Nel fondamentale La Secchia rapita - poema in ottave del 1614 in cui si racconta di come Bologna dichiarò guerra a Modena per il furto di un secchio di legno - Alessandro Tassoni riserva un trattamento di favore a quelli di Reggio Emilia: catturati dai modenesi, e poi uno per uno gratificati di un pugno in piena faccia sferrato con un guanto militare quadrato, da cui a imperitura memoria l'appellativo di "teste quadre".
Era una testa quadra anche Renato Dall'Ara, nato a Reggio e approdato a Bologna dopo la Prima Guerra Mondiale. Aveva fatto fortuna nel campo delle maglie termiche e dei giacconi di lana come quelli della linea "Norge", vere e proprie stufe ambulanti, ispirate al nome del dirigibile su cui Umberto Nobile aveva sorvolato il Polo Nord. Nel 1934, tra il lusco e il brusco, il fascismo locale lo aveva scelto per fare il commissario straordinario del Bologna Calcio, in un momento in cui la città e il club erano a soqquadro per il repentino declino del potente gerarca Leandro Arpinati, liquidato dal regime per presunta infedeltà.
Dall'Ara non disdegnò di indossare talvolta la camicia nera, ma rivelò inaspettate doti da economo e amministratore, in un'epoca in cui solo a pronunciare la parola "manager" si poteva incorrere in brutti guai con la legge. «Attaccato al bilancio come la puntina da disegno al foglio del geometra» (Bruno Roghi, Corriere dello Sport), vinse quattro scudetti in sei anni prima che la corsa-scudetto traslocasse stabilmente sull'autostrada Milano-Torino (con un'unica significativa eccezione, come vedremo).
Appassionato viveur, con una quantità di sale in zucca sufficiente a sopravvivere brillantemente al dopoguerra, aveva un senso dell'umorismo un po' greve, tipico dell'epoca: quando il Napoli gli propose l'acquisto del centravanti Giovanni Busoni, non riuscì a trattenersi dalla fatidica battuta: «Al Bologna, Busoni mai!». E giocava a mandare in sollucchero la stampa con calcolati strafalcioni in latino, il più famoso dei quali è certamente: «Si ricordi che per ogni evenienza sine qua non, siamo qui noi!».
Tra i tanti coccodrilli su Dall'Ara, notevole la didascalia di questa foto: «Lo ricorderemo con le mani in perenne agitazione per dare forza ai suoi argomenti di buon amministratore e alle sue arguzie di buon emiliano». Tutte le immagini di riviste e quotidiani dell'epoca che vedete in questo pezzo sono tratte dal sito della mostra «Bologna Campione» tenutasi nella Biblioteca comunale dell'Archiginnasio a Bologna.
Trascorsero diciannove anni dalla fine della guerra e un paio di infarti prima che il Bologna potesse tornare a respirare l'aria pura dell'alta classifica. Quel 4 marzo 1964 Dall'Ara stava smaltendo a letto i postumi di una brutta broncopolmonite, quando si ritrovò suo malgrado protagonista di una scena presa di peso da una pièce di Molière (d'altra parte, il soprannome riservatogli dall'immancabile Brera era "Arpagone", il protagonista de L'avaro). Ancora oggi queste righe di Manlio Cancogni sull'Espresso sono un immortale spaccato di emilianità: «Il Presidente, seduto nel suo letto Impero, con due grandi cuscini dietro la schiena si preparava a far colazione. Si aprì la porta, entrò grassa e sorridente la vecchia signora Nella (la moglie, ndr), dicendo: "Renato, guarda chi c'è; guarda che bella sorpresa", mentre nello spiraglio s'affacciava, chiedendo "Si può?", la testa del redattore di "Stadio" Aldo Bardelli», accompagnato da un vecchio amico di Dall'Ara, Piero Goldoni.
«Quando Bardelli e Goldoni entrarono nella sua camera e videro quel vecchietto che sollevava la testina rinsecchita dagli enormi cuscini, protendendo un viso sorridente da bambino, si sentirono stringere il cuore. Sedettero e cominciarono a parlare del tempo. Era un vero peccato che la primavera si fosse così allontanata. Ma già si sapeva, marzo è un mese pazzo. Giù ad Amalfi, comunque, avrebbero trovato sicuramente i mandorli in fiore. Poi Goldoni si fece coraggio. "A proposito", disse con l'aria di raccontare una cosa da nulla, "c'è una piccola seccatura..."».
La seccatura
Da oltre un mese il Bologna si è reso conto di poter resistere alla tenaglia delle due fortissime milanesi: il Milan del diabolico direttore tecnico Gipo Viani, che a maggio 1963 è diventata la prima squadra italiana a vincere la Coppa dei Campioni, e l'Inter dell'altrettanto sulfureo Helenio Herrera, che a maggio 1964 ne prenderà il posto battendo il Real Madrid di Puskas e Di Stefano. Ai primi dell'anno ha strapazzato Roma e Torino prendendo la testa solitaria con un filotto di dieci vittorie consecutive, poi ha resistito all'urto con una serie di pareggi ben assestati e il 1° marzo ha piazzato il colpaccio vincendo 2-1 a San Siro contro il Milan. A undici giornate dalla fine la classifica dice Bologna 36, Inter 34, Milan 33.
È una squadra giunta al culmine della maturazione, pienamente consapevole della propria forza, con un sapiente mix di stelle straniere e gregari di sicuro rendimento. In porta William Negri detto “Carburo”, appena arrivato da Mantova. I terzini sono Carlo Furlanis e il capitano Mirko Pavinato, i due centrali rispondono alle arcigne generalità di Paride Tumburus (stopper) e Franco Janich (libero). La cerniera di centrocampo è composta dal mediano Romano Fogli e dall'enfant du pays Giacomino Bulgarelli, 23 anni, nato a Medicina, mezzala destra con compiti di regia. L'ala destra è Marino Perani, il battitore libero è Helmut Haller, ossimoro vivente in quanto fantasista tedesco, che due anni dopo aprirà le marcature della finale mondiale di Wembley contro l'Inghilterra. Ala sinistra Ezio Pascutti, che l'anno prima è andato a segno in ognuna delle prime dieci giornate del torneo (il record verrà migliorato solo nel 1994, da Gabriel Batistuta). La punta è il danese Harald “Dondolo” Nielsen, brutto da vedere e micidiale da schierare, uomo da 81 gol in 157 partite di campionato con il Bologna.
Li allena un geniale romano, esteta e snob della panchina, maestro di tattica. Dal 1946 Fulvio Bernardini è stato l'unico a spezzare l'egemonia milanese-torinese, con lo scudetto della Fiorentina 1956 vinto con dodici punti di vantaggio sul secondo posto e una finale di Coppa Campioni scippatagli a casa del Real Madrid. Ironico, intellettuale, libero pensatore, è di destra ma rispetto al suo datore di lavoro il rapporto con il fascismo è stato un po' più conflittuale: nel 1935, mentre guidava a Roma in Piazza Venezia, quasi aveva speronato una Lancia Astura color blu che non gli permetteva il sorpasso, ignaro che a bordo di quell'auto ci fosse Benito Mussolini. Gli era stata ritirata la patente, e per riaverla gli era toccato recarsi a Villa Torlonia e farsi battere a tennis dal Duce, sopportandone la severa accoglienza: «Ha imparato a guidare?».
Un'immagine da Milan-Bologna 1-2: l'assist di Pascutti per il gol decisivo di Harald Nielsen.
L'euforia per il colpo a San Siro non è ancora scesa quando nel tardo pomeriggio del 4 marzo si diffonde la voce confusa, difficile da comprendere a pieno, di un massiccio controllo antidoping successivo a Bologna-Torino del 2 febbraio, nel quale sono caduti in cinque: Fogli, Tumburus, Pavinato, Perani e Pascutti, tutti positivi alle anfetamine. Il controllo è stato effettuato all'Hotel Jolly, vicino alla stazione, e ha coinvolto anche cinque giocatori granata, tutti risultati negativi.
In base al Regolamento di Giustizia Sportiva, ci sono gli estremi per l'infrazione dell'articolo 22 e le sanzioni sono molto chiare. Per i giocatori: deferimento, multa robusta, squalifica di almeno un mese fino a radiazione per i casi più gravi. Per allenatore e dirigenti: almeno tre mesi di inibizione, fino a radiazione per i casi più gravi. Per la società, responsabilità oggettiva da punire con lo 0-2 a tavolino e un ulteriore punto di penalizzazione. La sentenza è attesa per il 12 marzo. Nel giorno in cui, stando alla canzone, Lucio Dalla diventa maggiorenne, tutta Bologna perde definitivamente la propria innocenza.
“Cos'è il doping?”, si legge su molti rotocalchi ingenuamente appassionati alla faccenda. Nel 1964 l'italiano medio ha una dimestichezza molto relativa con la lingua inglese e spesso, sui giornali e nelle piazze, si usa il brutto termine “drogaggio”. La città reagisce sconcertata, tempestando i centralini dei quotidiani locali e dandosi appuntamento nel covo del bar Otello, in via Orefici, per protestare contro i soprusi milanesi. In Piazza Maggiore cortei improvvisati ribaltano un paio di sventurate automobili targate MI: «Da un momento all'altro si ha la sensazione che debba spalancarsi la vetrata sul balcone di Palazzo d'Accursio (sede del municipio, ndr) e apparire un signore in redingote per annunciare che la patria è salva» (Il Giorno, quotidiano milanese).
I sospetti si concentrano in particolare sul Milan, il Milan del maneggione Gipo Viani, per quattro anni alle dipendenze di Dall'Ara dal 1952 al 1956: scottato dal comportamento leale del Paròn Rocco che – dopo il trionfo di Wembley 1963 – non ha voluto rimangiarsi la parola data al Torino mesi prima, vuole forse dimostrare di poter vincere anche senza di lui?
Emerge intanto qualche particolare. Vista la delicatezza del caso, la Commissione Antidoping presieduta dal professor Enrico Niccolini – un luminare della farmacologia che ha incarichi di rilievo anche in altre indagini legate alla cronaca - ha fatto analizzare tre volte i campioni di urina. La prima al Centro Medico Sportivo delle Cascine a Firenze, dove sono tuttora custoditi; la seconda da un'industria farmaceutica di Milano, la terza da un luminare di Roma, il professor Cartoni.
Tutte le analisi sono state eseguite con il metodo cromatografico: i componenti chimici di una certa sostanza vengono individuati dall'analisi dei colori che compaiono su un apposito filtro, separati l'uno dall'altro, di modo che un medico possa risalire molto chiaramente e rapidamente alla soluzione dell'enigma. Il Bologna risponde immediatamente rendendo noto l'elenco di tutti i farmaci regolarmente assunti in stagione: Surrenovis Vitaminico, Eparcerebro, Micoren, Adenoplex Forte, Megaton, Destrosio (soprassediamo sul fatto che alcuni di questi farmaci, per esempio il Micoren e il Surrenovis, oggi siano effettivamente sostanze dopanti: all'epoca non lo erano e comparivano in ogni armadietto professionistico, con poca coscienza degli effetti sull'organismo, a lungo andare nefasti).
La squadra si chiude a riccio, comandata a bacchetta da Bernardini: chi parla di questa storia coi giornalisti si prende un milione di multa. Eppure i quotidiani locali riescono a estorcere qualche frase smozzicata, modulata secondo gli umori dei protagonisti. Bulgarelli sfiduciato: «Come fate a convincere la gente che non è una manovra? Ci hanno sparato addosso così tante volte, ormai...». Nielsen impassibile: «Io niente sapere. Non fatto esame. Nessuno preso niente». Pascutti determinato: «Non ce lo faranno perdere!». Janich spaesato: «Due anni fa avevo bevuto due bicchieri di vino e trovarono positività, ma poi fui assolto...». Fogli furibondo: «Scrivete che Fogli ha finito di giocare a calcio! Non sono cose che possono succedere!».
Tra i quotidiani più anti-Bologna c'era il milanese Corriere d'Informazione, versione pomeridiana del Corriere della Sera, che deliziava i suo lettori con vignette come questa.
Bologna-Firenze solo andata
Ha ragione Fogli: è una cosa inaudita, almeno a questi livelli. Come mai di punto in bianco cinque sorteggiati su cinque della squadra più in vista del campionato sono risultati positivi, quando né prima né dopo si è mai verificato alcunché di illecito? Anticipando la scia delle future scuse dei ciclisti e dei calciatori beccati tanti anni dopo, mica avranno mangiato qualcosa di sbagliato?
Ma la partita del 2 febbraio – riportano i quotidiani locali - era stata preparata come al solito: pranzo intorno alle 11 al “Pappagallo in brodo”, ristorante popolare di un certo prestigio citato anche da Giorgio Bassani ne “Il giardino dei Finzi Contini”. Il menu è il solito: riso al burro, filetto di bue ai ferri con contorno di spinaci, cicoria e insalata verde, pere cotte, acqua gassata e un bicchiere di Sangiovese a testa; niente caffé, né digestivo.
«I camerieri sono tutti tifosi del Bologna», dice il proprietario, «Bernardini è un terribile pignolo. Se il riso non è al dente o se la carne non è cotta, rimanda tutto in cucina. Escludo categoricamente che qualcuno abbia potuto manipolare i cibi sia durante la cottura, sia durante il breve tragitto dalla cucina ai tavoli». Dopo pranzo tutta la comitiva si trasferisce alla pasticceria Gamberini in via Ugo Bassi, dove consumano cinque caffé normali, tre caffé corretti al Fernet e un amaro Ramazzotti: anche qui, nulla di anomalo. In campo, alle 14:30, nessuna pietà per il modesto Torino che langue a metà classifica, nonostante la guida di Nereo Rocco.
Che può fare il Bologna? Nulla al di fuori della giustizia sportiva: allora come oggi, la clausola compromissoria impedisce ai tesserati di sconfinare. Ma a questo punto, all'insaputa di Dall'Ara, entrano in scena tre avvocati tifosi, Mario Cagli, Arrigo Gabellini e Alberto Magri. Adombrano un complotto e il 6 marzo vanno a denunciare tutto in Procura. Ma tutto cosa? Il tutto confina pericolosamente col niente, in questa storia dai troppi spifferi. Ad ogni modo, il giorno dopo il Sostituto Procuratore di Bologna apre un procedimento contro ignoti e ordina il sequestro di tutti i campioni incriminati: quelli a Firenze, analizzati e anabolizzati, e quelli delle controanalisi a Coverciano, che dunque spariscono dalla disponibilità della giustizia sportiva. C'è un problema: se venissero trasportati da Firenze a Bologna, i flaconi “positivi” rischierebbero il deperimento e l'intera inchiesta andrebbe in fumo.
Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto: in visita alle Cascine, gli uomini della Procura scoprono che quei flaconi sono conservati in condizioni quantomeno discutibili: non sigillati, posti accanto a un frigorifero che contiene – ohibò – tubetti di anfetamine. Analizzate dai periti nominati dalla Procura, si scopre inoltre che le quantità di anfetamine presenti in ogni flacone, più che per Pavinato e Pascutti, sarebbero buone come ricostituente per Ribot, protagonista di tante pagine sportive degli anni Cinquanta (per chi non ne avesse mai sentito parlare, sì, era un cavallo).
Le immagini di quel Bologna-Torino 4-1, con i padroni di casa in cambio con la seconda maglia bianca con banda diagonale rossoblù.
Sono giorni deliranti. La sera dell'8 marzo il professor Niccolini viene ritrovato privo di sensi dai suoi familiari sul pianerottolo di casa, nel centro storico di Firenze. Presenta una ferita alla testa e segni di escoriazioni su tutto il corpo: è stato aggredito? Niccolini, 69 anni, sta seguendo da vicino anche un'altra faccenda molto spinosa, ancora marcatamente bolognese: il caso di cronaca nera, marzo 1963, della morte della signora Ombretta Galeffi, avvelenata col curaro dal marito fedifrago Carlo Nigrisoli, ricco medico affascinato dal bel mondo che aveva perso la testa per una certa Iris Azzali, 21 anni, “la Kim Novak di Casalecchio”. Qualcuno, quasi un anno dopo, si è preso la briga di scendere fino a Firenze per intimorirlo a tal punto sull'uscio di casa? Si riprenderà in pochi giorni, senz'alcuna memoria dell'accaduto: forse – concluderanno i medici – è inciampato sulle scale e ha battuto la testa.
Ricapitoliamo: credendo alla buona fede del Bologna, non si può neanche dubitare di un medico così illustre, ancorché dall'andatura un po' incerta. Le condizioni di custodia dei flaconi di Firenze fanno pensare allora che siano stati manipolati prima delle analisi. Qualcuno è entrato di nascosto? Chi?
La “Pasqua di sangue”
L'8 marzo il Bologna batte 1-0 la Sampdoria in una gara nervosissima, resistendo in 9 nell'ultimo quarto d'ora per le espulsioni di Pascutti e Bulgarelli. La squadra ha i nervi a fior di pelle, ma la città non ha abbandonato i suoi ragazzi: nonostante la robusta nevicata, in 30 mila si sono presentati al Comunale.
Il 12 marzo inizia un processo sportivo irrimediabilmente monco. Su richiesta dei giudici, il derby contro la Spal del 15 marzo viene rinviato a data da destinarsi (sarà recuperato il 14 aprile). Il 20 marzo arrivano le prime sentenze, e non è un bel sentire: 0-2 a tavolino contro il Torino e ulteriore punto di penalizzazione, diciotto mesi di squalifica a Bernardini e al medico sociale, il dottor Igino Poggiali; assoluzione invece per Fogli, Tumburus, Pavinato, Perani e Pascutti che sarebbero stati drogati a loro insaputa. Dall’Ara è ancora malato: quando un giornalista gli comunica la notizia, scoppia a piangere. Il Bologna fa immediato ricorso alla CAF (la Commissione d'Appello Federale). Ne ha ben donde: lo stesso giorno sono stati resi noti i risultati dei controlli anti-doping dopo Milan-Bologna, partita ben più complicata di Bologna-Torino, ma i cinque giocatori rossoblù sono risultati tutti negativi.
L’Italia calcistica si spacca in due: Milano, il Nord, il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport e Il Giorno da una parte; Bologna, Stadio, il Resto del Carlino e il resto del Paese dall’altra, con i romani a simpatizzare per il loro concittadino Bernardini.
Intermezzo: Pier Paolo Pasolini, grande tifoso del Bologna, intervista Pasinato, Furlanis, Bulgarelli, Negri e Pascutti sulla loro visione del sesso in “Comizi d'amore”, 1965. Pasolini tentò invano di far recitare a Bulgarelli una parte ne “I racconti di Canterbury”.
Il Bologna torna in campo il 22 marzo proprio all'Olimpico contro la Roma: Bernardini, in tribuna squalificato, viene sorpreso a dare istruzioni via walkie-talkie al direttore sportivo Antonio Bovina, seduto in panchina accanto al vice Cesarino Cervellati, e immortalato in una celebre copertina de Lo Sport Illustrato. Bagarre nella bagarre: sulle prime la Roma “ferma” Bovina, fa sequestrare l'apparecchio da un funzionario di polizia e presenta una riserva scritta all'arbitro, ma già nelle ore successive non darà seguito ai suoi propositi bellicosi. Non c'è ragione di avvelenare ulteriormente la situazione: il Bologna ha vinto con agio, la Roma deve ringraziare Cudicini se è finita solo 0-1, il pubblico locale ha simpatizzato con le disavventure ospiti al grido di “Aridateje i tre punti”.
Intanto il derby di Milano finisce 1-1 e la classifica è clamorosamente sub judice. Il 25 marzo la Lega impedisce a Bernardini anche di dirigere gli allenamenti, vietando inoltre a Cervellati di stare in panchina in campionato in quanto sprovvisto di patentino. Il Bologna è costretto a riesumare Raffaele Sansone, gloria anni Trenta del club, consigliere di Dall'Ara e allenatore delle giovanili.
Il 29 marzo, domenica di Pasqua, è in programma una quantomai delicata Bologna-Inter, a cui i giornali dei rispettivi schieramenti si accostano istericamente soffiando sul fuoco. Non c'è pudore a scrivere di “Pasqua di sangue”. Si parla di 1.500 agenti mobilitati: sul Corriere della Sera, persino una penna avveduta come Enzo Biagi riferisce di un clima che non si registrava in città dai tempi dei partigiani. Ma non succederà nulla di che, salvo una genuina salva di fischi all'indirizzo di Helenio Herrera al momento della ricognizione. I guai per il Bologna arrivano dal campo: senza Nielsen e Pascutti i rossoblù incappano nella peggior partita stagionale, sbagliano un rigore con Haller, perdono 2-1 e vedono sfuggirsi l'Inter, che complice la partita in più scappa a 4 punti di vantaggio. Consapevole di aver meritato la sconfitta, il pubblico bolognese sciama a casa mestamente: la “Pasqua di sangue” è diventata una “Pasqua di lasagne” per i tifosi interisti placidamente calati a Bologna.
La primavera porta nei juke-box di tutta Italia la nuova trascinante canzone di una diva attesa al grande rientro: “È l'uomo per me” di Mina, recentemente tornata in tv a furor di popolo dopo essere stata bandita dalla RAI per qualche mese per una scandalosa relazione extra-coniugale con l'attore Corrado Pani. È la marcia che scandisce la riscossa bolognese in un aprile appassionante, di attesa febbrile e sempre più ottimista.
Il 19 aprile i periti della Procura hanno consegnato i risultati delle controanalisi sui flaconi di Coverciano, e si dice che non ci sia alcuna traccia di sostanze illecite. Dall'Ara si è rimesso in piedi e guarda con fiducia alla conclusione delle inchieste; Bernardini è sempre costretto in tribuna ma i suoi ragazzi vincono quattro partite di fila (compreso il recupero con la Spal); così fa l'Inter, mentre il Milan lascia sul campo tre punti su sei e si chiama definitivamente fuori. Il 3 maggio arriva un accettabile 0-0 a Mantova, mentre gli scatenati nerazzurri - quattro giorni dopo essersi qualificati alla loro prima finale di Coppa Campioni - battono 1-0 la Juventus e allungano a +3 a tre giornate dalla fine, con un calendario pianeggiante che propone squadre già tranquillamente a metà classifica. Un campionato normale si direbbe finito qui; ma il 4 maggio arriva l'ennesima scossa tellurica.
La magistratura ordinaria comunica di aver accertato «l'assoluta mancanza di sostanze dopanti nelle urine conservate presso il Centro di Coverciano», sconfessando così il pronunciamento della giustizia sportiva di due mesi prima. Arriva benedetta la sosta del 10 maggio, che dà alla CAF il tempo necessario per acquisire dalla Procura i risultati delle controanalisi e dirimere la questione.
Lo spareggio all'improvviso
Il 16 maggio 1964 la CAF assolve il Bologna, scagiona tutti i responsabili e restituisce i tre punti alla squadra di Bernardini, «per non essere stata accertata in forma non dubbia l'infrazione alle norme di cui all'art. 22 del Regolamento di giustizia FIGC»: il distacco dal primo posto scompare con un colpo di martelletto e ormai Bologna e Inter procedono in fotocopia. Il 17 maggio tutte e due si accontentano dello 0-0 in trasferta, la settimana successiva battono 2-0 Messina e Genoa. Che ci crediate o no, la Federcalcio non si è mai posta il problema di cosa fare in caso di arrivo alla pari di due squadre in testa alla classifica: d'altra parte, in 35 anni di serie A a girone unico la circostanza non si è mai verificata.
E allora parola a un testimone dell'epoca, Italo Cucci, allora giovane cronista per “Stadio”: «Il presidente della FIGC Giuseppe Pasquale fu spinto a organizzare una riunione del Consiglio Federale a Bologna, all’Hotel Jolly, per decidere cosa fare in caso di arrivo alla pari, non essendo previsto dai regolamenti uno spareggio peraltro preventivamente accettato dai bolognesi. Nella riunione furono ascoltati i due giornalisti più impegnati nella battaglia sportiva: Gualtiero Zanetti, direttore della Gazzetta dello Sport, e Aldo Bardelli, caporedattore di Stadio. Alla fine della riunione, prevalse l’escamotage suggerito da Zanetti: in caso di parità, assegnare all’Inter lo scudetto ‘64 e restituire al Bologna lo scudetto del 1927 revocato al Torino e assegnato ai rossoblù, secondi in classifica, che tuttavia lo avevano rifiutato aderendo alla richiesta di Leandro Arpinati, il gerarca fascista bolognese allora presidente della Federcalcio che non voleva dare adito a sospetti paventando un conflitto d’interessi. Il Consiglio Federale invitò i due giornalisti a tener segreta la decisione che sarebbe stata comunicata di lì a qualche giorno, ma Gualtiero Zanetti decise di far conoscere “la sua vittoria” e decise di dar la notizia immediatamente. Uscita la Gazzetta con il clamoroso annuncio, Bardelli “sparò” su Stadio – dopo avere... convinto Pasquale – “Spareggio a Roma”. E così fu».
Il Bologna ha schivato anche quest'ultima freccia avvelenata. Il 27 maggio la Grande Inter entra nella storia conquistando la Coppa Campioni al Prater di Vienna, 3-1 al Real Madrid: in tribuna, seduto sopra Angelo Moratti, c'è Alfred Hitchcock, forse attirato dalle sfumature thrilling della volata-scudetto. La stanchezza non impedisce ai nerazzurri di vincere anche l'ultima partita, 2-1 all'Atalanta; così fa il Bologna, 1-0 alla Lazio, e spareggio sia, fissato per le ore 17 della domenica successiva, 7 giugno 1964.
Incredibile ma vero, lo spareggio-scudetto non fu trasmesso in diretta RAI ma solo in differita, alle 22:25. Alle 17 era in programma la TV dei ragazzi: prima Yoghi, poi Lassie.
Bernardini sente aria di casa e porta la squadra in ritiro a Fregene, anche per tenerla al riparo dai bollenti spiriti che dominano in città. C'è ancora una formalità da sbrigare, e riguarda la gestione degli incassi dello spareggio: sempre sensibile all'argomento, il 3 giugno Dall'Ara sale a Milano per incontrare Angelo Moratti e il presidente della Lega Calcio, Giorgio Perlasca. Alle 17:30 di un caldo mercoledì pomeriggio «il commendator Dall'Ara si sbiancava in volto e si accasciava sulla spalla sinistra del presidente interista senza profferire parola. Prontamente accorso, il medico di fiducia non ha potuto che constatarne il decesso» (Il Resto del Carlino). L'impressione è enorme, la città barcolla sotto quest'altro colpo durissimo. Gino Villani, primo tifoso rossoblù che ogni domenica incita la squadra urlando al megafono sotto la torre di Maratona, non va per il sottile: «L'hanno fatto morire! Solo lui poteva tener su la baracca, era indispensabile che fosse vivo. Era un cervello elettronico, pensava e faceva tutto lui. Era un dittatore rosa».
Due giorni dopo solo due giocatori – gli infortunati Pascutti e Corradi - salgono a partecipare ai funerali, celebrati nella Cattedrale di San Pietro. Bernardini ha comunicato alla squadra che la Federcalcio è disponibile a un rinvio; la risposta è stata “giochiamo”, perché scendere in campo è il modo migliore per rendere omaggio al presidente. Il ritiro di Fregene ha quasi l'aspetto di una villeggiatura: giunta al capolinea di un percorso così logorante, il Bologna non ha bisogno di benzina ma solo di riposo, fisico e mentale. «La mattina dello spareggio», ricordò Bulgarelli, «Bernardini ci radunò e ci disse semplicemente: stiamo tranquilli». Ma tranquillo non dev'essere nemmeno lui: «Gli guardammo i piedi: aveva una scarpa da ginnastica e una normale».
Così arriva, finalmente, l'ultimo capitolo di una stagione estenuante. L'allenatore amante dello spettacolo si prende lo scudetto con una geniale mossa difensiva: sostituisce Pascutti con il terzino Capra, “ala tattica” che manda in tilt i piani di Herrera. La partita è brutta, dominata tatticamente dal Bologna che raccoglie i frutti della sua superiorità nei venti minuti finali, con i gol di Fogli e Nielsen. 2-0 ed è finita: il Bologna ha vinto il suo settimo scudetto. «Al fischio finale di Lo Bello mi assalì una strana sensazione. Eravamo campioni d'Italia, ma stentavo a crederlo», dice Giacomo Bulgarelli. A queste condizioni, più che una gioia, è stato un sollievo.
La risposta italiana al filmato di Zapruder del novembre 1963: 2 minuti e 20 secondi di immagini a colori in formato 8 millimetri dello spareggio scudetto Bologna-Inter.
Epilogo
Il 21 maggio 1968 il Bologna sta volando verso Budapest: lo aspetta la semifinale di Coppa delle Coppe contro il Ferencvaros. Il campionato è già finito, ma c'è ancora il tempo per inseguire una gloria internazionale che manca dai tempi di Arpad Weisz, e continuerà a mancare. Il medico sociale Giampaolo Dalmastri è seduto accanto a un famoso dirigente, più silenzioso del solito. Ma forse è l'ennesima finta da pokerista consumato quale egli è, perché Giuseppe Viani detto Gipo, direttore tecnico tornato a Bologna nel 1966, ha sempre amato i colpi di scena: «Tutti accusano l'Inter per il caso del doping, ma invece sai che c'è? Io invece so che c'entra il Milan». È lo stesso Dalmastri a raccontare nel 1998 l'episodio al cronista bolognese Giovanni Martines: «Era cardiopatico, aveva subito tre infarti. Accompagnò quella frase con un sorriso guascone». Nel romanzo dello scudetto è una delle ultime scene in cui troviamo Viani vivo: il suo cuore malandato lo saluterà per sempre il 6 gennaio 1969, fermandosi pietosamente nel sonno, in una camera d'albergo di Ferrara.
Era dunque stato lui, lui in persona, a manomettere i flaconi delle prime analisi? Suonavano profetiche le parole di Bulgarelli, nel corso degli anni modulate dalla rabbia, dall'ironia, dal disincanto: «Io ho vinto una sola volta a San Siro in vita mia e guarda un po', tre giorni dopo ecco l'accusa di doping...». Sempre il ben informato Cucci aveva adombrato, in quegli anni, la possibilità che Viani si fosse servito di “un noto manager ciclistico” spedito direttamente alle Cascine per spargere chiodi sul cammino irresistibile del Bologna.
Come sempre in garbugli del genere, l'unico filo a cui vale la pena aggrapparsi è quello della verità processuale; per l'esattezza, la sentenza che il Tribunale di Firenze aveva pronunciato il 4 marzo 1966 – esattamente due anni dopo quella brutta giornata – ricostruendo l'accaduto: «I flaconi vennero presi in consegna dal dottor Mangani e da lui consegnati, verso le 21 di domenica 2 febbraio, alla moglie del dottor Fino Fini presso l'abitazione del medico a Firenze. La mattina successiva i cinque flaconi non sigillati venivano posti in un frigorifero presso il Centro medico Sportivo delle Cascine. Il frigorifero nel quale erano stati custoditi era di tipo comune e privo di serratura. A fianco di tale frigorifero vi era un armadietto a vetri provvisto di serratura e contenente, tra l'altro, tubetti di Anfetamina. [...] Non resta quindi che concludere per logica coerente che le sostanze reperite nei cinque flaconi non sigillati vi vennero introdotte fraudolentemente. Gli incerti e lacunosi elementi della istruttoria hanno reso praticamente impossibile inquadrare le fattispecie del reato e reso impossibile stabilire esattamente le circostanze di tempo, modo e luogo nelle quali venne posta in essere la manomissione dei flaconi. Per questi motivi, il Tribunale dichiara chiusa la formale istruzione e afferma non doversi procedere contro ignoti, perché il fatto non costituisce reato».
Durò così due anni esatti questa storia allucinante che, nella miglior tradizione delle cose italiane, ci aveva messo poco a declinare nella farsa. Una storia che nascondeva abissi più profondi di quello che era sembrato. A una seconda analisi più ragionata, doveva essere evidente che, se qualcuno aveva pensato di “dopare” su commissione una squadra di calcio, allora il doping – quello vero – doveva pur esistere: d'altra parte, si sprecano le testimonianze sul doping scientifico praticato in quell'epoca spensierata, e riguardano squadre anche molto celebrate.
I verbali e le retrospettive degli anni Novanta resero pubblici quali veleni fossero assunti quotidianamente da ogni giocatore, pena l'esclusione e la qualifica di reietto. Ma quel Bologna non fu mai colpito da alcuna delle tristi “morti premature” del calcio italiano anni Sessanta e Settanta: il primo ad andarsene fu Giacomino Bulgarelli a 68 anni, nel 2009. Quanto a Bernardini, si arrese a 78 anni a una malattia stronza che nel 1984 era ancora chiamata con il nome “americano” di morbo di Gehrig. Un precursore anche in questo – avrebbe detto lui, con quell'inconfondibile ironia.