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Io certe volte dovrei fare come Dario Hubner
17 set 2025
Un estratto dal libro "Il mito dei bomber di provincia".
(articolo)
8 min
(copertina)
Cover di Einaudi disegnata da Andrea Chronopoulos
(copertina) Cover di Einaudi disegnata da Andrea Chronopoulos
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Pubblichiamo un estratto del libro "Il mito dei bomber di provincia", di Emanuele Atturo, pubblicato da Einaudi. Si può ordinare da qui.

Tornato in Serie A Hübner ricomincia da dove aveva lasciato: segna un gol ogni due partite, si muove tra le difese minaccioso e rilassato, con la «V» sulla maglia e lo sponsor «Ristora». Ha ormai 33 anni ma l’età non conta niente. Corioni lo definisce: «Il nostro Ronaldo».

Segna 17 gol in campionato e 7 in Coppa Italia. Alla fine della sessione di mercato invernale al Brescia però arriva Ighli Tare e Hübner a volte finisce in panchina. C’è una cosa che Tare sa fare bene e che Hübner sa fare meno: giocare insieme a Roberto Baggio. Lo ammetterà anche lui a fine carriera: il «divin codino» preferiva un attaccante che gli venisse incontro per giocare a muro e restringergli gli spazi, non il lavoro di Tatanka, che amava lanciarsi in profondità.

A fine stagione il Brescia vuole cederlo, lo chiama Fulvio Collovati, direttore sportivo del Piacenza, e cerca di convincerlo. In panchina c’è Walter Novellino e un suo ex compagno gli dice che è l’allenatore ideale per lui, «fa il tuo gioco». Allora Hübner accetta, anche perché è vicino a Crema, e cioè a casa sua. Per andare a Brescia faceva ogni giorno cinquanta chilometri in macchina, ne avrebbe percorsi cinque in meno. Finora ha giocato due grandi stagioni in Serie A, una volta è retrocesso e l’altra l’hanno mandato via. Diventa una sfida con sé stesso riuscire a confermarsi anche a Piacenza. Segna 24 gol, gli stessi di David Trezeguet, e vince la classifica marcatori: è il più anziano a riuscirci – verrà superato da Luca Toni qualche anno più tardi. A differenza di quest’ultimo, però, riesce a salvare il Piacenza all’ultima giornata: questo certo è un altro valido motivo per cui amiamo i bomber di provincia. Perché erano forti, forse più di quanto gli venisse riconosciuto dai loro contemporanei, e oggi sono estinti. «A volte penso che ho sbagliato tempo», dice Tatanka.

***

Hübner vive a Passarera di Carpignanica, fuori Crema, da quando si è sposato. Dopo le partite e gli allenamenti tornava sempre lì. Quando poteva, accompagnava sua figlia Michela all’asilo; oppure caricava suo figlio Marco in bicicletta e insieme andavano in giro per mercati e fattorie, a guardare le mucche e i cavalli. È una di quelle province in cui il silenzio viene rotto solo dai muggiti dalle vacche e dalle urla negli oratori. Province in cui c’è un nulla radicale, sconfinato, incommensurabile. È uno spazio ai margini, dove gli uomini sono reclusi in bar che nessuno frequenta. Come il bar «Tatanka», aperto a Soresina dal cognato di Hübner in suo onore. Del resto, il bar glielo ha regalato lui. Tentenna, però, quando deve dire che ci ha messo i soldi, inciampa, poi accenna «io ho solo aggiunto l’aspetto economico».

Come tutti gli italiani, Hübner è reticente a parlare di soldi. Non può stare dietro al bancone perché non è il tipo, gli amici lo definiscono «schivo»: «Il mio carattere mi porta a non parlare tanto con la gente. Una persona può star bene anche per conto suo». Hübner oggi fa l’orto, ha le galline. Il mercoledì prende la macchina e va a Mantova a vedere «i ragazzi», una squadra di giovani con disabilità cognitivo-relazionali di cui è direttore tecnico. Un incarico più che altro simbolico, che però gli piace.

È passato alla sigaretta elettronica, gioca in porta nei tornei di calcio a sette con gli amici – davvero il mondo al contrario. In primavera va a pescare sull’Adda, in autunno va a funghi, in estate tira fuori la moto e si fa il Passo dello Stelvio: «Una bella mangiata e poi si torna a casa». Ai tempi del Cesena aveva ricevuto un’offerta per andare a giocare in Premier League, ma aveva rifiutato per non allontanarsi dalla pianura e dagli affetti. Gli anni successivi avrebbe rifiutato anche il Venezia e il Lecce: troppo lontani da Carpignanica.

A Hübner il cantautore Calcutta ha dedicato una canzone brillante, intitolata semplicemente Hübner. «Io certe volte dovrei fare come Dario Hübner», ripete il ritornello. Intendendo cosa? Un rifiuto di certi paradigmi: l’idea di partire, ad esempio, andare lontano, far carriera, pensare al successo materiale. Anche solamente coltivare velleità e aspirazioni. Essere ossessionati dalla fama, dalla vanità, dal capitale sociale. Bisognerebbe invece fare come Hübner: rifiutare l’Inghilterra e restare al paese. Condurre una specie di esistenza fantasma, tra grappa e sigarette, galline e partite di pallone, ma vicini ai propri affetti. «Preferivo guadagnare di meno ma stare bene», diceva Hübner. I millennial come Calcutta, e come me, sono cresciuti in una società che gli chiedeva di raggiungere la migliore versione di sé stessi. Era l’unico modo per competere in un mondo con sempre meno opportunità, di lavoro e non solo. Così siamo cresciuti individui al contempo ambiziosi e insicuri, esauriti e sempre sul punto di finire in burnout. Nelle canzoni di Niccolò Contessa (I Cani), si cita spesso questa condizione dissociata – «E poi temo il successo | Ma non quanto l’insuccesso | Forse è per questo che passo la vita a dire che non mi interessa» (FBYC (s f o r t u n a)) – rispetto a cui si è tentati di fuggire. La fuga dal mondo non è partire per andare in Sudamerica, o vivere in una comune nei boschi, quanto piuttosto condurre una vita semplice: «Vorrei stare sempre cosí | Avere cose pratiche in testa | I soldi per mangiare, i dischi, i videogiochi e basta».

In un’altra canzone scritta insieme a Giorgio Poi – La musica italiana – Calcutta racconta la vita di un emigrato a Londra dal punto di vista di chi invece è rimasto, il quale si chiede se nell’altro sia avanzata un po’ di nostalgia, tra pesto e parmigiano, nella busta blu della Tesco. Allora, se neppure il sogno di Londra è garanzia di una vita felice, ha ancora più senso il ritornello di Hübner: «In questo mondo che è pieno di lacrime | Io certe volte dovrei fare come Dario Hübner», e quindi rinunciare al falso tentativo di realizzazione personale, rompere la catena delle velleità, e rifugiarsi in una vita più semplice e modesta – quella che facevano anche i nostri nonni. Non lasciare gli affetti a casa «A consumarsi le unghie». Non si tratta nemmeno di un vero rifiuto del mondo. Hübner non era un eremita, non ha rinunciato alla sua carriera per vivere tra le galline. Ha comunque giocato in Serie A, solo che poi la sera tornava dalla moglie e dai figli. Magari ha rinunciato a qualcosa, ma senza rimpianti, perché aveva un altro ordine di priorità, diverso dal nostro, che ci fa domandare se forse non stiamo sbagliando tutto.

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Ho sentito Calcutta al telefono e mi ha detto che a lui i discorsi generazionali non piacciono molto. Quell’idea di fare come Hübner gli è venuta in relazione alla sua esperienza, al momento specifico della vita che stava vivendo in quel periodo. Sentiva che la sua carriera gli stava facendo trascurare qualcosa, e allora forse avrebbe dovuto fare come Dario Hübner. «Io ero fissato coi bomber di provincia. Erano un modello che mi piaceva: essere grandi nella città piccola. Nella mia carriera ho provato a seguire questa idea: non confrontarmi con cose troppo più grandi di me. Mi piaceva l’idea di essere capocannoniere, però di una realtà più piccola».

Secondo lui il fatto decisivo della nostra nostalgia verso i bomber di provincia è il sovrannaturale. Questi personaggi dall’aspetto assolutamente ordinario erano capaci di gesti tecnici straordinari, che sembravano venir fuori dal nulla. I loro corpi non avrebbero dovuto permettergli quegli slanci tecnici, certe rovesciate, che forse allora erano davvero sovrannaturali. «Non erano dei grandi giocatori a tutto tondo, erano sbilanciati. Avevano delle skills sproporzionate rispetto al resto del loro gioco». Non si ritiene un nostalgico. Non crede a quei discorsi per cui questi bomber oggi giocherebbero in Champions League.

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A Carpignanica le strade sembrano indicare uno stato di sospensione, tra la veglia e il sonno. Dietro l’orizzonte si apre l’incommensurabile. Marco Belpoliti in Pianura scrive che la nebbia serve a guardare questi paesaggi senza rimanerne sopraffatti. Uno spazio sterminato che si allunga verso l’infinito, dentro cui case, persone – l’impronta umana in generale – compaiono come miraggi. In una delle più celebri fotografie di Luigi Ghirri una casa spunta solitaria in mezzo al Po in piena, che dilaga e deborda oltre i confini dell’immagine. Sembra esserci una perfetta pace. Nel mondo di Ghirri la presenza umana pare ridotta a una traccia del passato, mentre il presente è tornato a essere dominato dalla natura. Non però una natura selvaggia e aggressiva, come nei romanzi di VanderMeer, piuttosto una natura sonnolenta e apatica. Uno spazio senza eventi, calmo, in cui le creature rimaste crescono come muschio sulle rocce, cercando di raggiungere una specie di grazia minerale. Una volta finito col calcio ad alti livelli Dario Hübner ha lasciato che la pianura lo inghiottisse di nuovo. Sui campi di terra della bassa Lombardia la nebbia, con la sua densità lattiginosa, sembra trasportare il calcio in una dimensione liminale tra cielo e terra.

Gioca al Chiari, al Rodendo Saiano, all’Orsa Corte Franca, al Castel Mella, al Cavenago. Segna tantissimo, ma i suoi gol di quegli anni sono quasi invisibili, irrintracciabili negli archivi web, oppure, quando ci sono, sfumano, compaiono e scompaiono nella nebbia perenne che avvolge i rettangoli di gioco, in uno stato d’esistenza incerto. In un video registrato con un vecchio cellulare da una mano tremolante, Hübner ha 41 anni, indossa la maglia rossa senza sponsor dell’Orsa Corte Franca al torneo Gran Notturno Maclodio del 2008. Tiene le mani sui fianchi prima di tirare un calcio di punizione. Si china e si allaccia le scarpe. Poi calcia di collo pieno, il rumore della palla rimbomba nella pianura, sibila tra corpi immoti che la vedono entrare. Segna contro il San Colombano, contro la Dellese, il Cantello Belfortese, l’Arsaghese, l’Olgiate Ronago, l’Albuzzano. Su quei campi di terra, nell’umidità e nell’aria pungente, tra alberi stecchiti, vediamo ancora Tatanka correre e sbuffare, bisonte della Bassa, creatura mitica.

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Io certe volte dovrei fare come Dario Hubner