Shawn Kemp riceve al limite dell'area pitturata, dà brevemente le spalle a canestro e poi gira sul piede perno realizzando un semigancio con la mano destra: uno dei movimenti tipici di "The Reign Man" quando non ha tempo e modo di esplodere in una schiacciata. La palla rimbalza due volte sul ferro ed entra dolcemente: Seattle 94, Denver 93. Nessuno lo sa in quel momento, ma sono gli ultimi due punti della stagione dei Supersonics, testa di serie numero uno a Ovest e miglior squadra della NBA, forte di un record maestoso in regular season: 63 vittorie e 19 sconfitte. Vantaggio del campo assicurato per tutti i playoff, a partire proprio dal primo turno e via via verso la finale: possibile, quasi sicura, perché chi vuoi che batta la testa di serie numero uno? La otto? Suvvia, non è mai successo nella storia della NBA.
E invece è possibile, perché i Sonics sono a gara-5, quella decisiva: hanno vinto abbastanza facilmente le prime due in casa, ma in Colorado la situazione si è ribaltata. In gara-4, finita all'overtime, Seattle si è letteralmente sciolta: tre punti negli ultimi cinque minuti. E adesso, nell'ultima e risolutiva partita, si va ancora al supplementare: 88-88 dopo 48 minuti, grazie al tap-in miracoloso a meno di un secondo dal termine di Kendall Gill per i Sonics. Quindi in teoria tutta l'inerzia del mondo è a favore dei padroni di casa, che hanno rimontato anche otto punti nell'ultimo quarto. Seattle 94 Denver 93: ora si suppone che la squadra più forte gestisca il vantaggio e avanzi al secondo turno di playoff, sudando un po' più del previsto ma tenendo fede al suo status di favorita.
Il Coliseum, che verrà demolito al termine dei playoff, ribolle osservando i suoi idoli, mentre mancano due minuti e mezzo alla fine dell'overtime di gara-5.
Per chi vuole rivedersi la partita intera prima di proseguire.
Kurt e mister Smith
Quella partita, sportivamente drammatica, si gioca il 7 maggio del 1994. Esattamente un mese prima, sempre a Seattle ma dall'altra parte della città, a Lake Shore Boulevard, quartiere residenziale tra i boschi con vista sul Lago Washington, un certo signor Gary Smith era diventato famoso, suo malgrado. Recatosi in una delle tante villette della zona per installare delle luci, come da accordo con i proprietari, suona il campanello. È un giorno (piovoso, normale in una città soprannominata "Rain City") come un altro per lui, un anonimo elettricista con un altrettanto anonimo cognome; però da dentro non risponde nessuno.
Scende verso il garage, da lì si può eventualmente salire verso una delle dépendance dell'abitazione, che ha una specie di porta a vetri. Il signor Smith prosegue la sua ricerca e vede, dentro quella stanza, qualcosa che gli appare come una bambola a faccia in giù. Tutto regolare: conosce, seppur senza averli mai visti di persona, i padroni della casa, che di oggetti del genere ne collezionano parecchi. Tuttavia quella è una bambola strana, perché sembra perdere sangue: non tantissimo, ma si nota anche da fuori. E poi c'è un foglio di carta, forse una lettera, in mezzo a parecchio disordine, compreso un fucile. No, altro che oggettini o collezionismo: c'è un cadavere nella bella villetta di Lake Shore Boulevard.
Quando arriva la polizia il quadro è molto più chiaro: il corpo senza vita è quello del padrone di casa, Kurt Donald Cobain. Probabilmente, in quel momento, una delle persone più celebri del mondo: è il cantante e leader dei Nirvana, il gruppo musicale che negli ultimi anni aveva frantumato ogni record di vendite, diventando un simbolo per i giovani, un punto di riferimento in ogni angolo del pianeta grazie al "grunge", il nuovo rock alternativo. Non c'era adolescente che non avesse nel proprio armadio una camiciona a quadri, look tipico di questo stile rampante, in realtà preso da quello dei boscaioli dello stato di Washington.
Una delle ultime performance dei Nirvana è stata in uno studio Rai.
In compenso nessuno sapeva nulla di Cobain da una settimana, cioè da quando era scappato da un centro di disintossicazione in California. Una roba che a pensarci mette ancora oggi i brividi: come si può fuggire da un luogo in teoria super controllato come un "rehab", prendere un aereo senza problemi, arrivare nel proprio appartamento e lì, il 5 aprile 1994, farla finita con un colpo di fucile in faccia? Suicidio, apparentemente non ci sono dubbi: d'altronde ci aveva già provato pochi mesi prima, a febbraio, mentre era a Roma assieme alla moglie Courtney Love, anche lei cantante e leader del gruppo "The Hole". Un sonnifero dopo l'altro misto a champagne, l'overdose, il coma, il ricovero, il lentissimo recupero. Doveva essere una vacanza romantica per una delle coppie più scandalose dello star system: belli e dannati, rock, droga ed eccessi, una figlia, Frances Bean, che da più parti volevano venisse affidata a qualcuno di più stabile. Insomma, la coppia "maledetta" per eccellenza. Talmente maledetta che nel corso degli anni si sono accavallate teorie più o meno complottistiche che hanno indicato in Courtney la mandante dell'omicidio del marito, al fine di intascarsi la ricchissima eredità.
Una squadra rock
I Seattle Supersonics di quegli anni sono una squadra tremendamente rock. O perché no, grunge, parola che significa "sporco/trasandato". Lontano, seppur non troppo, il ricordo del titolo NBA del 1979 con Lenny Wilkens in panchina e in campo Jack Sikma (quello dell'omonimo e semi-immarcabile movimento, da spalle a canestro a fronte a canestro con una semplice piroetta sul piede perno e tiro immediato) nella sempre equilibrata Western Conference (tre vincitrici diversi nelle ultime tre stagioni: Lakers, Blazers e Suns), hanno un loro stile ben riconoscibile. Ed è come se fosse un assolo di chitarra distorta, di batteria martellante: i due leader si chiamano Gary Payton e, l'abbiamo già incontrato, Shawn Kemp.
Sono il play e l'ala grande, in una NBA che ancora è quella dei ruoli fissi, o quantomeno senza "unicorni" sul parquet. Entrambi sono arrivati via Draft, nel 1989 Kemp e nel 1990 Payton, e si sono imposti piano piano. Utah ha Stockton-to-Malone? Bravi, sì, un po' troppo precisini, troppo puliti, d'altronde vivono pur sempre tra i mormoni: i Sonics hanno tutt'altro tipo di ritmo. Gary Payton è "The Glove", "il guanto", perché come difende lui nessuno (ad oggi è l'unico playmaker ad aver mai vinto il premio di Miglior Difensore NBA): viene da Oakland, come poi sarà Jason Kidd, e se può stordirti o intimidirti parlandoti faccia a faccia non si tira indietro. È il re incontrastato del "trash talking": sfacciato, un po' più alto rispetto agli altri playmaker, ama andare a giocare in post basso per sfruttare questo vantaggio corporeo. Può vantare già una copertina di Sports Illustrated ancora prima di entrare tra i professionisti.
La spettacolare intesa sopra il ferro tra Payton e Kemp.
I suoi assist vengono recapitati nelle mani non sempre dolcissime, ma accompagnate a un corpaccione ultra-esuberante, di "The Reign Man", Shawn Kemp: una doppia doppia che cammina, più una certa predilezione per le giocate spettacolari (una sua schiacciata in testa ad Hakeem Olajuwon, non proprio l'ultimo arrivato, finirà sulla copertina di un celebre videogioco) e una tendenza al disordine sentimentale (l'ultimo tassametro diceva sette figli) e ben meno di un occhio al peso-forma. È anche il più giovane della squadra, con i suoi 24 anni. Voce baritonale, è molto legato alla madre sin da quando lei ha divorziato dal padre, quando Shawn era poco più che un neonato.
Intorno a loro giostra un ristretto gruppo di specialisti. L'equilibratore, a sorpresa, non è nemmeno americano: in una NBA lontana parente dell'attuale, globalizzata e piena di "stranieri", spicca l'intelligenza cestistica di Detlef Schrempf. Tedesco di Leverkusen ma prodotto proprio di un'università locale, quella di Washington, è arrivato in estate via scambio: agli Indiana Pacers, di cui era una stella da quasi 20 punti, 10 rimbalzi e 6 assist a partita, sono finiti Derrick McKey e Gerard Paddio. Prima di Nowitzki, il più grande cestista della storia del basket in Germania, due volte premiato come Sesto uomo dell’anno, ambidestro e capace di giostrare praticamente in ogni ruolo a parte il playmaker. Curiosamente, anni dopo, il Schrempf fotograferà così il giovane Dirk, appena sbarcato ai Mavericks dove aveva militato anche lui: «Non farà strada, non sa giocare». Come Detlef, del resto, tanti altri addetti ai lavori cadranno nell'equivoco.
Comunque, Payton-Kemp-Schrempf sono la spina dorsale dei Sonics, gli intoccabili: per il resto il minutaggio è abbastanza equamente suddiviso. Kendall Gill è l'altra guardia titolare, quello del tap-in miracoloso a un secondo dal termine di gara-5 con Denver. Notevole atletismo pure lui, è arrivato nell'estate del 1993 da Charlotte con cui non si è lasciato benissimo, in uno scambio con Dana Barros ed Eddie Johnson. Non accettava di fare da terzo violino ad Alonzo Mourning e Larry Johnson. Con lui si alterna soprattutto il miglior rubapalloni della lega, statistiche alla mano: Nate McMillan, uno che non si sposterà mai da Seattle, almeno da giocatore.
In alternativa c'è Vincent Askew, il più classico dei journeymen, con un passato anche in Italia (Fortitudo Bologna, Udine, Reggio Emilia), due volte MVP della CBA, l'altra lega professionistica americana, dove si giocava, diciamo così, un po' più a briglia sciolta. In rosa, a proposito di Italia, un ragazzino che non scende quasi mai in campo ma che di lì a qualche anno conterà qualcosa in Europa: Alphonso Ford.
Il ruolo dove forse Seattle è più scoperta è quello del pivot, dove i minuti se li giocano in due. Titolare sarebbe Michael Cage, entrato nei paragrafi di storia NBA non sempre dalla parte giusta: tipico centro longilineo da anni ‘90, fisico michelangiolesco e muscolo guizzante, nel 1988 coi Clippers era stato il miglior rimbalzista della lega con uno stratagemma. Per battere Charles Oakley all'ultima partita di regular season avrebbe dovuto acchiappare 28 palloni; morale, finì con 30, ironia della sorte contro Seattle. Una furbata "alla David Robinson", che proprio in quella primavera del 1994 vinse la classifica marcatori segnando 71 punti all'ultima partita; quelli che gli servivano per arrivare primo in graduatoria. In una lega dove i centri non tirano praticamente mai da tre, Cage contribuisce ad alimentare la tendenza: in carriera non ha mai messo una tripla in NBA, sbagliandone 25 consecutivamente, record che solo Zaza Pachulia avrebbe frantumato nel 2018.
In compenso il suo cambio è un giocatore diametralmente opposto: è un pivot che non disdegna affatto il tiro da tre, ha lo sguardo di uno che si è appena alzato dal letto, e non a caso è soprannominato "The Big Smooth", "il morbidone", anche perché in quanto a testosterone siamo un filo indietro rispetto agli altri. Però, di nuovo, la mano dall'arco è eccellente visto che tira attorno al 40%: è Sam Perkins, campione NCAA con la North Carolina di Michael Jordan e James Worthy nel 1982. Curiosamente entrambi i centri di Seattle sono mancini.
Ad allenare la squadra, e chi altrimenti, una persona speciale. Uno che ad oggi è sopravvissuto a tre tumori e ha vinto oltre mille partite in NBA, pur senza mai conquistare il titolo: George Karl, uomo di basket se ce n'è uno, ruvido quanto basta, sempre fedele ai suoi principi. Come scrive Curt Sampson, suo amico e biografo, in “Full court pressure” (una sorta di diario della stagione 1993-94), Karl non sopporta i “giocatori moderni”, quelli arricchitisi in fretta dopo l’esplosione degli stipendi della NBA e che hanno perso la voglia di sbucciarsi le ginocchia, specie in difesa. Non va nemmeno molto d’accordo con le superstar che si trova in squadra: nelle sue prime esperienze NBA, a 33 anni con i Cleveland Cavs, aveva preso di mira World B. Free, mentre ai Golden State Warriors il nemico giurato era stato Joe Barry Carroll, prima scelta assoluta al Draft ma non sempre interessato al basket, tanto che a volte in spogliatoio si presentava con il Wall Street Journal e che è passato alla storia anche col nomignolo di “Joe Barely Cares”, a Joe interessa a malapena.
Dal gennaio del 1992 George Karl, passato anche dalle panchine della CBA, è il capo-allenatore dei Sonics; li prende nel mare magnum della mediocrità, dopo aver mollato senza troppe remore il Real Madrid (“Jugamos como mujeres”, “Giochiamo come donne”, era stata una sua celebre espressione, nel suo spagnolo basico, dopo una sconfitta), e li porta alle migliori stagioni di sempre, a parte quella del titolo NBA. È un crescendo continuo: 47 vittorie in regular season, poi 55 nel 1993 e 63 nel 1994. Ai playoff è mancato sempre qualcosa, vedi la sconfitta in sette partite nella finale della Western Conference contro Phoenix dell’anno precedente, ma in città si pensa che sia solo questione di tempo per il titolo: in fondo quel campionato è il primo, da quando è entrato nella lega, senza Michael Jordan, che ha lasciato i Bulls per darsi al baseball. Un interregno che i Seattle Supersonics pensano di sfruttare.
Seattle Sound
"It's better to burn out than to fade away": è questo l'epitaffio che lascia Kurt Cobain nella sua lettera di addio al mondo. "Meglio bruciarsi in fretta che spegnersi poco a poco", che in realtà è un verso di una canzone di Neil Young del 1979, "My my, hey hey". Il leader dei Nirvana, che non era nato a Seattle ma ad Aberdeen, in una zona più rurale e boscosa del sud dello stato di Washington, nel 1967, lascia i suoi fan attoniti: saranno molti, purtroppo, ad emulare i suoi gesti nei giorni successivi. Quando verranno fuori, appunto, i dettagli strazianti dell'ultimo periodo, compresa la fuga dal "rehab" e addirittura l’assunzione da parte di Courtney Love di un investigatore privato per capire dove fosse finito il marito. Quella di Cobain era stata una vita perennemente in salita, dalla separazione dei genitori quando aveva 7 anni alle malattie croniche (ulcera cronica perforante, che lo porterà al consumo regolare di eroina dopo aver abbandonato le medicine "normali", e la narcolessia, ovvero l’addormentarsi repentino senza preavviso), fino agli espedienti per arrangiarsi, incluso un periodo trascorso sotto i ponti, e ricordato nell'essenziale "Something in the way", ultima traccia a parte la bonus track "nascosta", "Endless nameless", del celeberrimo album "Nevermind".
Già, "Nevermind", ovvero "Non importa, lascia perdere": il disco che ha rivoluzionato, a partire dal settembre del 1991, il concetto di rock alternativo, ma anche il costume e un certo tipo di fare musica. La copertina con il neonato sorridente nell'acqua di una piscina che tenta di agguantare una banconota, i milioni di copie vendute, la scalata alle classifiche, con Michael Jackson detronizzato e un grido chiarissimo da parte di una generazione: bisogna darci un taglio con un certo passato, l'edonismo reaganiano e la guerra in Iraq. E Seattle a fare da grancassa, città di eccellenze (Microsoft), non solo piovosa ma pure "Emerald", di smeraldo, e che già in passato aveva avuto un musicista di livello planetario con tale Jimi Hendrix.
E poi, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, il boom: raramente si è vista una concentrazione di talento musicale in una città così fuori dai normali radar. Arrivano i grandi gruppi e i grandi leader, i Nirvana sono quasi gli ultimi della fila in ordine temporale: Soundgarden, Alice in Chains, Mudhoney e Pearl Jam (che inizialmente si chiamavano "Mookie Blaylock", in omaggio al play degli Atlanta Hawks, e il cui primo grosso successo sarà l'album "10", dal numero di maglia proprio del giocatore). Più, appunto, il gruppo di Cobain, che come ulteriori membri conta su un figlio di immigrati croati alto due metri al basso, Krist Novoselic, e un ventenne dell'Ohio, attuale leader dei Foo Fighters Dave Grohl, che entra a sostituire il primo batterista, Chad Channing. La locale etichetta SubPop è il grande collante: pubblica i singoli e gli album di tutti questi gruppi, creando quello che a tutti gli effetti è il "Seattle Sound", prima che poi le varie band vadano a fare i soldi veri con le major.
Lo speciale di VHS1 sulla scena di Seattle.
Succede così anche ai Nirvana, che dopo "Bleach" del 1989, disco con zero fronzoli e prodotto con pochi spiccioli (vi compare anche, come secondo chitarrista, un certo Jason Everman, che si dice abbia solo prestato 606 dollari alla band per contribuire all'album, senza in compenso suonare nemmeno una nota), passano alla Geffen, dove firmeranno "Nevermind", appunto, e i due lavori successivi, gli unici con Cobain vivo: "Incesticide" (1992) e "In Utero" (1993). Il celebre "Unplugged in New York" e il live "From the muddy banks of the Wishkah" usciranno a Kurt deceduto, quando già la band si era sciolta. Operazioni più che altro commerciali, come la raccolta "Nirvana" del 2002, contenente un mucchio di inediti.
Settembre 1991-aprile 1994: due anni e mezzo. Tanto sono durati i Nirvana, diciamo così, in ambito mainstream: in fondo, poco più di una meteora. Persino i Seattle Supersonics di George Karl hanno resistito un po' di più.
I giovani Nuggets
Seattle affronta Denver con una qual certa spavalderia: in fondo tra le due squadre in regular season ci sono state 21 vittorie di differenza. Però negli scontri diretti hanno raccolto entrambe due successi a testa, col fattore campo sempre rispettato. I Nuggets, alla prima stagione col nuovo logo (via lo skyline di Denver e dentro il profilo delle montagne), sono la squadra più giovane della NBA, con un paio di eccellenze individuali: nessuno nella lega tira i liberi meglio di Mahmoud Abdul-Rauf (nato Chris Jackson e convertitosi all’Islam, 95% abbondante dalla lunetta: roba da fantascienza), ma soprattutto l'area pitturata è presidiata da uno dei più forti stoppatori e intimidatori nella storia dell'NBA, Dikembe Mutombo. Uno che prima della pallacanestro faceva il portiere a calcio. Il terrore da parte di qualsiasi attaccante di vedersi sventolare sotto il naso il famoso "ditone", come a dire "qua non passi", è attuale ancora oggi.
Eppure le prime due partite della serie playoff vanno via lisce: Seattle controlla ed è a un passo dalla semifinale di conference. Sugli spalti del Coliseum fioccano cartelli con la scritta "Sweep, sweep" e il simbolo della scopa: il 3-0 è quasi nell'aria, Shawn Kemp in un'intervista ingenuamente si augura di andare "a conquistare anche gara-3 per ottenere un po' di riposo". In spogliatoio, al contrario, il clima è tutt'altro che piacevole: nell'intervallo di gara-2 scoppia una rissa, con minacce di morte, tra Gary Payton e Ricky Pierce, uno dei veterani ma in netto calo fisico. Ne parlerà anni dopo George Karl nella sua autobiografia: una giocata non ottimale in difesa, gli insulti e le botte, dopo che qualcuno aveva ventilato l'ipotesi di risolvere la contesa come all'Ok Corral, con le pistole. Non era necessariamente una novità, visto che quei Sonics erano noti per prendersi a male parole tutti i giorni, ma qui si va un po’ oltre persino per i loro standard.
I Nuggets comunque sono una squadra compatta e giovane: l'unico un filo in là con gli anni (30) è il capitano, Reggie Williams, alla settima stagione tra i pro; tutti gli altri tra le tre e le cinque. Un paio di buone scelte al Draft come LaPhonso Ellis e Brian Williams (che si cambierà il nome in Bison Dele, vincerà un titolo con i Bulls per poi scomparire nel nulla durante una gita in barca) completano l'ossatura. L'allenatore è Dan Issel, già a Denver come giocatore di ottimo livello, alla prima esperienza da tecnico, uno dei pochi colleghi con cui Karl va d’accordo, stando sempre al libro di Sampson: è uno che non le manda a dire, e con la franchigia del Colorado in carriera saranno alti e bassi anche clamorosi, in panchina e dietro la scrivania.
Dal 1988, comunque, i Nuggets non arrivavano ai playoff, dall'era pre-Mutombo, che sarà a lungo il loro giocatore più rappresentativo. In questa gara-5 la pressione è ovviamente tutta sui Sonics; che non sono più la squadra col miglior rating offensivo della stagione regolare (109.6), o quella con la seconda percentuale reale dal campo (primi i Suns), e nemmeno quella che il 14 aprile aveva mandato in doppia cifra dieci giocatori, record NBA, nel 150-101 contro i Clippers. È diventata un'accozzaglia di zavorrati, che per la maggior parte del tempo - nella partita più importante dell'anno - non sanno cosa fare: e così arrivano ben dodici stoppate dei Nuggets, di cui otto del solo Mutombo. Forse non avere un centro in grado di reggere il confronto con l'africano (31 stoppate nella serie, una media irreale di 6.2 a gara, un terzo su tiri di Kemp) non aiuta. Oggi, chissà, un allenatore direbbe ai suoi lunghi di attrarre fuori dall'area quegli intimidatori, magari col tiro da tre, ma nel maggio 1994 non è una tattica usuale. Riguardando questa partita sembra un altro sport.
Tutte le volte che Mutombo ha detto di no durante la serie.
Eppure si va ai supplementari, 88-88: la terza e la quinta miglior difesa della NBA a confronto per una sfida a basso punteggio, decisiva e tesa. Il miracolo di Kendall Gill sembra, per l'appunto, aver girato l'inerzia della partita: in due occasioni, poi, Denver nell'overtime, commette infrazione di 24 secondi. Fino al canestro di Kemp, a due minuti e mezzo dal termine: 94-93, e forse la paura per Seattle (che nel terzo quarto era stata avanti anche in doppia cifra prima di impantanarsi, sbagliando anche qualche libero di troppo come in gara-4, finita all’overtime per due errori dalla lunetta sempre di Kemp) è passata. Nuggets sulle ginocchia, dopo essersi spinti con un pazzesco contro-parziale fino all'80-72 nel quarto periodo.
Teen spirit
Sensibile, timido, sessualmente ambiguo: Kurt Cobain non se l'è mai sentita di diventare il rappresentante di una generazione. Non era nelle corde di uno che nell'album "Bleach" si definiva "Negative creep", un tipo sgradevole. E che scriveva testi che trasudavano fastidio: "In Utero", che doveva intitolarsi “I hate myself and I want to die”, in alcuni tratti sembra un elenco di malattie (un pezzo si intitola semplicemente “Tourette’s”, come la sindrome di cui, ironia della sorte, soffre Mahmoud Abdul-Rauf dei Nuggets) di uno che voglia scrollarsi di dosso una certa patina costruitagli addosso. Non a caso Cobain chiamerà sua figlia Frances (Bean) in onore di Frances Farmer, attrice proprio di Seattle dell'epoca post-muto finita poi lobotomizzata, alcolizzata e abbandonata da tutti; a lei, all'artista, Kurt dedicherà un brano dell'ultimo album dei Nirvana, "Frances Farmer will have her revenge on Seattle", dove compare un verso emblematico, nel ritornello, "I miss the comfort in being sad", mi manca il piacere della tristezza.
Altro che "Teen spirit", lo spirito adolescenziale su cui quasi tutti hanno sbagliato interpretazione. "Smells like teen spirit", l'inno dei Nirvana, la loro canzone più conosciuta, la hit che ha fatto da spartiacque nel rock, era nata da un equivoco. "Teen spirit" non aveva nulla di mistico dietro di sé, ma solo una marca di deodorante che Cobain utilizzava da ragazzo. Il video, poi, le majorette con il simbolo dell'anarchia sul costume, il pogo dei ragazzi in una palestra, le urla, la nebbia: tutto di facile consumo, tutto semplice. E i riferimenti alle armi da fuoco nei primi tre brani di "Nevermind", quindi anche in "In bloom" e "Come as you are": "He is the one who likes [...] to shoot his gun", "I swear that I don't have a gun", lui è quello a cui piace sparare con la sua pistola, giuro che non ho una pistola. O "Lithium", una sorta di "Negative creep" aggiornata, dove il "tipo sgradevole" si sfoga verbalmente contro gli altri ("I'm so ugly but that's ok 'cause so are you", sono così brutto, ma va bene, perché anche tu lo sei); testi come slogan, "God is gay” nella caotica "Stay away". È un attimo, diventare il leader di qualcuno che ne sta cercando.
Per capire Cobain non basta fermarsi ai singoli da classifica: sia "Nevermind" che "In utero" sono pieni di segni nascosti, o quantomeno da cercare bene. "Amo me stesso più di te, so che è sbagliato, ma che posso farci?", grida il leader dei Nirvana in "On a plain"; una dichiarazione d'intenti del tutto antipatica, presa così. Due anni dopo, nell'ultimo album prodotto da vivo, il disco inizia con "Serve the servants", e i versi "La rabbia giovanile ha pagato bene, adesso sono annoiato e stanco"; Kurt ha 26 anni e si è già rotto le scatole, tanto che chiederà, in un successivo pezzo, il controverso "Rape me", di "essere stuprato ancora". "In utero" finisce con "All apologies", considerato dai critici una sorta di testamento spirituale (succede sempre così), ma che effettivamente finisce con la nenia "All in all is all we all are", dopotutto è ciò che siamo tutti. Più che un testamento, una richiesta d'aiuto che nessuno ascolterà. Fino al suicidio dell'aprile 1994, i mancati progetti con Michael Stipe dei Rem e l'ammissione, nella lettera d'addio, di "non poter essere a suo agio con il pubblico come Freddie Mercury" e di “sentirsi come uno che timbra il cartellino ogni volta che sale sul palco”.
Poteva dunque essere una persona così, un ragazzo così, il presunto leader di una generazione?
Il terrore del ditone
Terza infrazione di 24 secondi nel supplementare: Mutombo nemmeno riesce a tirare, guardato a vista da Perkins che ha cinque falli. Allora forse sì, la strada è in discesa per Seattle dopo la grande paura, sul +1 e con la palla in mano. In compenso il terrore che incute l'africano dall'altra parte del parquet è tangibile: Payton abbozza una penetrazione, al pivot di Denver è sufficiente alzare il braccio per costringere "The Glove" allo scarico per Gill, che però non se l'aspettava. Prova inutilmente a tenere la palla in campo, col solo risultato di farla sbattere su Schrempf, che era arrivato ad aiutarlo; possesso Nuggets, di nuovo, mentre il ghigno di Karl in panchina sembra presagire il peggio.
Porta palla Robert Pack, l'uomo del destino per Issel in questa serie: è il play di riserva, ma siccome Abdul-Rauf (che qualche anno dopo sarebbe passato anche da Roseto) ha combinato più guai che altro, viene cavalcato a oltranza e dal terzo quarto in avanti non esce mai, regalando anche un paio di schiacciate degne di gente molto più alta di lui. E pensare che al Draft del 1991, pur rendendosi eleggibile, non era stato scelto da nessuna squadra. In cinque partite contro i Sonics Pack segnerà sei triple, tante quante ne aveva realizzate in tutta la stagione regolare (su 29 tentativi): chiuderà gara-5 con 23 punti e 4 assist. L'ultimo è per Laphonso Ellis che riceve sotto canestro, evita Perkins e segna, subendo uno sciocco fallo di Payton, che ha preso un colpo al piede nel primo tempo e non è al 100%: Denver mette anche il libero e si trova 96-94, il Coliseum è ammutolito anche se di tempo ce n'è, circa un minuto e mezzo.
Dopo il timeout i Sonics ripartono con un attacco confusionario, tuttavia Schrempf si ritrova la strada spianata verso un appoggio o addirittura una schiacciata, che poi è quello che tenta. Quasi dal nulla, però, riecco il ditone: Mutombo si alza e stoppa il tedesco, Brian Williams controlla l'ennesimo rimbalzo (alla fine saranno 19, partendo dalla panchina) e lancia il contropiede che non si concretizza. Palla persa Denver, ormai allo stremo, break di Payton in campo aperto, ma le follie non sono ancora finite: uno dei migliori rubapalloni della lega si fa scippare da Pack, che gli passa quasi sotto le ascelle. L'attacco successivo dei Nuggets finirà di nuovo con un infrazione di 24 secondi: non c'è un briciolo di schema, se non quello di lasciar trascorrere il tempo.
Trenta secondi e palla in mano a Seattle: è il possesso decisivo e si va dall'uomo-franchigia. Shawn Kemp, di nuovo in post basso, stavolta non va verso il centro ma cerca la linea di fondo per un comodo appoggio al vetro: Mutombo, che come sempre lo marca, rimane disorientato dal primo passo, ma con un balzo felino, non si sa bene come, arrivando da dietro riesce ancora a stoppare il numero 40 biancoverde. Un atleta semplicemente spaventoso, che vince l'ennesimo duello con un altro atleta fisicamente al top. Pack subisce fallo, segna due tiri liberi e dà due possessi di vantaggio ai suoi: 98-94.
Il morale con cui i Sonics si ripresentano in attacco è molto più giù dei proverbiali tacchi: due giocate che normalmente avrebbero portato almeno quattro punti sono invece finite con altrettante stoppate. Segnare, anche solo con un rimpallo, deve sembrare una vera impresa per i ragazzi di Karl: e infatti anche l'ultima azione è un continuo sbattere su un muro di gomma, perché Perkins sbaglia due tiri (uno è stoppato, ancora, stavolta da Brian Williams, onnipresente); il disperato tentativo da tre di McMillan non arriva neanche al ferro e Mutombo è lì che troneggia, tiene il pallone in alto sopra la sua testa. Al suono della sirena crolla a terra, sempre con la palla in mano, quasi in lacrime, in una delle immagini più iconiche della NBA degli anni Novanta.
Upset City.
È successo davvero: per la prima volta la testa di serie numero 8 ha eliminato dai playoff la numero uno, la squadra che aveva vinto più di tutti in regular season. Solo nel 1999 e nel 2007 sarebbe ricapitato, con i Knicks capaci di far fuori Miami e poi, ma questo al meglio delle sette partite, Golden State Warriors su dei Dallas Mavericks dal record ancora più incredibile, 67-15 in stagione regolare.
Dice Karl: «Noi eravamo tesi, loro spensierati: abbiamo pagato la pressione». E McMillan, che poi diventerà allenatore dei Sonics dal 2000 al 2005, è sotto choc: «Domani mi sveglierò senza sapere cosa fare, ed è appena maggio». Dura per chi credeva di andare avanti fino a giugno. Qualcuno rimpiange il non essere rimasti a Denver tra gara-3 e 4 per acclimatarsi meglio all’altura, ma ormai è troppo tardi.
Oklahoma City
In uno degli ultimi timeout della partita tra Sonics e Nuggets al Coliseum decidono di sparare a tutto volume proprio "Smells like teen spirit". Cobain è morto da un mese, ma le sue canzoni restano. Non servirà ad aiutare Payton e compagni, che comunque negli anni successivi invece di inabissarsi, come sarebbe stato normalissimo dopo un contraccolpo del genere, reagiranno alla grande. Di nuovo fuori al primo turno dei playoff nel 1995, stavolta non da favoriti assoluti contro i Los Angeles Lakers; ma nel 1996, finalmente, ecco la vittoria nella Western Conference.
La squadra qualcosina ha cambiato: oltre a Sam Perkins come centro c'è Ervin "not so Magic" Johnson, onesto randellatore a dispetto del nome, mentre Kendall Gill, quello dell'illusorio tap-in, è stato rispedito a Charlotte per Hersey Hawkins e David Wingate. È un gran bel colpo, soprattutto perché Hawkins nel sistema di George Karl si integra alla perfezione: segna e difende (1.8 rubate a partita), come quarto violino è un lusso, dato che quando era ai Philadelphia 76ers, qualche stagione prima, viaggiava a oltre 20 punti di media.
Morale, nella primavera del 1996 si conclude un’altra annata memorabile: 64 vittorie, meglio del 1994. C'è un problemino, in compenso: nonostante questa valanga di successi in stagione regolare qualcuno ha fatto meglio (72), e in un'eventuale finale NBA avrà il fattore campo. Sono i Chicago Bulls, con Michael Jordan che nel frattempo è tornato a pieno regime. E in effetti il titolo se lo giocano i Tori e i Sonics. Payton marca MJ in uno dei duelli più spettacolari della storia dei playoff, provandoci in tutti i modi, ma non è sufficiente: Seattle lotta, va sotto 3-0 per poi vincere due volte in casa, ma in gara-6 non c'è scampo. Prima tacca del secondo three-peat dei Bulls di Phil Jackson. E pensare che due anni prima era quasi fatta per lo scambio Shawn Kemp-Scottie Pippen, saltato all’ultimo momento per un repentino cambio di idea del proprietario dei Sonics, spaventato dalla possibile reazione dei suoi tifosi.
La città non si è mai spenta, nel frattempo. Nirvana o meno ci sono gli altri gruppi, c'è un certo livello intellettuale che rimane, e una rabbia sotterranea che esploderà nel 1999, quando i violenti scontri durante una riunione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio porteranno alla nascita, almeno nel gergo, del movimento no-global, alias "Popolo di Seattle". Lo stesso popolo che nel 2008 tenterà un'altra sollevazione, molto meno violenta, per impedire il trasferimento della franchigia a Oklahoma City, senza riuscirci. Le ultime stagioni erano state deprimenti, nonostante l'arrivo via Draft di qualche giovane interessante: Jeff Green, per esempio, ma soprattutto un ragazzo di 2.11 che gioca con una leggerezza e una classe quasi irritanti, un certo Kevin Durant.
Senza nulla togliere ai Thunder, da dieci anni in NBA c'è un enorme buco. Seattle negli States non è una città come le altre (peraltro negli ultimi dieci anni, pur senza basket, la popolazione è cresciuta di 100.000 abitanti), e i Sonics non sono stati una squadra come le altre. Da "Emerald City" o dai suoi dintorni sono finiti in NBA decine di giocatori: per fare qualche nome, tra gli attivi attualmente, Isaiah Thomas, Avery Bradley, Marvin Williams, Dejounte Murray e Jamal Crawford. Quasi tutti legati tra loro, col tatuaggio 206 a ricordare il prefisso telefonico della città.
I lutti nel frattempo sono proseguiti, fino a quello di Chris Cornell, leader dei Soundgarden, suicidatosi, anche lui come Cobain, nel maggio 2017. Ma la musica, nonostante tutto, si può ascoltare sempre; il basket, senza una franchigia di riferimento, si può solo immaginare, o sognare.