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Il marchese di Del Bosque
03 ago 2015
Intervista a Vicente del Bosque, uno degli allenatori più titolati della storia del calcio.
(articolo)
10 min
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Da giocatore del Bosque era conosciuto soprattutto come uno dei centrocampisti simbolo del Real Madrid degli anni ’70, periodo nel quale vinse quattro Coppe del Re e cinque titoli di Liga. Eppure, è soprattutto da allenatore che del Bosque è riuscito a entrare nella storia.

Dal 1999 al 2012 ha vinto tutto ciò che poteva sedendo sulla panchina del Real Madrid e della Nazionale spagnola. In totale, in qualità di tecnico dei Merengues è stato campione due volte della Liga, una volta della Supercoppa spagnola e ha alzato al cielo due Champions League, una Supercoppa UEFA e una Coppa Intercontinentale. Sulla panchina della Nazionale, per sostituire Aragonés, ha guidato la migliore generazione del calcio spagnolo alla vittoria del suo primo Mondiale e del suo terzo campionato europeo. Grazie alla vittoria del Mondiale re Juan Carlos gli ha assegnato il titolo di marchese.

Nella prima estate libera da impegni ufficiali dal 2011, Vicente del Bosque risponde dal suo cellulare in modalità vivavoce mentre guida per spostarsi da Madrid a Salamanca, sua città natale a soli 120 km dal confine col Portogallo. Sembra rilassato e tranquillo, come in verità sembra anche quando siede in panchina.

Dopo 4 anni finalmente un’estate senza competizioni ufficiali. Come la stai passando?

In realtà noi della Nazionale spagnola siamo sempre al lavoro. Il centro sportivo di Las Rozas (nella periferia ovest di Madrid) è sempre aperto e non c’è solo la Nazionale maggiore a lavorarci. Ora stiamo visionando l’andamento dell’Under-19 impegnata in Grecia. Di vacanze in realtà non ne abbiamo mai tante, anche perché stiamo già preparando la partita decisiva contro la Slovacchia del 5 settembre prossimo a Oviedo (valida per le qualificazioni all’Europeo 2016). In realtà preferisco che sia così, in modo da mantenermi attivo ed evitare di annoiarmi. Il mio lavoro mi appassiona in ogni risvolto.

Vicente del Bosque con la camiseta del Real Madrid, dove ha militato tra il 1973 e il 1984.

Quindi un’estate senza spiaggia?

Beh ora sto andando a Salamanca, ma con la mia famiglia abbiamo una casa a San Pedro de Alcántara, in provincia di Malaga, dove passiamo i mesi primaverili ed estivi. In realtà vado lì per stare con mia moglie e i miei figli, non amo particolarmente la spiaggia, è più un obbligo familiare. Se devo dirti la verità preferisco l’entroterra, che è da dove provengo. Non avendo nipoti posso concentrarmi sui miei figli, che ormai sono grandi e indipendenti. Quindi i miei soggiorni in Andalusia mi aiutano prevalentemente a staccare la spina, indipendentemente dal mare.

Se dico Italia cosa ti viene in mente?

Mi viene in mente di smentire il topico espresso da una cantilena che afferma che il calcio italiano è eccessivamente tattico e difensivo. In realtà al giorno d’oggi non credo esista uno stile vero e proprio di gioco a seconda della nazionalità. Non si deve generalizzare partendo dalla base di luoghi comuni.

E Spagna – Italia non significa per forza tiqui-taca contro catenaccio...

Assolutamente no. Sono le circostanze a contribuire alla creazione di uno stereotipo. Ad esempio noi ultimamente siamo stati molto più efficaci in difesa e poco concreti in attacco, ma ciò non vuol dire che siamo una squadra difensiva. Lo stesso vale per l’Italia, facendo il discorso contrario. Il catenaccio all’italiana è un topico che lascia il tempo che trova e non corrisponde alla realtà dei fatti.

Il 1° luglio 2012 però non c’è stata storia.

Anche quel giorno furono importanti le circostanze. Gli azzurri erano stanchi, avevano avuto un giorno in meno per riposare. Poi il gol a freddo di Silva e l’infortunio di Chiellini incanalarono l’andamento della partita a nostro favore. L’Italia aveva però espresso un ottimo calcio durante quell’Europeo, grazie anche alle imposizioni tattiche di Prandelli, un vero signore, oltre che un grande professionista.

Quella sera la Spagna si impose per 4 a 0 senza schierare neanche un attaccante di ruolo, con Fàbregas come "falso nueve". Cosa ti spinse a rinunciare a Torres, l’unico centravanti di cui disponevi?

Ho sempre preferito utilizzare i calciatori nelle posizioni di campo a loro pertinenti, quindi in teoria avrei dovuto schierare Torres. Ma la qualità dei nostri centrocampisti ci permetteva di attaccare e difendere in modo compatto, con un dialogo costante e ravvicinato. Per questo devo ringraziare il gioco armonioso del centrocampo, che ci consentiva di giocare in profondità per Fàbregas e facilitava gli inserimenti di gente come Silva, che segnò il primo gol. Quel giorno, senza centravanti, abbiamo fatto più gol che in altre occasioni. Anche lì risiede la bellezza del calcio, uno sport che non risente di dogmi precostituiti.

In quel centrocampo c’era un certo Xavi, che ora non solo ha lasciato la Nazionale ma anche il Barça...

Ho sentito spesso dire che la squadra gioca come lo fa il centrocampo. E il caso di Xavi è la dimostrazione più ovvia di questa teoria. È stato un autentico faro, una guida per il nostro calcio.

Il primo a dargli le chiavi del centrocampo della "Roja" fu un certo Luis Aragonés, che ti aveva preceduto e dovette fare i conti con dure critiche prima di vincere.

Ho un bellissimo ricordo di Luis, contro il quale ho anche giocato quando io ero un ragazzino e lui un veterano. Ricordo che quando presi in mano la Nazionale spagnola in molti mi dissero che era il peggior momento, perché la squadra veniva dal trionfo all’Europeo. Per me invece era il miglior momento, perché si era costruito un gruppo vincente con delle solide basi tecnico-tattiche che abbiamo mantenuto. Poi ovviamente gli interpreti sono cambiati, così come gli accorgimenti tattici. Dopo quattro anni eravamo campioni del mondo e nuovamente d’Europa con metà dei giocatori diversi e senza un centravanti nell’undici titolare.

Vicente Del Bosque insieme a Luis Aragonés.

Anche Casillas abbandona la Liga e al portiere lei ha dedicato un articolo molto emotivo sul quotidiano El País. Si è trattato dell’ennesimo addio doloroso di un simbolo del Real Madrid dopo il tuo e quello di Raúl...

Io non sono nessuno per giudicare il comportamento di un club. È vero che nel 2003 ho sentito un forte dolore quando ho abbandonato la panchina del Real Madrid, ma poi la carriera mi ha riservato tante altre gradevoli sorprese. Iker è un atleta e una persona eccellente e io mi sono limitato a esaltarne le qualità.

Casillas debuttò con te diciottenne nel Real per poi ritrovarti in Nazionale. Nella finale di Glasgow nel 2002 contro il Bayer Leverkusen realizzò una prodigiosa parata con un piede, lo stesso piede che fermò Robben nella finale del Mondiale sudafricano.

È un parallelismo interessante, anche se si tratta di due situazioni differenti. A Glasgow Iker entrò nel secondo tempo per César Sánchez e sbarrò la porta con una solidità impressionante, da veterano, nonostante avesse solo ventun anni. A Johannesburg era ormai un capitano maturo che salvò tutti noi con una parata delle sue e poi sollevò meritatamente la coppa.

Un giovanissimo Iker Casillas nella finale di Champions League contro il Bayer Leverkusen.

In precedenza, nei quarti di finale di quel Mondiale, Casillas aveva evitato la capitolazione contro il Paraguay parando il rigore di Cardozo. Credi che fu quello il momento di inflessione positiva per la Spagna?

Credo che la Spagna fosse in qualche modo predestinata a vincere quel Mondiale. Il calcio non è una scienza esatta e se Casillas non avesse parato quel rigore magari avremmo potuto anche vincere 4 a 1, chi lo sa! Quel che è palese è che abbiamo meritato di vincere, ma abbiamo avuto anche fortuna.

Pare anche che quel rigore Casillas non lo parò proprio da solo...

Fu Pepe Reina a dirgli da che parte avrebbe tirato Cardozo. Qualche mese prima, durante il quarto di finale d’andata di Europa League tra Benfica e Liverpool, il paraguayano aveva messo a segno due rigori praticamente identici, tirando sempre alla sinistra del portiere. Reina lo segnalò a Casillas, ricordandogli anche che nella serie di rigori precedente contro il Giappone Cardozo aveva tirato alla destra del portiere e che quindi difficilmente avrebbe ripetuto quell’esecuzione. Dopo aver bloccato la sfera e aver rinviato, la prima cosa che fece Iker fu di rivolgersi a Pepe con uno sguardo diretto e eloquente, indicandolo con la mano come per evidenziare che il merito di quella parata fosse anche suo.

Parliamo di Reina, presenza costante nel gruppo della tua Nazionale. Cosa pensi di lui?

Stiamo parlando di un eccellente portiere e di un elemento fondamentale per l’unità dello spogliatoio. Sia lui sia Valdés avrebbero meritato di giocare di più in Nazionale, ma sono stati importanti a creare un gruppo vincente almeno quanto gli altri che scendevano più spesso in campo.

Quella finale di Johannesburg fu la sublimazione di una cavalcata trionfale. Al momento del gol non ti lasciasti andare a scene di giubilo. Come mai?

Non era ancora il momento di esultare. È vero che mancava poco, ma non era ancora finita e dovevamo gestire il vantaggio.

Durante l’assalto all’arma bianca dell’Olanda Capdevila spazzò via due palloni senza pensarci su due volte, cosa piuttosto insolita per il vostro gioco.

Erano fasi concitate e con così poco tempo da giocare era doveroso diminuire tutti i rischi possibili. Sarebbe stato stupido concedere occasioni agli avversari e in quel momento abbiamo dovuto far leva sulla concretezza, senza troppi fronzoli.

Iniesta e Zidane sono stati due giocatori simbolo delle tue squadre da te allenate e protagonisti assoluti con gol indimenticabili nelle già citate finali di Glasgow e Johannesburg. Chi scegli tra i due?

È impossibile scegliere. Si tratta di due fenomeni, due centrocampisti offensivi completi che fanno girare la squadra a loro piacimento. Stiamo parlando di due dei migliori calciatori della storia e io ho avuto la fortuna di allenarli. In realtà da allenatore ciò che più mi fa piacere è poter confrontarmi con buone persone prima che con buoni giocatori. Ad esempio il Ronaldo che ho allenato a Madrid, nonostante i suoi problemi fisici, oltre a disporre di un gran talento era una persona che ti contagiava per la sua intelligenza naturale, qualcosa che andava al di là del semplice valore calcistico.

Da allenatore hai disputato cinque finali tra Real Madrid e Spagna, vincendole tutte. Sei legato a una in particolare?

Anche qui non posso sbilanciarmi. Ogni finale è importante per vari motivi. Con il Real siamo stati a un passo dal disputarne altre due di Champions League. Sono emozioni irripetibili, perché si sa di essere di fronte a opportunità uniche, senza appello, quindi ognuna ha una valenza speciale e a sé stante.

Tra il Mondiale del 2010 e l’Europeo del 2012 le tensioni tra calciatori di Barcellona e Real Madrid hanno dato il via a una vera e propria guerra mediatica e non solo. Come hai fatto a evitare che il gruppo della Nazionale non ne risentisse?

In realtà io non ho avuto un ruolo cardine. Una volta riuniti, i calciatori stessi si sono resi conto che questa inimicizia non portava da nessuna parte. E quando si è in Nazionale non c’è spazio per le scaramucce interne. È anche giusto che esistano le rivalità nel calcio, perché sono parte integrante di questo sport, ma non devono influire negativamente sul comportamento dei singoli giocatori quando questi si ritrovano in Nazionale.

Rivalità a parte, credi che il calcio moderno abbia fomentato anche razzismo e omofobia?

Non credo che sia colpa del calcio in sé, che direttamente non genera né avversione né razzismo né violenza. Per quanto riguarda la lotta all’omofobia mi sembra stupendo l’esempio tracciato dal Rayo Vallecano con la loro nuova seconda maglietta, un segnale molto forte. Si tratta dell’ennesima iniziativa lodevole di una società molto vicina alla gente e attenta e sensibile al sociale.

Senza Xavi e Xabi Alonso la Spagna si trova davanti a un cambio radicale in mezzo al campo. A livello tattico come pensi di lavorare sul possesso palla senza questi due grandi centrocampisti? Potrebbe bastare il ritorno di Thiago Alcántara?

Dovremmo fare ricorso a coloro che sono rimasti e che già ci hanno dato tanto come Fàbregas, Cazorla, Busquets e Silva, aspettando l’integrazione di giovani come Thiago, Koke e Isco, su cui nutro grande fiducia. In realtà è quasi imbarazzante disporre di tanti giocatori di qualità, perché quasi non so da che parte guardare e qualcuno per forza dovrà finire in panchina.

Messi avrebbe potuto essere "spagnolo". Credi che con lui la "Roja" avrebbe ottenuto gli stessi risultati o paradossalmente il suo gioco sarebbe stato diverso?

Un discorso così ipotetico lascia il tempo che trova. Le azioni individuali di Messi portano notevole equilibrio alle sue squadre, ma non posso dire in che modo avrebbe influito sul gioco della Spagna perché ha scelto, giustamente, l’Argentina. La verità è che se i nostri sono calciatori fortissimi Messi è straordinario. Ultimamente abbiamo puntato su calciatori non nati in Spagna come Diego Costa, ma si tratta di un caso particolare, figlio della globalizzazione del calcio.

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