediaticamente le passate stagioni.
Dei 50 gol realizzati in campionato dal Lione, ben 32 (il 64%) sono stati segnati o serviti da uno tra Lacazette e Fekir.
Uno contro uno
Ma il gioco offensivo del Lione dipende anche dall’autismo delle sue ali (due tra Depay, Valbuena, Cornet e Ghezzal), che hanno il compito di aspettare il pallone sull’esterno, puntare il terzino e poi decidere tra accentrarsi e tirare, oppure premiare la sovrapposizione del terzino per il cross (nella grande maggioranza dei casi, però, si opta per la prima scelta).
L’inserimento, per adesso piuttosto lento e graduale, di un giocatore estremamente meccanico come Depay, in questo senso, ha appiattito ulteriormente il gioco offensivo del Lione, che però almeno adesso può aprire un altro fronte nelle difese avversarie con un giocatore tecnicamente e fisicamente fuori scala per gli standard della Ligue 1.
Il suo impatto con il campionato francese è certificato dai 3 gol e i 3 assist già realizzati nei 480 minuti raccolti negli otto spezzoni di partita giocati fino a adesso.
Affidarsi così pesantemente alla capacità tecnica dei propri giocatori depurando il proprio gioco da una qualunque idea che renda la somma delle abilità individuali maggiore del totale, però, permette al Lione di imporsi solo con squadre tecnicamente o fisicamente inferiori. Eppure la Roma ha sofferto contro la Lazio, appena due settimane fa, proprio la frammentazione del campo in duelli fisici che hanno evidenziato i limiti di alcuni giocatori (come Fazio contro Immobile, ma anche Manolas con Keita) in transizione.
In questo senso è comprensibile il dubbio amletico espresso da Spalletti in conferenza stampa, tra l’aggredire il Lione per evidenziarne i limiti in impostazione esponendosi però alle ripartenze di Lacazette e Depay, oppure aspettarlo pazientemente confidando nella prevedibilità del gioco lionese.
In campionato il Lione ha sempre perso contro le squadre che la precedono in classifica (a parte col Monaco, battuta 1-3 fuori casa, in una partita che comunque ha giocato per più di 50 minuti in undici contro dieci), e allo stesso modo in Champions League ha raccolto la quasi totalità dei suoi punti con la Dinamo Zagabria, segnando appena un gol in quattro incontri con Juventus e Siviglia.
Quella del Lione è una stagione perfettamente in linea con le aspettative, non sta né stupendo né deludendo. E questa è forse la cosa più triste, alla luce della squadra che sarebbe potuta essere e che invece non è stata.