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Il mestiere del giornalista sportivo
02 ago 2016
Cos'è e dove sta andando. Lo abbiamo chiesto a Massimo Corcione, direttore di Sky Sport.
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Massimo Corcione è il direttore di Sky Sport, ha un’esperienza trentennale (è passato per la Gazzetta dello Sport, il Mattino, il Giornale ed è stato vicedirettore del Tg5) e insegna al master in giornalismo dell’università Cattolica di Milano. Approfittando dello spazio tra Europeo e Olimpiadi ho pensato fosse interessante sentire il suo punto di vista su come sta cambiando il mestiere di giornalista sportivo.

Il mio punto di vista è quello di chi non ha tesserino e non ha studiato giornalismo, nonostante diriga l’Ultimo Uomo e collabori con altre riviste non so fino a che punto io faccia parte di questo mondo. Corcione è stato così gentile da soddisfare la mia curiosità con trequarti d’ora di intervista un sabato mattina di lavoro.

Daniele Manusia: Vorrei cominciare chiedendole dei due diversi contesti, quello in cui ha cominciato e quello odierno.

Massimo Corcione: “Sono ere geologiche completamente diverse. Sono entrato in un giornale in cui c’era la famosa composizione a caldo, cioè le listelle di piombo fuso (credo si chiamasse linotopia, ndr), oggi lavoro in una televisione dove ci si affida moltissimo alla rete, anche per i collegamenti. È cambiata la forma e la forma incide anche sul contenuto. Prima c’era più tempo per metabolizzare la notizia: un giorno davi la notizia, quello dopo pensavi alle reazioni che la notizia avrebbe provocato. Oggi questo lavoro viene svolto in un tempo molto più ristretto.

Il punto quindi non è più dare la notizia.

Anche le televisioni all-news, come il canale Sky Sport 24, sono state costrette a innovarsi completamente. Nella corsa alla notizia, perché è un vero e proprio Gran Premio, la televisione si è dovuta modulare per dare anche l’approfondimento. E non nel giro di poche ore, ma di pochi minuti. C’è bisogno, quindi, di un corpo redazionale che sia A) qualificato, B) quanto mai duttile: che sappia scovare le notizie, commentarle e corredarle di tutti gli altri riferimenti che possono consentire un’analisi completa. E la differenza la fa proprio questo.

Secondo lei questo incide sulla qualità?

La qualità deve essere una costante. L’idea che oggi non c’è qualità e prima c’era qualità è frutto del conformismo, non è vero. Oggi ci sono ragazzi in grado di dominare il mezzo tecnico in maniera talmente raffinata da riuscire a scovare qualsiasi notizia che si sia affacciata anche superficialmente in rete. E questa è preparazione, non è solamente abilità con la tastiera. Io non sono di quelli che pensano che.. io penso che domani si starà meglio, e dopodomani meglio ancora. I fortunati sono quelli che possono vivere domani e dopodomani.

Quali sono le specificità del giornalismo sportivo rispetto ad altri campi?

Un motivo per cui molti dei giornalisti più famosi sono transitati nel loro percorso professionale dal giornalismo sportivo è che abitua subito a praticare tutti i generi: la cronaca e il commento. In altri settori, invece, la divisione tra cronaca e commento è ancora molto marcata. Per cui ci sono persone che si trovano a fare solo la cronaca e che arrivano al commento quasi come fosse una promozione, una legittimazione di autorevolezza. Nello sport non è così, per fortuna. Accanto al raccontare la notizia, e a raccontarla con il maggior numero di dettagli possibile, ci si abitua anche a commentarla, a dare un approfondimento che in altri campi spetta ad altre persone, per ragioni di seniority. Questo porta anche al miglioramento del singolo.

Questo però dipende dal fatto che nello sport il commento sembra alla portata di tutti, no?

Sì, è vero. Il rischio è che lo sport sia considerato un genere minore e che sia alla portata di tutti. Che tutti possano scrivere di sport, ma non è così, c’è sempre quello bravo e quello meno bravo. Io parlo del tentativo di ciascuno di noi di puntare sempre al meglio, di migliorare costantemente. Però è vero che c’è un po’ di diffidenza da parte del giornalismo tradizionale, che pensa che quelli dello sport siano figli di un dio minore, come fosse più semplice… cosa che non è perché poi lo sport è incastrato in un mondo complesso, e bisogna possederlo tutto altrimenti si dicono e scrivono delle stupidaggini.

È sempre per questo pregiudizio che è difficile costruirsi una reputazione con lo sport, un’autorevolezza nei confronti del pubblico contemporaneo super informato?

Faccio un esempio, per capirci meglio. Il calciomercato all’inizio, quando di fatto è stato inventato dall’editoria sportiva, era una sorta di fiera dei sogni dove tutti potevano dire tutto. Oggi c’è chi lo concepisce ancora in quel modo e pensa: se io dico che l’Inter vuole Messi, faccio sognare i tifosi dell’Inter, ed è quello che l’estate vogliono. Questo è il vecchio principio. Che io contesto, ovviamente, perché il mercato obbliga a un riscontro della notizia e a una tale istruttoria della semplice voce che alla fine si arriva a capire se quella può essere una notizia o se è solo una voce che viene diffusa nel periodo in cui le notizie scarseggiano. Il principio di Sky Sport 24, e del nostro caposquadra nel mercato Gianluca Di Marzio, è sempre quello: verificare, verificare, verificare, fino a trovare gli elementi che possano consentire di dare la notizia senza che venga smentita un secondo dopo.

Un altro problema che riscontro io riguarda la piattezza (reale o solo percepita dal pubblico) del discorso tra giornalisti e allenatori o giocatori. E di solito si dice: è colpa dei giornalisti o del sistema che forma calciatori con la risposta pronta?

Posso rispondere con casi concreti anche qui. Oggi abbiamo una generazione di quelli che noi chiamiamo talent, cioè ex calciatori o allenatori, sostanzialmente, che è composta di persone che studiano, che non si avventura in discussioni da bar. Quando viene un allenatore e si confronta con Adani, con Vialli, con Bergomi, si confronta con una persona che ha studiato quella squadra e fa delle osservazioni sempre pertinenti. Anche questa categoria è cambiata, dell’ex-calciatore che prima andava in televisione con l’aria di uno che doveva raccontare un po’ di se stesso, un po’ di sensazioni provate, in cambio dell’ingaggio. Oggi ci sono grandissimi esempi di professionalità, posso fare ancora il nome di Adani, o quello di Costacurta, che sono spessissimo qui per andarsi a vedere e rivedere le immagini con gli strumenti tecnici che gli mettiamo a disposizione, per vivisezionare anche il gesto tecnico da commentare con l’allenatore o il giocatore. È un procedimento molto molto complesso.

Se non le dispiace su questo torniamo tra poco. Vorrei fare un esempio concreto di quello che intendevo io: quando Higuain è arrivato alla Juventus in molti hanno espresso insoddisfazione per il rapporto tra l’emotività della situazione e la risposta sistemica del mondo del calcio che in questo tipo di situazioni si poggia su un’insieme di frasi fatte, dando l’impressione di chiudersi. Dico sistemica perché non è un problema solo di Higuain e in molti casi le dichiarazioni dei giocatori sono facilmente prevedibili. Il punto è che la percezione da parte del pubblico, che è anche la mia per la poca esperienza che ho con i calciatori, è che ci sia una sorta di patto implicito tra i media e club (o brand) che consentono l’intervista, per non uscire da un recinto invisibile.

Sono parzialmente d’accordo. Però sento la parola “sistema”… io non credo ci sia una tale consapevolezza di sistema, penso sia il frutto di particolari momenti che si vivono. Non c’è una sistemazione della materia. Diciamo che la banalità nelle dichiarazioni non è un fatto nuovo, è molto remoto, anzi. Molte volte da ragazzi di diciannove-vent’anni si pretendono delle dichiarazioni filosofiche che non sono in grado di concepire. Come è giusto che sia, neanche noi a diciannove anni, in un regima scolastico regolare, potevamo dare chissà che risposte…

Ok, ma al tempo stesso non si restistuisce neanche l’immagine del ragazzo di diciannove venti anni. Perché l’immagine è controllata. Sono d’accordo che non c’è un sistema che si mette d’accordo, ma di fatto club e brand hanno gli stessi scopi nel costruire e controllare l’immagine del calciatore. In questo caso il giornalismo non può neanche restituire il rapporto privilegiato, restituire la visione più da vicino…

Ma è il più da vicino che non esiste più. C’è una tale diffusione di immagini, a una velocità tale, che non c’è più sancta sanctorum inaccessibile all’appassionato che sta a casa, che è partecipe di tutto, grazie alla televisione, ma anche grazie alla rete e ai social. Gli stessi calciatori pubblicano tutto quello che attiene anche alle attività private, e viene condiviso dal tifoso che sa tutto. Non esiste più la vecchia funzione di racconto del giornalista che fa sentire, assaporare, tutto ciò che il tifoso non avrebbe potuto vedere. Oggi è un po’ saltato.

È vero, ma molti social sono soprattutto strumenti promozionali…

Sì, ce ne sono che non vengono neanche curati dai calciatori ma da professionisti che si specializzano proprio in questo.

Secondo lei il calcio non ha un problema di sincerità?

Quello che dico io è che comunque se ne sa di più rispetto a una volta. Poi se ne potrebbe sapere ancora di più, su questo posso essere d’accordo. Si potrebbe indagare e investigare di più anche sull’animo del calciatore, questo è vero. Ma occorre la volontà del calciatore di mettersi a nudo.

Ok. Tornando sull’evoluzione della professionalità e delle competenze: abbiamo parlato di Adani che è apprezzato universalmente, o di Vialli; però dall’altra parte Sky non ha un format tattico.

No, è vero, non c’è un format tattico. Ma il discorso di analisi è talmente presente nei nostri spazi che forse non ce n’è la necessità. Ogni volta che succede qualcosa l’analisi tattica è il complemento naturale dell’argomento.

Ho l’impressione, però, che in questo modo sia un discorso sempre molto personale (Adani e Vialli come figure eccezionali) e che si perda la dimensione del linguaggio, no?

Io penso sia una conoscenza diffusa. Perché Ambrosini che fino a due anni fa ancora giocava a calcio, si è appropriato di questi codici di racconto immediatamente.

Perché però parliamo solo di ex calciatori?

Al posto di?

Giornalisti formati sulla tattica.

Io penso che l’ex calciatore o ex allenatore abbia un’autorevolezza sul tema tattico ancora superiore a quella che può avere un giornalista. Però, in realtà, è in atto un processo di crescita, perché accanto al “campione” c’è un mediatore che è il giornalista per illustrare il dettaglio tattico. per cui sta crescendo anche una nuova generazione… Poi, a parte il fatto che ci sono comunque giornalisti con una fortissima preparazione scientifica, tattica, oggi è impossibile che un commentatore o telecronista non abbia una competenza al di là di quella del racconto dei precedenti, o del terzino, del difensore eccetera. È una generazione molto più attenta al fenomeno tattico rispetto a quella precedente.

Anche per quanto riguarda lo storytelling non capisco se sia una retorica autoriale, e quindi bisogna essere bravi come Buffa, oppure un linguaggio, una modalità con cui raccontare lo sport in tv e sui giornali?

È una questione di terminologia, c’erano degli straordinari storyteller anche nel passato, anche quando la televisione non esisteva. Anche quando per il racconto sportivo si stava legati al giornale, anche Darwin Pastorin era uno storyteller e continua a esserlo, i suoi pezzi sono storie, storie raccontate bene. Forse oggi l’educazione al racconto comincia prima, per fortuna. Essendosi diffusa questa modalità di racconto del personaggio, o del fenomeno, anche il ragazzo che si avvicina a questo lavoro viene colpito da questo linguaggio e lo fa proprio.

Sono un grande appassionato di documentari, sportivi e non, sia nel formato lungo, tipo i di 30 for 30 di ESPN, ma anche i mix brevi di testo e documentario di Al Jazeera Plus. In Italia ho l’impressione che sia una forma ancora inesplorata.

Sì ma questo riguarda il giornalismo in Italia tutto. Il fatto che il documentario in Italia non sia mai decollato, e questo diventa un bell’obiettivo da porsi. In futuro può cambiare anche grazie al cambiamento dei mezzi, prima per fare un documentario bisognava andare con 4 o 5 persone e molte volte non c’erano i soldi.

La telecronaca invece in che direzione sta andando?

Siamo alla vigilia di un ulteriore cambiamento dove ci sarà una tale presenza del mezzo tecnico durante la telecronaca che non si potrà più dire “Questo aspetto lo vedremo stasera negli approfondimenti”: no, questo aspetto lo vediamo subito. E così cambia proprio il racconto, che non lascia niente di inesplorato, che si esaurisce il più possibile in telecronaca. Per questo è necessaria una preparazione, una conoscenza delle regole e del mezzo tecnico, che prima non c’era.

E dal punto di vista del linguaggio? Del ritmo e delle formule?

Io combatto una guerra da quando faccio questo mestiere contro le frasi fatte e contro la banalizzazione del racconto. Penso che una delle cose che caratterizzano il lavoro giornalistico sia l’originalità del pensiero. È una cosa che va stimolata, ricorrere alle frasi fatte significa che non si ha niente da dire. È un’auto-bocciatura.

(A questo punto facciamo una pausa per pranzo e quando richiamo Corcione ho voglia di tornare sulla questione dell’immagine dei calciatore). Se, come dicevamo prima, non esiste più una distanza privilegiata da cui guardare i calciatori, cosa distingue il lavoro di un giornale da quello di un’agenzia che raccoglie e confeziona informazioni?

Il rapporto tra il giornalista e il suo pubblico. Perché comunque resta il principio di intermediazione, il giornalista è un mediatore tra la notizia e il pubblico. Non deve essere solo colui attraverso cui la notizia parte per essere diffusa, è l’interpretazione della notizia che caratterizza il giornalista. Perché la notizia è di tutti e non è di nessuno, si propaga. Io posso anche avere la più grande esclusiva di questo mondo, nel momento in cui si propaga è di pubblico dominio.

Il tesserino è ancora necessario per considerarsi giornalista?

Io credo che appartenga a una realtà diversa e superata. E che ora bisognerebbe provvedere a una revisione delle vecchie strutture e adattarla alla realtà della professione.

Ad esempio?

L’esame d’accesso. Quando un editore ti fa un contratto, in quel preciso momento la responsabilità di farti entrare nella categoria dei giornalisti se l’assume l’editore, che di mestiere fa proprio questo. Che cosa può dare di più l’esame? Nulla. Non esiste neanche una norma che obblighi l’editore a licenziarti se non hai superato l’esame. Sarebbe ingiusta quella norma, ma legittimerebbe l’esame. Penso che sarebbero molto più produttivi dei corsi di formazione, per integrare il titolo contrattuale (se io ho un contratto per fare quel lavoro) con tutte le norme per che attengono a quel lavoro. Anche deontologiche.

Ha dei consigli da dare e un dovere da ricordare anche a chi ha semplicemente il piacere di scrivere sul proprio blog?

L’ho detto: la caratteristica principale di un giornalista deve essere l’originalità di pensiero. Possedere un pensiero laterale per guardare le cose da un punto di vista laterale che sia assolutamente personale. In quanto ai doveri, invece, l’onestà. È una regola alla quale non si può derogare. Che ci si occupi di sport o di politica, l’onestà è onestà.

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