Lo ha detto Galliani, quindi deve essere vero.
L'ex “antennista” di Berlusconi, una vita da braccio destro senza mai mettere in discussione la leadership del suo Presidente con la P maiuscola, ha messo a tacere una volta per tutte quella che lui chiama una “leggenda metropolitana”. Il Sancho Panza del Cavaliere di Arcore ha fugato ogni dubbio: si trattava di un mulino a vento. Questa idea assurda, mostruosa, che Silvio Berlusconi tifasse per l'Internazionale Milano.
Nelle Memorie di Adriano G., la biografia con la lacrimuccia in cui ripercorre la storia di un umile Amministratore Delegato, sempre un passo indietro a Sua emittenza, Galliani decide di silenziare una voce che da anni rimbalza come una pallina matta. Per decenni la bugia è schizzata inarrestabile tra salotti bene popolati da invidiosi industriali meneghini, le tribune di San Siro strabordanti di comunisti e le chat dei soliti leoni da tastiera, col veleno nella coda come chimere. Subdola, peccaminosa, infamante. Semplicemente falsa, falsissima.
Anche l'amico interista Massimo Moratti è arrivato in soccorso. Il fatto che mamma Rosa B. fosse dipendente di suo padre Angelo in Pirelli, infatti, aveva spinto molti a collegare i puntini con la stessa pigrizia di quelli della settimana enigmistica: veniva fuori il disegno di un biscione, ma si trattava di quello di Canale cinque.
“Forse” ma “forse” la mamma di Berlusconi poteva simpatizzare per l'Inter, in solidarietà con il principale. Ma il figlio no... al massimo da piccolino. Piccolissimo. Per amore della mamma, perché il papà, almeno lui, era milanista. Poi comunque: “Si può dire di tutto…”. Di recente, con il solito malizioso compiacimento, anche il nemico pubblico Marco Travaglio nel Santo, ricapitolazione postuma delle presunte malefatte di colui che si ostina a chiamare “il Pregiudicato” – a dispetto dei tre giorni di lutto nazionale – ha rilanciato en passant la storia di un Berlusconi interista. E non intendeva certo il fratello Paolo, la cui antica fede nerazzurra sembrerebbe un fatto accertato.
Lo sanno tutti, infatti, che Silvio è sempre stato milanista e l'excusatio non petita di Galliani non sarebbe stata nemmeno necessaria. Così come la sua scelta un po' kamikaze, dopo che con i tifosi milanisti non si è lasciato benissimo, di rievocare il suo antico amore per la Juventus pur di distogliere l'attenzione dalle scappatelle nerazzurre del boss.
Immaginarsi un quartetto in tribuna Vip al “Delle Alpi” composto da Moggi, Bettega, Giraudo e Galliani, con l'eterna cravatta gialla e l'occhio pallato da spiritato, non credo piacerebbe nemmeno al milanista più disincantato, ma Berlusconi in nerazzurro fa male.
Pensare Galliani che si contorce come un tarantolato a un gol di Del Piero, che invoca un rigore per un fallo su Antonio Conte o che si strugge per l'ennesima finale di Champions persa da Lippi sarebbe terribile per chi, solo grazie a quegli show a favore di telecamera, negli anni gli ha perdonato tutto. Dalle follie di Marsiglia a Javi Moreno, dalle bugie sulla conferma di Kakà agli stracci volati con Barbarella al tramonto dell'impero. Colpe non solo sue dopotutto.
Figurarsi il Presidente in sciarpetta nerazzurra che alza assieme a Beppe Bergomi l'ennesima coppa Uefa vinta negli anni Novanta, o che si scambia occhiate complici con Mourinho dopo aver battuto in finale di Champions il Bayern Monaco conquistando il Triplete. “Mi consenta, José, posso dire che 'Tzsero tituli' l'ho inventato io?” Brividi.
Tuttavia, la storiella di Berlusconi interista, a differenza delle urban legends che ci raccontavano da bambini, come quella che se entravi in un negozio con la vetrina interamente ricoperta da cartelli dei saldi poi ti risvegliavi in una vasca piena di ghiaccio senza i reni, ha un fondo di verità. Ed è stato lo stesso Silvio, negli anni, ad alimentarla.
A parole, nella sua veste di politico, con la volontà di compiacere tutti tipica di quel mestiere come di quello di piazzista di aspirapolvere, ma nei fatti quando era un semplice imprenditore edile con le tasche piene di sogni e di picci e la voglia di farsi conoscere all'infuori di Brugherio.Il Berlusconi a.M., avanti Milan, si è dimostrato un po' troppo interessato all'Inter, tanto da provarci e riprovarci con l'umiltà e la tenacia che uno come lui riserva solitamente ad altre passioni.
Ma prima di rimestare nel fango, rievocando le calunnie di avversari sportivi e nemici politici, facciamo un passo di lato per lasciarci coccolare nel caldo idillio cementato negli anni dalle favole del grande imbonitore.
La primissima volta allo stadio non aveva ancora dieci anni e per riuscire a entrare allo San Siro si era dovuto stringere al papà per non farsi vedere dal bigliettaio e risparmiare i soldini che sarebbe costato il suo ingresso. Suo padre bancario, dopotutto, aveva entrate economiche da Libro cuore e un posto tutto suo allo stadio era solo una delle tante rinunce che il povero Silviuccio era costretto a subire.
Ecco quindi il piccolo Silvio, che per limiti della mia fantasia non riesco a immaginare con capelli suoi ma solo con il trapianto non impeccabile che lo ha accompagnato negli anni senili e quel cuoio capelluto marrone fulvo – o al massimo in bandana – di fianco a papà Luigi alla fermata del tram il giorno di quella prima volta.
A quel tempo, siamo a fine anni Quaranta, non c'era calcio spezzatino. I padroni delle pay-tv, nemmeno immaginate, non avevano ancora avuto l'intuizione malefica di ingolfare ogni momento della nostra settimana con partite su partite. Il calcio lo si poteva seguire solo in due modi: commentato in radio dalla retorica rimasta un po' ai tempi dell'Istituto Luce da Nicolò Carosio, oppure allo stadio. Partendo in pellegrinaggio subito dopo la messa del mattino perché di posti numerati avrebbe cominciato a parlare solo Sua Emittenza a fine anni Ottanta.
Vestiti con il completo buono, che per Silviuccio non poteva essere ancora un soffice Caraceni misto cachemire e seta ma di un rigido pannaccio scuro – simbolo della sua natura casciavit – avvolti dalla nebbia attendevano con orecchio vigile il suono sferragliante di quel simbolo di milanesità su binari.
Partivano da via Volturno all'Isola, un quartiere oggi chicchissimo che all'epoca, per usare le parole di un'intervista di Fedele Confalonieri al “Foglio”: «Oggi è tutto un corso Como, quelle robe lì, una volta c’era un ponte, che portava all’Isola, che lo separava dalla città, era quasi un paese».
Senza tenersi per mano, perché all'epoca tra maschi sarebbe stato quantomeno ambiguo, Silvio e il suo papà provavano a scambiarsi occhiate complici, ma la nebbia era troppo densa. Alimentata da Navigli non ancora sepolti sotto modernissime lingue d'asfalto, risaie e campi coltivati non lottizzati e dai fumi di fabbriche che non si fermavano mai, avvolgeva tutto, confondendo le menti e ammantando ricordi. Silvio e papà procedevano lenti a bordo del mezzo fino a San Siro, costeggiando il cimitero Monumentale, attraversando intere vallate di cantieri in fermento e arrivando solo dopo ore a San Siro.Per fortuna Luigi aveva “il sole in tasca” e con lui ogni occasione era quella buona per creare ricordi indelebili tutti sorrisi a trentaquattro denti. Nel grande piazzale solcato dai binari e al cospetto di uno stadio che rispetto all'ecomostro odierno da ottantamila posti era poco più di un embrione. Tra barzellette, qualche chiacchiera sulla partita del giorno e decine di lezioni di vita trasmesse e ricevute come solo la parabolona di Cologno. La nebbia, tuttavia, non lasciava scampo e dalle tribune era complicato capire se si trattasse di una partita del Milan o dell'Inter. Troppo complicato capire se le maglie dei giocatori in campo fossero rossonere o nerazzure. Ma una valeva l’altra.
Come ha raccontato Silvio davanti a una platea di Forza Italia durante un convegno dell'ottobre 2015 a Milano: «Con mio padre andavo a vedere anche i nerazzurri. Quando l'Inter incontra una squadra avversaria io vi dichiaro che mi sento nerazzurro».
Certo quel Milan non era male, e come ha detto Galliani, Berlusconi andava a vederlo con papà per ammirare le gesta del celeberrimo Gre-No-Li, il trio di svedesi che dopo anni di magra nel 1949-50 aveva trasformato una squadra da metà classifica in una corazzata da 118 gol in trentotto partite di campionato. L'anno dopo sarebbe anche arrivato lo Scudetto, a quarantaquattro anni dall'ultimo. Ma anche l'Inter, ormai prossima a diventare ufficialmente “Grande” non era male e col principale della mamma in sella presto avrebbe mostrato al mondo la grandezza di Milano. Per Silviuccio, insomma, mentre il brianzolo Galliani tifava Monza, c'era l'imbarazzo della scelta. «A Dio piacendo, adesso andremo a berci un bel whiskaccio» avrebbe chiosato Carosio in radiocronaca, ma a quell'età a Silvio non era ancora permesso e la sua confusione tra una e l'altra squadra era per forza dovuta solo alla nebbia.
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Quando il Milan (o forse l'Inter) perdeva, nei suoi racconti Silvio piangeva lacrime amare, le stesse che in passato rigavano le sue guance emaciate un giorno sì e l'altro pure nei duri anni della guerra, da sfollato a Como.Come aveva fatto quella volta, rientrando dal lungo esilio bellico, Papà Luigi vedendolo affranto sulle tribune di San Siro lo consolava, invitandolo a non lasciarsi piegare dalle sconfitte. Poi sarebbe arrivata, immancabile, una vittoria. Un consiglio che Silvio avrebbe conservato nel cuore tra i ricordi più preziosi, andandolo a cercare dopo ogni caduta della sua infinita carriera.
Ripartire come se niente fosse dopo averla combinata grossa è sempre stato il suo forte.
Da ragazzino – tanto per far capire le piccole cose che possono indirizzare un'esistenza nel senso o in un altro – all'età di Silvio all'epoca ma almeno quarant'anni dopo, mi ero ritrovato a piangere dopo una brutta sconfitta del Milan nei quarti di coppa Uefa contro il Bordeaux di Zidane e l'unico ad avvicinarmi per consolarmi era stato mio fratello piccolo, con una citazione altrettanto memorabile: “Ma sei scemo?”. Come Berlusconi, l'ho conservata a lungo nel cuore quando avevo bisogno di motivarmi.
Negli anni Cinquanta, Berlusconi era un teenager che quando giocava a calcio non passava mai il pallone – un “venezia” lo definisce ancora Travaglio, sempre prodigo di insulti – e a quell'età è difficile credere che non si fosse ancora deciso tra le due squadre meneghine. Tuttavia, mentre la sua preferenza per l'una o l'altra sponda del Naviglio si radicava, i suoi interessi economici si rivolgevano dal campo da calcio all'edilizia residenziale, settore dove riuscì a mettere in pratica in tempi brevissimi le sagge parole paterne.
Lavorando e sorridendo, sorridendo e lavorando, Silvio riuscì a vendere ghiaccio agli eschimesi. O meglio, case che ancora non esistevano a benestanti milanesi che volevano mettere su famiglia in una campagna denuclearizzata distante dalla Milano degli anni di Piombo.
Poco più di dieci anni dopo – nel 1963 – Berlusconi fonda Edilnord grazie a un prestito della banca Rasini (lui dice fosse la liquidazione di papà, ex direttore generale). Da quel momento parte la sua scalata nel mondo dell'impresa italiana.
Come nel film di Nanni Moretti Il caimano i soldi cominciano a piovergli addosso e dopo che nel 1969 ha completato un'enorme impresa immobiliare a Brugherio, nel 1972 ha già i fondi per entrare nel mondo del calcio. Un palcoscenico ideale per un uomo alla ricerca di popolarità immediata.
Nel 2000, lo storico e compianto avvocato interista Beppino Prisco aveva raccontato in un'intervista che Berlusconi gli aveva confidato di aver quantificato in cinquanta miliardi di lire i costi di una campagna pubblicitaria efficace ai livelli dell'acquisto di una squadra di calcio.
Quindi, partendo dal fatto che nel 1984 l'Inter, senza una lira di debito, sia passata a Ernesto Pellegrini per appena otto miliardi, non stupisce che un cane da tartufo come Berlusconi nel 1972 avesse fiutato un grande affare in anticipo sui tempi.
A seguito di un calciomercato poco gradito ai tifosi, era cominciata a circolare la voce che il criticatissimo presidente interista Ivanoe Fraizzoli, successore di un mito come l'ex datore di lavoro di mamma Rosa Angelo Moratti, intendesse liberarsi della squadra.
Il Milan aveva strappato la stella della Fiorentina Luciano Chiarugi all'Inter nonostante le avances di Fraizzoli e il duo di punte atalantine scelte per rendere meno amara la pillola – Sergio Magistrelli e Giuseppe Doldi – non scaldavano i cuori della piazza. Il clima era di smobilitazione.
Industriale milanese vecchio stampo – con una scala di valori strutturata sulla triade lavoro, lavoro e lavoro – e dalla radicata fede nerazzurra certificata da una militanza decennale nel club, Fraizzoli era sempre più insofferente alle rimostranze del tifo: «Chi vuole la società si faccia avanti».
Investito del compito di trovare un acquirente adatto, l'avvocato della società Beppino Prisco, quello che «Dopo aver stretto la mano a un milanista corro a lavarmela», gli presentò un giovane concittadino rampante che aveva conosciuto da poco. Apprezzato alla prima stretta di mano.
Come raccontato nell'aprile 2013 al Guerin Sportivo dal figlio dell'avvocato, Luigi Maria, Berlusconi era stato introdotto a suo padre dal comune amico senatore di area socialista Agostino Viviani, nonno dell'attuale segretario del PD Elly Schlein. Se l'antica fede nerazzurra di Silvio è oggetto di dibattiti, i suoi legami con i “comunisti” sono invece radicati e conclamati, molto antecedenti il colpo di fulmine con Bettino Craxi, un altro che come lui ha contribuito a creare il mito della “Milano da bere”.
Quel trentaseienne sinistrorso ma simpatico, pieno di soldi e progetti innovativi come una tv dedicata all’Inter piacque immediatamente a Prisco. E immaginiamo che se non si fosse dichiarato nerazzurro sino al midollo difficilmente sarebbe stato preso in considerazione. Ma Berlusconi, dopotutto, è sempre stato bravissimo a raccontare barzellette.
«Ho conosciuto un giovane con delle grandi idee. Si chiama Bernasconi. Con lui faremo grande l’Inter» aveva confessato al figlio dopo il colloquio con Silvio e a stretto giro aveva organizzato un incontro con Fraizzoli, di cui possiamo facilmente immaginare i contorni.
Silvio era entrato nell'ufficio del presidente interista con il suo classico sorriso splendente. Raggiante, il completo blu doppiopetto coi bottoni d'oro, un Rolex o un Patek Philippe al polso, i capelli (già radi ma ancora originali) tirati all'indietro con la brillantina. Fraizzoli, da uomo pratico ancorché attentissimo all'eleganza, lo aveva squadrato alzando un sopracciglio. Con fare un po' burbero, leggermente infastidito a trovarsi davanti un parvenu vent'anni più giovane di lui, l'aveva fatto accomodare dopo una rapida stretta di mano che Silvio aveva prolungato più del dovuto, per mostrare al contempo forza e decisione. Era una sua fissa quando cercava qualcuno da assumere.
Senza attendere le prime frasi di rito del padrone di casa, «Mi dicono che lei sarebbe interessato alla mia squadra…», Bernasconi si era lanciato subito in fuoco di fila di battute (magari non sconce come negli anni senili) e di aneddoti sulla sua storia privata, l'infanzia povera, la famiglia e i suoi successi manageriali sbalorditivi.
Seduto alla sua scrivania di noce e palissandro il presidente imprenditore, uno che secondo il sito ufficiale dell'Inter aveva come “primo comandamento” i conti in ordine e il rigore nei bilanci, “senza sgarrare nemmeno di un centesimo”, si era sentito rimescolare qualcosa nello stomaco. Qualcosa gli diceva che in futuro non gli avrebbero mai perdonato di aver ceduto l'Inter a quel trentenne pieno di soldi, entusiasta e un po' troppo sbracato. Una strana sensazione si era fatta strada dietro al sorriso di circostanza che continuava a ostentare.
Davanti alle spericolate proposte di quel “Bernasconi”, arrivato a ipotizzare un canale televisivo dedicato all'Inter, uno che prometteva prometteva e prometteva, sotto ai suoi piedi si era spalancato un abisso. Soldi spesi e mai più rientrati in cassa, investimenti a perdere inseguendo fantasie moderne, immagine che prevarica la sostanza e manda in fumo denaro. Per uno come lui, pratico sino all'ossobuco, era l'inferno. E nell'inferno ci sta il diavolo, guarda caso il simbolo del Milan.
Di colpo il presidente si era fatto serio, lo sguardo immobile, fisso sull'interlocutore. Aveva alzato una mano, intimando a Berlusconi di fermarsi. Non una parola di più.
Se era stato il suo eccessivo ardore a fargli prendere quella decisione, la sua sguaiata voglia di farsi conoscere dal mondo sulle spalle della sua Inter, l'appiglio scelto per liquidarlo senza ulteriori trattative era stato eminentemente anagrafico, quindi insindacabile: «Lei ha trentasei anni? No, l’è tropp giuvin, se vedum fra des ann». Troppo giovane, ci rivediamo tra dieci anni. L'uso del milanese non permetteva repliche. Lapidario l'aveva accompagnato alla porta.
«Grazie Prisco, lasci perdere. Se questi sono i candidati, il presidente dell'Inter resto io». Silvio aveva incassato con insolita rassegnazione, ma il suo progetto di entrare nel mondo del calcio non poteva tramontare dopo quel primo rifiuto. Il calcio era sinonimo di visibilità e lui non chiedeva altro. Suo padre lo aveva strappato da ragazzo a una vita da cantante di cabaret per farne un imprenditore, ma Silvio era sul palco che voleva vivere. Al centro della scena.
Fallito il progetto-Inter, Berlusconi si spende per ultimare la costruzione del suo capolavoro edilizio, Milano 2, la sua utopia di città modello per ricchi circondata da alberi e separata dal resto del mondo. Brutto, sporco e cattivo. Ma soprattutto povero.
A quel tempo Segrate, l'area di campagna su cui aveva cominciato a costruire, valeva pochissimo in termini immobiliari. Lontana da Milano, servita poco e male, scomoda, isolata e con gli aerei diretti a Linate che cominciavano atterraggi e decolli proprio lì sopra, difficilmente avrebbe potuto diventare appetibile senza un'idea vincente. Berlusconi aveva quindi regalato alcuni lotti a Don Verzé, un prete imprenditore che sognava di costruire un grande ospedale. Assieme al San Raffaele, erano sorti così anche i sedicenti “comitati anti-rumore”, per proteggere la salute dei poveri pazienti, e la politica era intervenuta con rara solerzia per sistemare le cose: gli aerei di Linate avrebbero dovuto passare da un'altra parte.
Berlusconi, incamerato il successo e ottenuta una nuova iniezione di popolarità, aveva provato di nuovo a entrare nel mondo del calcio: il Milan stava attraversando un periodo di grande instabilità e fede nerazzurra o meno era il caso di fare un tentativo. Siamo nel 1977 e diventato ricchissimo grazie a Milano 2, aver fondato Fininvest, la creatura su cui ha edificato un impero, trasformato una tv locale che trasmette la messa, Milano58, in Canale5 e ottenuto il titolo di Cavaliere del lavoro, Berlusconi pare si fosse fatto avanti con Vittorio Duina, all'epoca presidente rossonero. Altri sono convinti che avesse parlato con il suo successore, Felice Colombo, il presidente della stella che finì coinvolto nei fattacci del Totonero che costarono la B alla squadra, ma il risultato sarebbe comunque lo stesso.
Sono anni travagliati per il Milan, con Gianni Rivera che dopo essere stato a un passo dall'essere scambiato con il torinista Sala si compra le quote societarie dal presidente Alvino Buticchi e le gira all'amico Bruno Pardi, che nel ruolo avrà vita breve. In meno di una stagione il Milan passa a tre diversi presidenti e in quel caos – che trasforma Rivera da semplice calciatore in uomo politico in calzoncini corti – si affaccia Berlusconi, ma di nuovo la sua candidatura è respinta sul nascere.
Stavolta si dice che fosse stato il Golden Boy a mettersi in mezzo – forse non voleva un'interista alla guida del Milan? – giustificando in seguito tanto astio con una lettura dell'uomo che così a spanne sembrerebbe calzante: “Considera tutti al suo servizio”. Berlusconi si prenderà la sua rivincita a tempo debito, facendo fuori Rivera dal Milan non appena ne avrà l’occasione.
Di nuovo rifiutato, Silvio non si perse d'animo ed esattamente dieci anni dopo il primo tentativo, con in tasca il sole di papà Luigi, nel 1982 decise di ripresentarsi nell'ufficio di Fraizzoli, rimasto nel frattempo alla guida dell'Inter. O almeno, di tentare una nuova offerta.
Ce lo racconta l'avvocato di Fininvest Vittorio Dotti nel suo libro del 2015 L'avvocato del diavolo, spiegando che Berlusconi non aveva ritentato con il Milan perché sarebbe stato un tal Moro, il suo mago di fiducia – sì, come gli Agnelli, aveva un mago di fiducia – a dirgli che comprare il Milan avrebbe portato guai. Come sempre, quando con la razionalità non si arriva a spiegare un fenomeno entra in campo la trascendenza.
Dotti, interista dichiarato come l'autista e il cuoco di Silvio, oltre che ex compagno di Stefania Ariosto, che con le sue testimonianze innescò tanti processi contro Berlusconi, così come lo juventino Galliani non nutre dubbi a proposito della fede rossonera del capo. Quindi, per giustificare la sua scelta di ripresentarsi alla porta di Fraizzoli, non trova di meglio che mettere in mezzo un fattucchiere.
Per il 1980 la Federcalcio uruguayana ha organizzato la Coppa d'Oro dei Campioni del Mondo, un trofeo che dovrà celebrare i cinquant'anni trascorsi dal primo titolo Mondiale mettendo una contro l'altra tutte le nazionali che l'hanno seguita nell'albo d'oro. La partecipazione degli Azzurri rende la preda parecchio interessante per il pubblico italiano e Berlusconi ne approfitta per entrare a gamba tesa sul mercato televisivo nazionale, fino a quel momento monopolizzato dalla Rai.
Silvio si accaparra i diritti di trasmissione del torneo su Canale 5 per 900mila dollari, cifra fuori mercato, e grazie alla sponda offerta da “Gazzetta dello Sport” e “Corriere della Sera”, giornali all'epoca di proprietà del collega piduista Rizzoli, oltre che del governo Forlani, ottiene dalla Rai la possibilità di utilizzare i satelliti per trasmettere su scala nazionale le gare del ribattezzato “Mundialito”.
All'epoca, per una televisione privata, non era infatti possibile un'operazione di questo tipo, ma grazie a questa prima volta Silvio riesce a scoperchiare il vaso di Pandora. Nulla sarà più come prima. Adesso Berlusconi è davvero popolare. Sempre sbarbato alla perfezione, con i capelli un po' più radi impomatati all'indietro, il doppiopetto blu scuro con i bottoni d'oro, il sole in tasca e quella voglia di far ridere tutti con le barzellette. Ma non è più il parvenu trentaseienne del 1972.
Sandro Mazzola ha raccontato l'aneddoto alla Gazzetta dello sport nell'aprile 2006. Diventato dirigente dell'Inter dopo una vita con la maglia nerazzurra cucita sulla pelle, con i suoi collaboratori ha l'idea di copiare la formula del Mundialito per un torneo rivolto alle squadre di club. Il nome, quasi mai utilizzato da tifosi e media, sarebbe stato Coppa Super Clubs.
Al torneo avrebbero dovuto partecipare le squadre vincitrici di una coppa Intercontinentale – comprese quindi le due milanesi – e sarebbe stato trasmesso in diretta sui canali del Biscione, che così dopo il trionfo del torneo per nazionali avrebbe avuto un'altra occasione per conquistare pubblico a livello nazionale.
Berlusconi accoglie con entusiasmo la proposta: «D’accordo, ci sto. Voi vi occuperete della parte calcistica, io della pubblicità e della tv. Per gli utili faremo a metà» e tempo zero fa allestire un suo ufficio dedicato al torneo a due passi dalla storica sede dell'Inter in via Durini. Se anche non mi fate entrare, io posso diventare vostro vicino di casa.
Mentre l'organizzazione di quello che sarà noto a tutti come Mundialito per club comincia a entrare nel vivo, le riunioni si susseguono frenetiche. A una di queste partecipano sia Mazzola che Berlusconi e il futuro presidente rossonero ne approfitta per avvicinarsi cospiratorio all'ex capitano interista. Silvio, sempre ben informato, sa che Ivanoe Fraizzoli è di nuovo stanco dell'Inter e che, di nuovo, vuole passare la mano. I dieci anni di bando sono passati e di strada, da quando era poco più di un palazzinaro ambizioso, ne ha fatta parecchia. Sia con le sue aziende sia in fatto di appoggi politici. Fraizzoli, questa volta, non ha appigli per respingerlo.
Mazzola promette di riferire la cosa al presidente, ma al netto di un tentennamento iniziale – «Potrei cedere a Berlusconi il cinquanta percento» – i dieci anni trascorsi non hanno fatto cambiare idea al vecchio industriale, l'uomo dei bilanci in ordine, figlio della vecchia Milano. Ancora una volta si oppone, preferendo aspettare uno con meno soldi ma più understatement come il “cuoco” degli Agnelli Ernesto Pellegrini – definizione dell'Avvocato Gianni – piuttosto che l'istrionico Silvio. Forse anche Fraizzoli aveva un mago personale, oppure si faceva fare le carte dalle fattucchiere del quartiere Brera. Chi lo sa.
Sta di fatto che, di nuovo, Silvio rimane con un pugno di mosche e per entrare finalmente nel mondo del calcio sarà costretto ad aspettare il quasi fallimento del Milan. Passato nel frattempo due volte dalla B – «Una a pagamento e una gratis» tanto per citare ancora Prisco – e ormai da tempo ai margini. Poco importa se Moro abbia dato o meno l'assenso, arrivato a quel punto della sua parabola imprenditoriale Silvio aveva bisogno del tipo di pubblicità che solo una squadra di calcio sapeva offrire. Punto.
Nel 1996, nel corso di un'intervista al TGR Lombardia, Berlusconi in una delle sue tante rivisitazioni storiche racconterà che era stato Fraizzoli a proporgli l'Inter ma che lui aveva rifiutato «Perché il Milan è sempre stato per me una religione». La storia dei suoi due assalti a via Durini, però, farebbero pensare il contrario. Mago Moro a parte. A meno che Galliani non ci abbia raccontato qualche bugia. Ma se lo ha detto lui, deve essere vero.