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Il lungo e difficile cammino dell'Egitto
19 ott 2017
Il racconto dell'epica qualificazione dell'Egitto ai Mondiali.
(articolo)
21 min
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“Alessandria, finalmente! Alessandria goccia di rugiada. Esplosione di nubi bianche. Sei come un fiore in boccio bagnato da raggi irrorati dall'acqua del cielo. Cuore di ricordi impregnati di miele e di lacrime” (Miramar - Naguib Mahfouz)

Dopo le rivolte del 2011 e la caduta di Mubarak, in Egitto i già labili confini tra sport, religione e politica sono divenuti ancora più porosi. «Quando vieni qui, hai subito piena contezza di come il calcio sia parte del tutto, e di come politica e pallone siano totalmente connesse», disse quasi quattro anni fa Bob Bradley, dal 2011 al 2013 allenatore della Nazionale egiziana.

Il calcio e la politica, in Egitto

In Egitto si dibatte molto su cosa abbia significato la rivolta egiziana del 2011, in un Paese che con il colpo di Stato del 2013 è tornato sotto il controllo di quell'apparato militare che tutti manifestanti, al di là delle differenze politiche, volevano marginalizzare nella gestione della cosa pubblica. Ma in realtà l’esercito, anche durante il breve mandato di Mohammed Morsi, non ha mai abbandonato il controllo dei centri decisionali e dell'economia.

Un’innegabile conquista dei giovani di piazza Tahrir, di cui si è parlato poco, era stata proprio l'appropriazione di quegli spazi pubblici - piazze, palazzi, scalinate, parchi trasformati per la prima volta nella storia del Paese in luoghi del dissenso, di espressione di sentimenti politico-sociali - che prima erano sotto l'eterno ed ingombrante presidio dell'esercito. Anche il calcio è stato investito da questo fenomeno, tanto che nel 2011 a scendere in piazza sono stati anche tantissimi tifosi e ultras dell'Al Ahly, la più vincente squadra del Paese, la cui curva è rimasta uno dei pochi spazi di dissenso nei confronti del regime di Al Sisi.

Tutto è iniziato nel 2012, vero e proprio annus horribilis del calcio egiziano. Dopo una sospensione del campionato di tre mesi nel 2011, nel pieno delle rivolte di piazza, il 1 febbraio 2012 allo stadio di Port Said va in scena il derby tra Al-Masry (i cui ultras sono vicini al regime) e Al-Ahly (i cui tifosi parteciparono invece alle proteste nelle settimane precedenti). Nelle ore seguenti alla fine di quella partita, vinta dall’Al-Masry per 3-1, prende forma quello che è conosciuto come “il massacro di Port Said”.

I tifosi dell'Al-Masry, armati di pietre, coltelli e altre armi (a quanto pare, con il tacito consenso della polizia) invadono il campo e aggrediscono i tifosi rivali fino all'esterno dello stadio. A fine giornata, i feriti saranno più di 500, i morti 74. Il campionato egiziano viene definitivamente sospeso dopo quel giorno, danneggiando peraltro molti club locali, costretti a vendere anzitempo dei giocatori per sopravvivere. Tra questi c’è anche l'Al-Mokawloon, che vende al Basilea prima Salah e poi El Neny, i due giocatori egiziani più affermati.

Come ha scritto James Montague, nel mondo arabo il calcio ha sempre avuto una duplice funzione: strumento utilizzato dai regimi per cementare il nazionalismo e la fedeltà ad esso da una parte, ed elemento di distrazione dalle difficoltà della vita quotidiana dall'altra.

L'ex presidente egiziano Hosni Mubarak lo sapeva benissimo: fu lui a mobilitare i media nazionali e, con loro, l’intero Paese al seguito dei “Faraoni” durante le fortunate qualificazioni al mondiale di Italia '90, l'ultimo a cui ha partecipato l'Egitto. Fortunate, e drammatiche: il match che al tempo permise all'Egitto di garantirsi la qualificazione si disputò il 17 novembre 1989 al Cairo, di fronte a 100.000 spettatori, e vide il successo per 1-0 sull'Algeria. La partita viene ricordata come “la battaglia del Cairo” ma in questo caso la metafora bellica non ha nulla a che vedere con l’epica sportiva perché quella che si scatenò in campo e sugli spalti alla fine del match fu una battaglia in senso letterale, durante la quale il medico sociale dell'Egitto perse addirittura un occhio. Il suo carnefice è stato la leggenda del calcio algerino (pallone d'oro africano nel 1981) Lakhdar Belloumi (che ha sempre negato ogni responsabilità) e nei confronti del quale fu emesso addirittura un mandato d'arresto internazionale, annullato solo anni dopo.

A distanza di vent'anni esatti, per le qualificazioni ai mondiali del 2010 al Cairo arrivò di nuovo la nazionale algerina: i media egiziani, su stimolo questa volta del presidente Mubarak, dipinsero la partita né più né meno come una guerra. Il canale francese Canal+ riprese, poco prima del match, il bus algerino mentre fu attaccato dai tifosi egiziani, che arrivarono a ferire alcuni giocatori.

Il gol del 2-0 per l'Egitto, siglato al novantaseiesimo minuto da Emad Moteab, scatenò il finimondo allo stadio, e prevedibili scontri all'esterno, in cui decine di tifosi algerini vengono aggrediti e alcuni forse uccisi (il ministero della Salute egiziana ha però sempre negato). Nei giorni seguenti si sfiorò ripetutamente la crisi diplomatica: ad Algeri vennero attaccate da alcuni vandali prima una filiale della Egypt Air e poi il quartier generale della Djezzy, una sussidiaria locale del gruppo egiziano Orascom.

A fine partita Egitto e Algeria si ritrovano a pari punti, con la stessa differenza reti generale e negli scontri diretti (3-1 e 0-2). Bisogna giocare il match decisivo – che molti, senza indulgere in particolari metafore, definiscono “il match della morte”– in campo neutro. Viene sorteggiata Karthoum, capitale del Sudan.

Le imponenti misure di sicurezza (15.000 poliziotti, scuole e uffici pubblici chiusi in anticipo) non riescono però a evitare gli incidenti – stavolta viene attaccato il bus egiziano, senza però provocare feriti. Il presidente del Sudan, Omar al Bashir (sul quale pende un mandato d'arresto internazionale per genocidio e crimini di guerra) finisce a fare da mediatore al palazzo presidenziale tra le controparti egiziane e algerine.

Foto LaPresse / Xinhua.

Alla fine vince l'Algeria per 1-0, davanti a 50mila spettatori, che va al Mondiale in Sudafrica. L'Egitto rimane a casa, ancora una volta. Il primogenito di Mubarak, Alaa, in un'intervista telefonica concessa alcuni giorni dopo, dichiara: «Siamo egiziani e teniamo la testa alta, chiunque ci insulta dovrebbe essere preso a schiaffi». Gli fa eco il padre, che promette di «vendicare l'umiliazione subita dai nostri connazionali all'estero». Ci vorrà qualche settimana e una serie di incontri tra rappresentanti diplomatici per riportare la situazione ad una relativa normalità.

Quattro anni dopo, per le qualificazioni al mondiale del 2014, l'Egitto verrà eliminato invece dal Ghana, subendo una sconfitta addirittura per 6-1 fuori casa, all’andata (i “Faraoni” avranno l’amara consolazione di vincere l’inutile ritorno, per 2-1).

L'importanza di Alessandria

Stavolta, invece, l’Egitto, sotto la guida di Hector Cuper, ce l'ha fatta. E non poteva che essere Alessandria il luogo dove gli egiziani sarebbero tornati a gioire tutti per la stessa ragione: aver raggiunto una qualificazione ai Mondiali che mancava da 28 anni, grazie al 2-1 sul Congo, arrivato per giunta all’ultimo minuto. Ventotto anni di ambivalenza emotiva, in cui i “Faraoni” hanno alzato per ben 4 volte la Coppa d'Africa (sono la Nazionale africana che ne ha vinte di più, con 7 successi), senza mai riuscire però ad accedere alla Coppa del Mondo.

Alessandria d'Egitto è il luogo in Egitto dove le cose accadono, praticamente da sempre. Perché se il Cairo è il cervello del Paese, il centro del potere militare che ha governato sin dalla caduta del Regno di Faruq nel 1952, Alessandria ne è la sua storica culla culturale, il suo laboratorio politico più vivace. La sua pancia, anche geograficamente parlando, con un fianco esposto al Mediterraneo e all'Europa, e un altro rivolto verso il delta del Nilo e le profondità dell'Egitto rurale.

Qui, più di due millenni fa, Eratostene provò a calcolare la circonferenza della Terra, sbagliandosi di “soli” 650 km; qui sorse la prima grande biblioteca sul mondo antico, senza la quale probabilmente oggi non avremmo i lavori di Omero, Platone e Aristotele; qui il sapere ellenistico e quello egizio sono arrivati a compenetrarsi, influenzando poi sia l’Europa che la civiltà islamica. Alessandria è stata la prima vera città cosmopolita del mondo.

Alessandria è stata anche la città in cui è stato gettato il primo seme della rivolta del 2011. Era il 6 giugno 2010 quando il blogger Khaled Mohammed Saeed venne prelevato dalle forze di sicurezza in un bar e picchiato a morte. Le foto del suo volto sfigurato furono la miccia delle proteste che inizieranno solo qualche mese dopo.

Lunedì 9 ottobre, invece, Alessandria attendeva.

Le sembianze dell'attesa

È evidente che gli egiziani, potendo, avrebbero giocato Egitto-Congo con la regola del golden gol, tanto era l’attesa e la voglia di andare ai Mondiali russi dell’anno prossimo. Al 62' del secondo tempo El Neny, dalla linea del fallo laterale, lancia un pallone in area verso Salah. Il difensore congolese salta fuori tempo e spizza la palla di testa allungandone involontariamente la traiettoria, tagliando fuori il raddoppio di un suo compagno. Salah si gira di centottanta gradi mentre la palla è in aria, e senza perdere velocità la stoppa a seguire di destro. La sfera sembra scappargli via, ma l’ala del Liverpool riesce comunque ad anticipare l'uscita del portiere Barel Mouko, portando in vantaggio l'Egitto.

Lo stadio esplode e si riversa sul campo di gioco, nonostante manchi ancora mezz’ora al fischio finale. L'intero staff egiziano corre ad abbracciare Salah, assieme a diversi tifosi, che avrebbero pagato di tasca propria per far finire il match in quel momento. Il gioco riprende più di due minuti dopo, quando Salah riemerge dall'abbraccio collettivo e il telecronista Methaat Shalabi finisce di rendere lode a lui e ad Allah.

Nei venti minuti successivi la pigra manovra congolese si infrange sulla resistenza egiziana, con la squadra di Cuper che in un paio di occasioni aveva anche avuto la possibilità di raddoppiare in ripartenza. E invece a 3 minuti dalla fine arriva il pareggio di Bouka, come uno schiaffo a un bambino che non ne capisce il motivo. Dopo aver segnato l'autore del gol incita i suoi senza troppa convinzione mentre torna al centro del campo. Poi ricompone le rughe del viso, la cui espressione nel fermo immagine si presta a diverse interpretazioni. Sembra quasi aver paura delle conseguenze di ciò che ha appena fatto.

Il gol del Congo lascia sullo stadio un velo di brusio perpetuo, fatto di pianti, imprecazioni, bestemmie. Il telecronista cerca di scacciare i fantasmi e ricomporre l'incantesimo, ripetendo “maaleish, maaleish, maaleish, maaleish”: non fa niente, non fa niente, non fa niente, non fa niente. Lo ripete altre volte anche quando il gioco è ripreso, mentre continua a maledire la sorte.

Per i successivi due minuti l'Egitto sembra frastornato, incapace di portare colpi al suo avversario. Potrebbe crollare da un momento all’altro. La reazione nel finale di partita, infatti, è esclusivamente nervosa.

Mahmoud (detto Trezeguet), che ha delle responsabilità per il pareggio del Congo, decide di prendersene di speculari, e nel giro di cinquanta secondi finisce per reclamare tre rigori ai suoi danni, stabilendo probabilmente un record. Prima salta un uomo sulla sinistra, si accentra, chiede l'uno due ad Abdel Shafi e viene atterrato vicino all'area piccola, prima che la difesa del Congo spazi in fallo laterale.

Il rigore forse potrebbe starci ma l'arbitro non fischia. Il gioco va avanti e in area dieci secondi dopo spiove un'altra palla, che Trezeguet stoppa di petto all'altezza del dischetto: il pallone si alza e Mayembo, difensore del Congo, lo sovrasta, prendendo la palla e poi finendogli addosso. Gli egiziani iniziano a chiedere il rigore per qualunque contatto in area. La situazione emotiva nello stadio ormai è precipitata: il telecronista sembra sul punto di esplodere di rabbia, e con lui il pubblico.

L'azione continua: dopo l'intervento di Mayembo, la palla viene alzata a campanile di fronte l'area congolese. Il neo entrato Ndockyt prova a controllarla ma sbaglia lo stop, facendola schizzare sui piedi di Hegazy, sul vertice sinistro dell'area. Il ventiseienne centrale di Ismailia ha un passato da centrocampista e piedi più che discreti: quando gli arriva la palla non la stoppa, si gira su se stesso di novanta gradi e la lascia scorrere sul sinistro. Il pallone sta atterrando sul dischetto, nei pressi di Beranger Idoua, che non si accorge che gli sta passando davanti Trezeguet, che abbatte nel tentativo di anticiparlo. È rigore, come certificato anche dal takbeer (cioè l'atto di gridare “Allah akbar”), ripetuto sette volte dal telecronista egiziano, che non contempla nemmeno la possibilità che l'Egitto quel rigore lo sbagli.

Un minuto e mezzo dopo, sgomberato il campo dagli intrusi, rialzatisi i tanti giocatori egiziani che si erano genuflessi al suolo per ringraziare la Divina provvidenza, anche Methaat Shalabi prova a tornare in se: «Oh Signore, è rigore, oh signore è rigore, è rigore», ripete mentre Salah sistema il pallone sul dischetto. Poi lo accompagna con la basmala (un’invocazione che i musulmani pronunciano prima di compiere un'azione, di iniziare un discorso pubblico, di scrivere un testo): «Nel nome di Dio, il clemente, il misericordioso…». Salah parte, calcia, spiazza il portiere e manda l'Egitto ai Mondiali. Il campo viene invaso nuovamente, stavolta in modo massiccio, anche se manca più di un minuto alla fine.

La voce di Shalabi si fa più debole, lontana, e viene sommersa dalla commozione: sembra quasi che stia chiedendo perdono per qualcosa, implorando pietà. Non si capisce nemmeno se il telecronista sia solo nella sua postazione o se stia abbracciando qualcuno a portata di mano.

Foto di Tarek Abdel Hamid/AFP/Getty Images.

L'annunciatrice dello stadio, Inas Mazhar, rimane in silenzio, sopraffatta dalle sue stesse lacrime: «Tutti piangevano: i giocatori, lo staff, gli ufficiali delle forze di sicurezza», racconta alla Cnn. «Il nostro paese, l'Egitto, il nostro amore, l'Egitto», intona commosso Shalabi durante i festeggiamenti che iniziano non appena l’arbitro fischia la fine.

L’incredibile carriera di El Hadary

Il primo eroe di questa impresa è Essam El Hadary, che potrebbe essere il padre di quasi tutti i giocatori della rosa egiziana. Con Ramadan Sobhi, il giocatore più giovane in rosa, ci sono quasi 24 anni di differenza. Con il secondo giocatore più vecchio dopo di lui – il secondo portiere, Sharif Ekramy – passano precisamente dieci anni.

Essam el Hadary, nato nel villaggio di Kafr al Battikh, nei pressi di Damietta, pochi mesi prima della guerra dello Yom Kippur che gli arriverà fin sotto casa, compirà 45 anni fra tre mesi. Le gioie e le delusioni dell'Egitto dal 1990 in poi, lui le ha vissute tutte. Quando i “Faraoni” si qualificavano a Italia '90, ed El Hadary si affacciava al calcio professionistico, quasi nessuno dell'undici titolare che ha battuto il Congo era ancora nato. In Russia sarà il giocatore più vecchio ad aver mai disputato un Mondiale. E non è detto nemmeno che si fermi, se dovesse decidere di dare ascolto alla profezia dell'amico e attuale preparatore dei portieri dell'Egitto, Ahmed Nagui, secondo il quale El Hadary smetterà dopo i cinquant'anni.

La mimica facciale di El Hadary è unica: i suoi occhi sembrano dei solchi, le sue rughe incisioni di scalpello. Prima del match col Congo, canta l'inno nazionale come se gli avessero affidato un microfono, scandendo tutte le parole a voce altissima. «Egitto sempre nel mio cuore», si legge sul suo sito web, che non è aggiornato da più di cinque anni.

Quando era piccolo, El Hadary ha dovuto superare le resistenze del padre per intraprendere la carriera di calciatore (una storia abbastanza comune in Egitto). Hajj Kamal El Hadary aveva un piccolo negozio con cui manteneva la famiglia, e sin da quando Essam è piccolo gli ricorda che deve studiare, finire la scuola e andare all'Università, se possibile. Non vuole che suo figlio passi la sua vita senza prospettive, a gestire una piccola attività commerciale che non gli permetterebbe nemmeno di trasferirsi in una città più grande.

Essam è d'accordo col padre: non vuole passare nemmeno lui tutta la vita in un chiosco. Ma la sua soluzione non è lo studio, ma il calcio, che invece il padre considera una perdita di tempo. Nasce un conflitto dai contorni aspri, in parte teatrali, tra un padre che pensa a un futuro più sicuro per il suo unico figlio e quest'ultimo che invece insegue il più classico dei sogni infantili. Da piccolo Essam gioca in una squadra locale di Kafr al Battikh, preferendo gli allenamenti ai compiti a casa. In quel periodo, ogni volta che torna a casa dal campo, il padre ritualizza il suo disappunto, bruciandogli davanti agli occhi la divisa d'allenamento.

Il padre lo vuole ingegnere e fa pressioni perché Essam si iscriva ad un liceo di indirizzo agrario. Anche in questo caso Essam è d'accordissimo, ma solo per convenienza: il liceo in questione, infatti, è noto perché ha la miglior squadra di calcio giovanile della cittadina. Poche settimane dopo essersi iscritto, El Hadary diventa il loro portiere, e da quel momento non uscirà mai più dai pali.

Nel calcio provinciale El Hadary è fuori categoria già da giovanissimo, e lo dimostra il fatto che non è solo il miglior portiere di Kafr el Battikh, ma anche il principale marcatore della sua squadra. La leggenda, narrata nella sua biografia, racconta di diversi gol segnati direttamente su rinvio dalla sua area. L’unica certezza che possiamo avere è il suo rinvio, molto potente anche oggi. In meno di un anno i responsabili della sua squadra lo aiutano a entrare a far parte del settore giovanile del Damietta, la squadra più importante della zona.

Il padre, quando capisce che il figlio non intende fare l'università, cerca di ostacolarlo in tutti i modi, negandogli addirittura i soldi per pagare il bus che lo dovrebbe portare agli allenamenti in città, a sette chilometri da casa. Ma El Hadary ha una volontà di ferro e decide di coprire in corsa la distanza che separa casa sua dal centro d'allenamento di Damietta. El Hadary è sempre stato un atleta straordinario, con un fisico ancora oggi sopra la media per un uomo quasi più vicino ai cinquanta anni che ai quaranta, e papà Kamal dovrà arrendersi.

In pochi mesi El Hadary viene promosso a 18 anni titolare della prima squadra del Damietta (Serie B egiziana). Si fanno avanti alcune squadre di prima divisione ma El Hadary decide di rimanere nella sua città, vincendo il premio di miglior portiere della seconda serie. Nel 1994-1995 il Damietta viene promosso in Serie A.

Nel 1994 El Hadary incontra il tecnico olandese Nol de Ruiter, da pochi mesi è allenatore della Nazionale egiziana, che decide di andarlo a vedere una partita del Damietta contro il Port Fouad, in seconda serie, dopo aver sentito parlare di lui. La prestazione è straordinaria e El Hadary diventa di lì a poco il primo e unico portiere della storia egiziana a essere convocato in Nazionale mentre gioca ancora in Serie B. Ma per esordire dovrà aspettare comunque due anni, perché davanti a lui ci sono Thabeet al Batal ed Ekramy Al Shahat (padre di Sherif Ekramy, oggi secondo di El Hadary in Nazionale). Nel 1996 – l'anno in cui si trasferisce nell'Al Ahly, una delle più importanti squadre egiziane, dove totalizzerà oltre 400 presenze in dodici anni di permanenza – ottiene il posto da titolare, e non lo lascerà più.

Quando Salah segna il rigore decisivo contro il Congo, El Hadary è visibilmente il più emozionato e non potrebbe essere altrimenti. Corre fuori di sé verso una telecamera a bordo campo e ci infila la testa dentro. A fine partita, è il primo ad arrampicarsi sulla transenna che separa il campo dai tifosi, dove arringa la folla come un capo ultrà. Poi si sposta sulla traversa, dove rimarrà appollaiato a cantare per mezz'ora, circondato da ragazzi a cui potrebbe dare la paghetta settimanale.

Foto di Tarek Abdel Hamid / Getty Images.

El Hadary ha avuto una carriera legata quasi totalmente all’Egitto anche a livello di club. Nel corso della sua vita El Hadary ha ricevuto offerte dalla Turchia (Besiktas) e dall'Inghilterra (Stoke City, Hull City) ma alla fine – complice anche la reticenza a farlo partire dell'Al Ahly – è rimasto in Egitto fino a tarda età. La prima esperienza all'estero l'ha fatta a 35 anni, nel Sion, dopo un trasferimento molto discusso dall'Al Ahly, che lo ha addirittura multato. L'avventura in svizzera dura un solo anno, dopo il quale El Hadary tornerà in Egitto, prima all'Ismailia, poi allo Zamalek. Nel 2011 giocherà due anni in Sudan, nell'Al Merreikh, uno dei club più antichi d'Africa, per poi tornare in Patria nel Wadi Deghla. Dall'anno scorso difende i pali dell'Al-Taawoun, in Arabia Saudita, diventando il primo portiere straniero a vestire una maglia nella massima serie della monarchia del Golfo.

Uno degli aspetti più sorprendenti di El Hadary, al di là del mantenimento fisico, è il fatto che sia riuscito a sopravvivere nel calcio contemporaneo nonostante la tecnica da autodidatta. Per certi versi si vede che si è formato negli anni '90, con una tendenza a respingere molto di pugno e un certo gusto per i rinvii lunghi. Ma ci sono degli aspetti del suo gioco anche molto moderni, come una marcata predisposizione all'uscita, sia con le mani che con i piedi. El Hadary, in questo senso, è più sweeper che keeper, ma il suo tempismo rimane comunque fondamentale per una squadra che a volte tende a difendersi molto alta. Anche nella partita contro il Congo El Hadary ha messo la sua firma, con due interventi di istinto quasi dalla stessa porzione di area egiziana, quando il punteggio era ancora sullo 0-0.

Non è quindi solo una questione di esperienza, carisma o leadership: El Hadary è ancora il più forte portiere egiziano in circolazione, con un ottimo controllo dello spazio, una reattività fuori dal comune e un’attenzione maturata dal tempo, che gli permette di commettere meno errori rispetto a qualche anno fa. Nel 2012, dopo un Egitto - Costa d'avorio in cui l'allora 39enne prese di tutto, Didier Drogba dichiarò senza mezzi termini: «El Hadary è il miglior portiere che abbia mai incontrato».

Salah, l’eroe nazionale

L'immagine più iconica di Egitto-Congo è quella che ritrae, con una inquadratura strettissima, gli occhi concentrati e impazienti di Mohammad Salah, mentre sta per calciare il rigore del 2-1. Se l'Egitto non avesse vinto, invece, l'immagine scolpita nell’immaginario sarebbe stata quella di Salah che crolla con le ginocchia al suolo, poco dopo il pareggio del Congo.

E questo perché Salah è già oggi una leggenda del calcio egiziano, per i risultati raggiunti in grandi squadre europee e per i gol segnati in Nazionale. Salah con la maglia dell’Egitto ha segnato 32 gol in 55 partite, rendendolo a 25 anni il quinto marcatore della storia egiziana (con una media gol migliore dei quattro che lo precedono, che hanno totalizzato il doppio o il triplo delle presenze).

L'importanza di Salah per gli egiziani, che ormai lo venerano con un vero e proprio culto della personalità, ha raggiunto un tale livello d’astrazione che ormai prescinde dalla reale qualità delle sue prestazioni. Come ha scritto Tom Goodyer, Salahl'idea è sempre più importante di Salah il giocatore. Il giorno dopo la qualificazione, il governatore di Gharbiya, Ahmed Sakr, ha deciso di cambiare il nome della Bassioun Industrial School – che Salah ha frequentato da piccolo – in Mohammad Salah Industrial School.

La figura di Salah, in questo senso, si è inserita in un momento di grande disillusione da parte del pubblico egiziano. La corruzione, l'instabilità politica e la precarietà sociale di questi anni sono in parte la cartina di tornasole di una prolungata assenza, nella società egiziana, di figure universali, non polarizzanti, che fossero in grado di porsi al di sopra delle divisioni settarie e politiche che hanno dilaniato il Paese. Insomma, l'assenza di eroi nazionali, che per definizione sono percepiti sempre come qualcosa di superiore a quello che realmente sono, facendo sì che l'idea di loro soppianti la realtà. In Egitto, poi, le celebrità godono storicamente di un credito che in altri Paesi non concedono.

L'adorazione degli egiziani nei confronti di Salah ha molto a che fare col desiderio di evasione di cui il calcio è vettore. Pur essendosi esposto alcune volte in passato dal punto di vista politico – ad esempio scegliendo il numero 74, come le vittime di Port Said, quando giocava nella Fiorentina – Salah oggi si pronuncia raramente sulla situazione nel suo Paese, che è molto sensibile alla differenza di opinioni politiche.

Salah non arringherà mai la folla come fece Drogba (che invocò la fine della guerra civile nel suo Paese) ma nonostante questo è impossibile non dare una valenza in qualche modo politica ad una figura unificante come quella di Salah, dal momento che la politica è, alla sua radice, la gestione dei rapporti tra le persone.

In un paese che sembra incapace di risolvere le proprie fratture politiche senza ricorrere alla violenza, l’immagine vincente di un campione affermato come Salah che segna il rigore decisivo all’ultimo minuto è esattamente quello che serve al regime di Al Sisi per unire il paese all’insegna di un patriottismo semplicistico ma indubbiamente coinvolgente. In questo senso, Alessandria è stata la cornice perfetta, da un punto di vista simbolico e storico, per un entusiasmo troppo grande e atteso per poter essere contenuto. Il teatro di una storia di emozione collettiva rispetto alla quale i versi iniziali di Mahfouz, se lievemente parafrasati, potrebbero essere l'esergo: Egitto, finalmente!

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