Dirk Nowitzki ha vissuto (chiedo perdono per l’utilizzo del passato) una carriera assolutamente incredibile, in cui ha inventato di fatto il ruolo dello stretch four —anche se ridurre Dirk ad una semplice etichetta è ai limiti della blasfemia. È stato MVP nel 2007, è arrivato fino al 6° posto della classifica dei realizzatori NBA di tutti i tempi, è diventato l’icona di una franchigia e di due città (Würzburg e Dallas) e si è garantito un posto nella Hall of Fame ed i galloni di miglior Europeo di sempre.
Jason Terry ha vissuto una carriera abbastanza invidiabile, sfruttando nel miglior modo possibile la propria abilità maggiore, cioè saper fare canestro, preferibilmente da tre punti: è infatti 3° (e il migliore tra i giocatori in attività, perché nel caso qualcuno se lo fosse perso è felice spettatore dall’interno del Giannis Show, a Milwaukee) per triple realizzate ogni epoca, dietro a Ray Allen e Reggie Miller, e tra i primi 60 per punti (nonché assist e palle rubate). Tanto per rendere l’idea: Rick Barry, Tracy McGrady, Julius Erving, Magic Johnson, Kevin McHale, Chris Webber, Grant Hill hanno segnato meno punti in NBA di lui; chi per infortuni o problemi di salute in generale e chi perché impegnato altrove (Barry e Erving, in ABA), ma il dato resta.
Prima che i Dallas Mavericks vincessero le Finals del 2011 nella percezione generale di appassionati e tifosi (non tutti, per fortuna) Terry era visto come il classico giocatore da playground (di Seattle, oltretutto) tutto fumo, niente arrosto e troppa spocchia. Ma soprattutto Nowitzki era uno che “non poteva vincere”, perché i suoi difetti (difesa, prima di tutto) erano considerati troppo limitanti per potergli permettere di raggiungere l’anello. E quindi di conseguenza un non vincente o, per gli haters più incalliti, un perdente.
A livello di soddisfazione personale nulla (se si parla di sport) può essere paragonato alla vittoria di un titolo, specie se di uno dei campionati più prestigiosi del pianeta, e farlo nel modo in cui lo hanno fatto i Mavs aggiunge prestigio e immortalità. A livello di riconoscimento tra gli addetti ai lavori e di, come detto, percezione,l’anello però non può e non deve poter fare una differenza così enorme, specie di fronte ad atleti meritevoli (Dirk in maniera infinitamente più grande di The Jet, s’intende). Dopo il successo pregi e difetti dei due sono rimasti tali e quali: Terry non ha abbassato le ali del Jet e Dirk non ha imparato a difendere, non ha iniziato a dominare a rimbalzo e non si è trasformato in un passatore dal post alto. Entrambi si sono meritati un sobrio (no) ed economico (nemmeno) anello e hanno scalato qualche posizione in un’ipotetica classifica dei migliori, ma il giudizio sulle rispettive carriere non può passare da perdente a vincente nel giro di un paio di settimane, così come vincente e vincitore non possono essere sinonimi: esistono tantissimi vincenti, in ogni campo, che non trovano mai la possibilità di trasformarsi in vincitori (ne vince comunque uno solo per volta). E tantissimi vincitori che raggiungono l’obiettivo senza grossi meriti, ma semplicemente trovandosi al posto giusto nel momento giusto.
E una sconfitta per quanto clamorosa (Mavericks 2007, primo turno di Playoffs contro gli Warriors) non necessariamente implica la presenza di perdenti, anche perché in questo modo non si salverebbe nessuno: gli Warriors attuali sarebbero vincenti (2015) o perdenti (2016, da 3-1 in una serie in pratica già vinta prima che Green venisse giustamente fermato e che Iguodala e Bogut si infortunassero)? L’incredibile (un attimo: INCREDIBILE, probabilmente il tiro più pesante e significativo della storia di questo gioco) tripla di Ray Allen ha cambiato destini e carriere e quindi avrebbe reso Duncan, Popovich e gli Spurs dei perdenti (avevano fisicamente già le mani sul trofeo), a prescindere da quanto fatto prima e dopo?
Davvero un episodio del genere può trasformare dei perdenti in vincenti e viceversa? Solo ed esclusivamente questo?
Un’altra chance per Mike D’Antoni
A grandi linee si possono distinguere le squadre di primissima fascia in tre categorie: le Dinastie, che nascono quando si trova la ricetta per miscelare bravura (in tutte le sfumature e accezioni), longevità, salute fisica e circostanze, elevandosi così sopra la concorrenza fino a vincere due o più anelli; le squadre titolate, che ottengono risultati eccellenti per un arco di tempo più o meno lungo, riuscendo anche in un’occasione a mettere le mani sul Larry O'Brien Trophy (i suddetti Mavs, i Celtics dei Big Three o i Pistons di metà anni 2000); le altre grandi squadre, che ottengono risultati di assoluto rilievo per una o più stagioni, ma restano a bocca asciutta. La distinzione è netta solo in apparenza, perché singoli episodi come detto non possono separare in modo tranciante chi non vince da chi vince una volta e chi vince una volta sola da chi si ripete.
Al terzo gruppo appartiene chi in qualche modo ha lasciato un segno, vuoi per la costanza e la fortissima resistenza offerta ad una dinastia (gli Utah Jazz di Stockton e Malone), vuoi per lo spettacolo (i Sacramento Kings del Greatest Show on Court), vuoi per l’innovazione. Se avete capito dove voglio arrivare… dire che Steve Nash non poteva vincere è un’affermazione che ha poco, pochissimo senso. Dire che i Suns dei Seven Seconds or Less (abbreviato in SSoL) non potevano vincere, altrettanto. Mike D’Antoni, idem. Non hanno vinto, che è diverso. Nash perché non è LeBron/Duncan/Kobe (le Dinastie), ma sta un paio di gradini più giù: è stato un grandissimo giocatore, a cui sono capitate solo un paio di reali occasioni di accedere alle Finals e che a causa di alcuni episodi non è arrivato fino in fondo.
Se esistessero Sacre Scritture del Basket non ci sarebbe scritto “i jump shooting teams non possono vincere”, né “senza playmaker non si può vincere”, né “senza centro non si può vincere” e nemmeno che da leader di una squadra possono vincere solo le Superstars. Le Superstars sono tali proprio perché aumentano il numero di anni in cui la squadra ha una chance concreta di vittoria, ma con la giusta congiunzione astrale il successo (per fortuna) è alla portata anche di altri giocatori. E lo stesso vale per gli allenatori: D’Antoni non è neanche lontanamente Popovich o Jackson, sicuramente è estremo e integralista sotto svariati di punti di vista e altrettanto certamente ha bisogno di un assistente allenatore di un certo livello che curi la difesa, ma oltre ad aver inventato o quantomeno sdoganato tutti i principali concetti che stanno alla base degli attuali attacchi NBA, quando ha avuto a disposizione il materiale adatto ad esaltare il proprio gioco ha creato una squadra estremamente competitiva in grado di avvicinarsi alle Finals. Non ha vinto perché alcuni episodi hanno favorito altri, non perché strutturalmente inadatto. Le esperienze poco felici a New York e Los Angeles hanno certificato la sua poca flessibilità, ma che nelle condizioni adatte potesse ancora ricreare la magia di quei Suns non era impossibile da immaginare: serviva solo che qualcuno avesse il coraggio di provarci.
Uno dei momenti più controversi dell’NBA moderna: Stoudemire e Diaw erano in panchina, entrano in campo e vengono squalificati. E gli Spurs vincono la serie in gara-6 rimontando nel secondo tempo.
Parola d’ordine: vendetta
Avere in simpatia o antipatia un giocatore, un allenatore o uno stile di gioco è sacrosanto, a patto che non si confonda il giudizio tecnico o di merito con una valutazione soggettiva. Jason Terry può risultare indigesto (e lo fa eccome, peraltro in ottima compagnia) alla maggior parte degli appassionati, ma nessuno può negare il suo ruolo e il suo peso nella vittoria dei Mavericks del 2011. Dirk Nowitzki è una Leggenda ed è molto semplice da stimare o anche amare alla follia, ma nessuno si sognerebbe mai di ritenerlo un buon difensore, così come nessuno avrebbe mai dovuto definirlo un perdente. Ci sono situazioni in cui l’etichetta arriva da non si sa bene dove e si consolida in modo totalmente irrazionale, ci sono situazioni in cui arriva dal delirio di pochi e svanisce nel nulla e ci sono anche situazioni in cui, a dirla tutta, il giocatore se le cerca.
James Harden quando non è al meglio della condizione psicofisica è semplicemente impresentabile in difesa e che per questo possa non piacere è comprensibilissimo. Vedere in che stato si è presentato all’inizio della scorsa stagione dopo un 2013-14 disastroso e un 2014-15 invece più che dignitoso non ha certamente contribuito a migliorare la sua fama, soprattutto alla luce del fatto che l’impegno difensivo e la buona forma fisica erano coincisi, non casualmente, con la miglior stagione della sua carriera, da vice MVP e con l’approdo alle Finali di Conference nel 2015. Un giocatore che sembra finalmente aver raggiunto il proprio picco di rendimento e dovrebbe cercare la rivincita — tanto sul piano individuale che su quello del risultato di squadra — non può arrivare al training camp sovrappeso e svogliato, neanche se la sua compagna è Khloé Kardashian (che fa più vittime della peste e che per la disperazione di LeBron ha già iniziato a farsi vedere a bordo campo a Cleveland, a supporto del nuovo amore Tristan Thompson), il suo allenatore è Kevin McHale e il suo compagno di squadra di riferimento è Dwight Howard. Anche se forse un po’ di empatia e comprensione la merita, è un triangolo che non si augura a nessuno.
Per dare ad Harden nuove motivazioni e liberarne definitivamente il potenziale offensivo, Daryl Morey — da General Manager estremamente pragmatico, ma che pur di ottenere i risultati desiderati venderebbe la madre (e qualunque membro del roster o quasi, cosa che ad alcuni giocatori pare sia risultata abbastanza ostica da digerire) — ha pensato che affiancargli D’Antoni ed anche Eric Gordon e Ryan Anderson, tutta gente in cerca di vendetta, fosse una scelta sicuramente rischiosa per le lacune difensive e la scarsa tenuta fisica dei due ex Pelicans, ma che nella metà campo offensiva avrebbe potuto dare enormi soddisfazioni. E infatti…
Steve Nash sotto steroidi
James Harden è antipatico, non difende, va ad un ritmo tutto suo, monopolizza il gioco e forza una marea di tiri. Ma palla in mano è, semplicemente, un Mostro. Quando D’Antoni a inizio stagione ha dichiarato che sarebbe stato il playmaker della squadra le reazioni sono state di due tipi: chi ha dato del pazzo a Mike (in questo caso inviterei caldamente a rivalutare la concezione di “playmaker”, che ormai e da anni è totalmente slegata alla figura del giocatore più piccolo in campo) e chi ha scrollato le spalle convinto a ragione che Harden il “playmaker” lo sia sempre stato, dal primo giorno in cui ha messo piede a Houston (ma anche quando usciva dalla panchina a OKC). Quasi nessuno però, pur immaginando che il matrimonio potesse essere felice, aveva previsto che i Rockets dopo oltre 20 partite e con un calendario durissimo avrebbero avuto il quarto miglior record della lega, con dieci vittorie in fila al momento in cui scriviamo. E soprattutto nessuno poteva prevedere che Harden si sarebbe trasformato in una versione il 20% più pesante e potente e il 98% più ricca di peluria facciale di Steve Nash.
Stanti le evidentissime differenze di visione e stile di gioco, due aspetti più di tutti certificano quanto vicini e comparabili siano i due: l’intesa trovata con il principale partner di pick and roll e i tiri aperti, cioè non strettamente contestati, regalati ai compagni. Clint Capela non è Amar’è Stoudamire e nemmeno una copia sbiadita di DeAndre Jordan, però è lunghissimo, super atletico e fa benissimo tutto quel di cui Harden ha bisogno: porta ottimi blocchi, anche molto alti (il blocco alto in punta è uno dei marchi di fabbrica del SSoL), e poi si butta verso il ferro in attesa del pallone. Che arriva sempre, con estrema puntualità ed eccezionale rendimento, garantendo 6 punti a partita su 4 tiri.
L’intera playlist delle azioni che coinvolgono i due è visionabile qui, ma la dinamica è praticamente sempre la stessa: anche contro le difese migliori lo spazio in area assicurato dalla presenza di tiratori affidabili è talmente tanto che basta un blocco portato con il giusto tempo ed il giusto angolo per trovarsi spalancata la strada verso il ferro.
Ora che Capela si è infortunato e rimarrà fuori 4-6 settimane, sarà interessante vedere come cambierà l’attacco e la difesa di Houston
Per quanto riguarda il perimetro, Steve Nash è tutt’ora il detentore del record per il maggior numero di assist per una tripla in una stagione, fissato a quota 284 (3.8 a partita su 35 minuti a gara) nel 2004/05; Harden al momento viaggia a 5 a partita (su 37 minuti), il che lo potrebbe portare vicino ai 400 (!). Per dirla in altro modo: Harden è per gli assist ai tiratori da 3 quel che Steph Curry è stato per le triple segnate; stesso volume e stesso folle incremento rispetto al record precedente (a margine: LeBron è sugli stessi livelli, ma questa è un’altra storia. O meglio: sempre la solita storia, quella del Più Forte).
La lotta tra lui e Westbrook con numeri ai confini della realtà, compresi quelli di assist potenziali (cioè assist + passaggi che portano a un tiro sbagliato), può estendersi dal titolo informale di miglior giocatore che crea un attacco da solo a quello di MVP, il tutto per la gioia degli occhi degli appassionati e soprattutto di Morey, che pare finalmente aver trovato un allenatore in grado di sviluppare i principi del Moreyball (ricerca ossessiva delle conclusioni a più alta percentuale effettiva, quindi soluzioni al ferro o tiro da 3) perché ci crede e perché è in grado di applicarli e non… “perché sì”, come invece accadeva con McHale.
I canestri generati dagli assist di Harden: puro Moreyball (via Krishna Narsu)
Il 43.4% dei tiri dal campo presi dai Rockets arrivano da oltre l’arco, ma non tutto è D’Antoniano; restano infatti abbondanti dosi di Hardenismo, perché oltre al Seven Seconds or Less (Rockets, Wizards, Thunder, Suns e Knicks si attestano intorno al 20% di conclusioni tentate entro i primi 7 secondi di azione) esiste il… Twenty Seconds or More, cioè palla addormentata in mano al Barba e tutti fermi, che poi tanto basta un pick and roll centrale per creare il terrore. Solo Jazz, Mavericks e Kings arrivano più frequentemente a ridosso della sirena, perché Harden è sì uno dei migliori passatori della lega, ma contemporaneamente uno dei migliori realizzatori e procacciatori di tiri liberi (insieme, anche in questo caso, all’ex compagno Westbrook). In America lo definiscono “An Offense onto Himself”, un attacco per i fatti suoi, in grado di creare in qualsiasi momento un tiro decente per sé o per gli altri — una capacità di creazione a dir poco rarissima anche al più alto livello del mondo. Un mancino (quindi da marcare con i piedi “al contrario” rispetto alla maggior parte degli avversari, il che di per sé è già problematico) che va a una velocità totalmente diversa da tutti i pari-ruolo, gioca sotto il ferro, sempre in controllo e un maestro assoluto di footwork, che passa e segna in questo modo, è un incubo sempre e comunque, per tutti.
Tutto questo può bastare per vincere? Probabilmente no, perché le avversarie sono piene di Mostri. Il rendimento offerto da Gordon e recentemente da Beverley è estremamente incoraggiante, ma Houston è e resterà una squadra che vive e muore con la propria Stella; trovare soluzioni alternative è fondamentale, ma non ci si potrà mai permettere, ad esempio, di abbandonare Harden in un angolo sulla Kawhisland e lasciare che a creare il gioco ci pensi qualcun altro. Intanto però, per essere una stagione nata all’insegna della vendetta, c’è margine per essere abbondantemente soddisfatti.
James Harden svogliato, sovrappeso, con una Kardashian appresso e che in difesa nemmeno ci prova non può vincere, mai.
James Harden nel giusto contesto e con i giusti compagni e con gli episodi a favore nel momento giusto… dipende.