È il 9 Febbraio del 2016 quando sul campo amico dell’American Airlines Arena i Miami Heat incrociano le armi con i San Antonio Spurs per l’ultima gara prima della pausa dell’All-Star Weekend di Toronto. Per molti giocatori, in particolare quelli non convocati alla kermesse delle stelle, si tratta dell’ultimo sforzo prima di una settimana di vacanza per ricaricare la pile in vista del rush finale di stagione.
San Antonio passeggia per 119-101 su una Miami che alza bandiera bianca già a fine primo tempo. Una classica partita di metà regular season, giocata con il freno a mano tirato da entrambe le squadre e destinata a finire presto nel dimenticatoio. Nessuno poteva pensare che quella potrebbe essere stata l’ultima partita della carriera di Chris Bosh.
Il calvario
Poco più di un anno fa, appena terminato l’All-Star Game di New York - durante il quale aveva vinto per la terza volta consecutiva la “Shooting Star Competition” insieme a Swin Cash e Dominique Wilkins, oltre a rispondere alla decima convocazione per la partita delle stelle - Chris Bosh aveva iniziato a lamentare forti dolori al petto e faceva fatica a respirare. All’inizio credeva di essersi preso un brutto raffreddore per colpa dell’insidioso gelo di New York, ma impaurendosi per l’aggravarsi della situazione decise di sottoporsi ad alcuni esami. Il responso dei medici fu un fulmine a ciel sereno dagli effetti devastanti: al lungo dei Miami Heat fu diagnosticata un’embolia polmonare dovuta ad un coagulo di sangue che, formatosi in un polpaccio infortunato qualche mese prima, era risalito fino a un polmone.
Il mondo attorno a Bosh crollò all’improvviso: stagione finita, carriera a rischio, ma ancor più importante il pericolo di rimetterci la vita. Solo qualche giorno prima, infatti, la NBA era stata sconvolta dalla morte di Jerome Kersey, ex Trail Blazers che si era accasciato a terra nel soggiorno di casa ed era morto di infarto a causa dello stesso identico problema.
La situazione di Bosh tuttavia era diversa da quella della bandiera di Portland: i medici riuscirono a stabilizzare le sue condizioni e, dopo una lunga degenza in ospedale ed alcuni trattamenti invasivi, iniziò la cura a base di anticoagulanti, tornando a casa per rimanere a stretto riposo, ma già con la testa alla stagione successiva.
Quando i medici gli diedero il via libera per ricominciare a allenarsi, Bosh iniziò a lavorare sodo per farsi trovare pronto al training camp ed il suo ritorno in squadra alzò di colpo le aspettative sui Miami Heat che erano appena usciti da una pessima stagione, la prima senza playoff dopo quattro Finali NBA consecutive (sì, era anche la prima senza LeBron James). Già dalle prime partite tutti si resero conto che era come se il tempo non si fosse mai fermato: i problemi di salute non avevano scalfito nulla dell’efficacia dell’ex Raptors, che si erse fin da subito a miglior realizzatore dei suoi con 19 punti di media a partita conditi da 7.4 rimbalzi ed il 37% da tre su oltre 4 triple tentate a sera. Il suo contributo su entrambi i lati del campo permise agli Heat di lottare per i primi posti nella Eastern Conference, senza saltare nemmeno una partita fino a quel 9 Febbraio. Bosh era rinato.
Tredici stagioni in NBA, undici stagioni da All-Star
Per questo la seconda batosta ha fatto ancora più male. Un dolore lancinante al solito polpaccio fece scattare nuovamente tutti i campanelli di allarme e si sottopose ad un’altra visita specialistica che evidenziò la medesima diagnosi infausta: un altro coagulo di sangue si era formato nel polpaccio, anche se stavolta non era ancora salito ai polmoni. Inizialmente le impressioni erano positive: il coagulo era ancora allo stadio iniziale e preso in tempo non avrebbe creato danni, tuttavia Bosh si è dovuto sottoporre all’ennesimo protocollo di guarigione che hanno costretto l’entourage degli Heat a dichiararlo fuori per la stagione.
La speranza del giocatore, dell’organizzazione e dei tifosi era di averlo pronto per i playoff, ed era pure uscita la voce che Bosh avesse ricevuto il via libera a tornare in campo per la serie contro i Raptors, ma che gli Heat lo avessero tenuto precauzionalmente a riposo per non rischiare la sua salute nel lungo termine (oltre che, malignamente, la loro salute finanziaria, come spiegheremo dopo), scatenando le prime frizioni tra il giocatore e la dirigenza.
Bosh voleva giocare, anche a rischio di compromettere la sua salute, tanto da tirare in ballo l’Associazione Giocatori per intentare causa alla NBA e agli Heat che gli negavano la possibilità di scendere in campo. Per tutta l’estate Bosh si è sottoposto a controlli con i suoi medici di fiducia, si è allenato duramente tra Miami e Los Angeles per tornare in forma ed ha raccolto la testimonianza di altri atleti che nella sua condizione hanno ripreso la propria carriera a livello professionistico.
Recentemente ha rilasciato un documentario diviso in 5 parti, prodotto e girato da lui stesso per il sito Uninterrupted, un portale in stile Players’ Tribune, in cui spiega in modo molto onesto e toccante il suo calvario, le sue sensazioni, le sue paure e il motivo che lo spinge a rimettersi in discussione. Il primo episodio, “Lost”, è andato in onda lo scorso 21 settembre e, nonostante tutto quello che sta succedendo, nel frattempo siamo arrivati al terzo capitolo, “Rebuilt”.
Durante l’estate le voci che circolavano sul suo conto si sono susseguite tra una smentita e l’altra, tra una cattiva e una buona notizia culminate con un post su Snapchat in cui dichiarava di essere pronto per tornare a giocare, seguito poi da un suo intervento, ospite di Jesse Williams e Stefan Marolachakis nel podcast “Open Run”, in cui ribadiva di essere pronto. Pure il proprietario Mickey Arison si era lasciato scappare un tweet che lasciava intendere ottimismo.
Ma Pat Riley e il suo staff durante questi sette mesi non hanno mai preso una posizione sulla vicenda fino a quando il giocatore non si è sottoposto agli accertamenti medici ufficiali con lo staff sanitario degli Heat, che durante la visita di idoneità ha riscontrato valori anomali che segnalavano la formazione di un nuovo coagulo.
Bosh quindi a detta dei medici non è idoneo a tornare in campo e Pat Riley, dopo l’ennesimo duro colpo incassato dal giocatore e dalla franchigia, ha lasciato cadere la bomba: “Basandoci sugli ultimi esami fatti, la carriera di Chris è probabilmente finita. Chris ha una mentalità aperta e capisce la situazione, ma noi allo stato attuale delle cose dobbiamo fare un passo indietro definitivo e chiudere la questione riguardante un suo ritorno in campo con noi”. Boom.
What’s Next
Bosh ha già fatto sapere che non intende mollare e che il suo obiettivo rimane quello di tornare a giocare: “I contrattempi capitano, le mie intenzioni non cambiano”.
Lo sforzo per riesumare la sua carriera è eroico ma anche un pizzico incosciente: chi ha sofferto di questa patologia è soggetto a continue ricadute, oltre al rischio di compromettere la propria salute nel medio/lungo termine per la cura a base di anticoagulanti. Nel frattempo il giocatore ha licenziato l’agenzia che lo rappresenta, la CAA, e sta pianificando ulteriori test e il da farsi.
Gli Heat invece hanno tre opzioni percorribili:
Tagliare Bosh. Il suo stipendio - che chiama circa 76 milioni per le prossime 3 stagioni - sarebbe interamente garantito e rimarrebbe a pesare sul salary cap fino alla sua naturale scadenza. Le parti possono tuttavia accordarsi per un buyout che permetterà agli Heat di risparmiare qualche milione.
Scambiarlo, ma è pressoché impossibile che un altro team abbia intenzione di fare un investimento del genere per un giocatore la cui carriera sembra al capolinea, visti i rischi che si porta dietro.
Ritiro medico del giocatore. Ad un anno di distanza dalla sua ultima partita giocata, quindi al 9 febbraio 2017, un medico nominato di comune accordo dalla NBA e dall’Associazione Giocatori esaminerà Bosh e se il suo verdetto sarà negativo gli Heat potranno attivare la procedura di taglio e chiedere la Long-Term Injury Provision. Ciò permetterebbe agli Heat di liberare il salary cap dal suo ingombrante stipendio (che sarà interamente garantito e pagato per l’80% da un assicurazione e per il 20% restante dagli Heat) ed avere meno limitazioni salariali. Se però dopo l’utilizzo di questo particolare tipo di taglio Bosh giocasse almeno 25 gare nella stagione in corso o in quella successiva, il suo salario verrà riconteggiato nel computo del cap facendo incorrere gli Heat in una tremenda luxury tax e inficiando del tutto la propria flessibilità salariale futura.
La situazione è complessa ed i media hanno già iniziato a fare speculazioni: c’è chi sostiene che gli Heat lo hanno costretto a stare fermo durante gli scorsi playoff, nonostante il parere positivo di alcuni specialisti, per tornaconto. Riley con assoluta fermezza e decisione ha voluto smentire queste voci: “Fino all’ultimo abbiamo lavorato per riportarlo sul parquet, qualunque fossero le implicazioni a livello di cap. Contrariamente a quanto perpetrato dai media, siamo sempre stati al fianco di Chris. Eravamo con lui nel 2015 in ospedale. Eravamo fiduciosi che potesse tornare, ma i controlli ci hanno negato la possibilità di andare avanti. Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo fare”.
Sono dichiarazioni forti, alla Riley, ma che esprimono anche una sorta di rassegnazione per una vicenda che ha scosso tremendamente le fondamenta della franchigia. Che gli Heat abbiano fatto davvero di tutto per sostenere Bosh è una cosa che non sappiamo con certezza e forse non sapremo mai. Gli indizi lasciano intendere che ci abbiano realmente provato, ma allo stesso tempo, cinicamente, il mondo va avanti, e delle decisioni devono essere prese.
Come si ripete sempre, la NBA è un business e il compito di Riley è quello di creare per la sua squadra opportunità per competere in un mondo che non fa sconti a nessuno. Anzichè piangersi addosso ed attendere il destino rimanendo in balìa degli eventi, gli Heat hanno cercato di mantenere il controllo su ciò che potevano, costruendo una squadra che prevedesse il ritorno di Bosh ma anche una sua possibile dipartita, con un occhio rivolto al futuro ed alla prossima Free Agency. Non è mai facile rialzarsi dopo un colpo del genere, ma Riley è famoso per essere sempre stato “un uomo con un piano”.
Per la prima volta da anni a Miami prende campo l’ipotesi di rifondare. Quando LeBron James nel 2014 annunciò il suo ritorno a Cleveland, Pat decise di non smantellare la squadra e fare quadrato attorno a Wade e Bosh al motto di “Retool, Not Rebuild” che nel giro di due stagioni ha portato gli Heat a una semifinale di Conference che sarebbe stata ancora più competitiva se in campo ci fosse stato CB1.
Quest’estate, persi Wade e con ogni probabilità Bosh, Riley è stato chiaro ed ha ammesso che “siamo in ricostruzione. Ma ricostruiamo per tornare a vincere da subito, come da nostra abitudine”. La perdita di Bosh apre una voragine a livello di leadership che deve essere necessariamente raccolta da Goran Dragic, che adesso è il veterano di riferimento assieme ad Udonis Haslem. La prossima edizione degli Heat sarà la sua squadra anche da un punto di vista squisitamente tecnico in attesa di comprendere l’evoluzione di Justise Winslow e le risposte che sarà in grado di fornire Hassan Whiteside, chiamato alla definitiva consacrazione dopo il contratto al massimo salariale firmato in estate.
Capire oggi quale sia il reale valore dei Miami Heat è impresa ardua. Se tutti i pezzi vanno al loro posto possono puntare ai playoff e tentare di fare qualche sgambetto, ma il rischio di fare un anno di transizione è forte, qualora le scommesse fatte (su tutti quella di Dion Waiters) fallissero ed i buoni propositi iniziali venissero disattesi. Di sicuro i nuovi Miami Heat saranno una squadra meno talentuosa ma più operaia e frizzante, una "sporca dozzina" che verserà in campo litri di sudore sperando di fare breccia nel cuore dei tifosi.
Una breccia che sicuramente ha fatto lo sfortunato Chris Bosh, che anche nel caso in cui non torni più su un campo da gioco, ha alle spalle una carriera da Hall of Fame basata su due titoli vinti da protagonista e 11 convocazioni all’All-Star Game. Il sito Basketball-Reference la quantifica nel 99.5% di possibilità che un giorno il suo nome venga inserito nell’arca della gloria di Springfield: sarebbe la giusta conclusione per una storia fin troppo triste per essere vera.