Il 12 settembre è la terza giornata di Liga, si gioca pochi giorni dopo lo stop per le amichevoli internazionali che portano Messi a volare in Bolivia ed esattamente il giorno dopo la nascita del secondo figlio Mateo. Per questi motivi Luis Enrique decide di farlo partire dalla panchina, nonostante l’avversario sia l’Atlético Madrid del "Cholo", sfidante per il titolo.
Le prime immagini della gara ovviamente sono per il 10, le telecamere indugiano su di lui sperando tradisca qualche emozione, magari di disappunto. Sono passati nove mesi dalla partita contro la Real Sociedad che ha rappresentato il punto di svolta per la stagione che porterà al Triplete, il momento in cui sono cambiati i rapporti tra l’allenatore e la stella della squadra. Messi è tranquillo in panchina nonostante la partita vada avanti e si complichi, con il Barcellona che riesce a pareggiare il gol di Torres solo grazie a una bella punizione di Neymar. È tranquillo perché sa che il momento in cui entrerà in campo sarà quello in cui cambieranno i rapporti di forza tra le due squadre.
Messi è soprattutto un placebo mentale. La sua presenza rassicura i compagni sul fatto che gli equilibri del cosmo torneranno dalla loro parte. Formalmente gioca a destra. i palloni li tocca al centro, per una squadra che non riesce a capire come affrontare il sistema difensivo dell’Atlético Messi praticamente agisce da Xavi. Come lui non perde mai palla, non sbaglia mai un passaggio (ok 2 su 30). Ricostruisce per intero il tessuto dell’attacco della sua squadra. Tocca 45 palloni in 30 minuti, dialoga con i compagni davanti alle due linee bloccate dell’Atlético, sfidando di petto tutto il fantastico sistema difensivo del "Cholo".
L’Atlético fiuta il cambiamento di contesto e decide di non perdere la bussola, di affrontare l’ondata stringendo il campo, serrando le linee, costruendo una palizzata di gambe a difesa dell’area. Se il Barça ha trovato un altro Xavi la soluzione migliore è togliere lo spazio per farlo giocare.
L’idea del "Cholo" è logica e probabilmente avrebbe funzionato se quello fosse stato veramente Xavi. Il problema è che il 10 è il giocatore migliore per giocare a pallone come se gli avversari non esistessero. Messi salta l’uomo 8 volte. Si butta in area incurante dell’assenza di spazio. La fiducia che l’Atlético ha nella propria capacità di togliere ogni corridoio di gioco è dove Messi va a vincere la partita: da un’azione confusa in spazi ristretti il Barcellona riesce a tirare fuori un ottimo passaggio ravvicinato per Luis Suárez in area.
Fosse stato solo, il 9 avrebbe avuto vita difficile, trovandosi al centro del triangolo (centrale + terzino + mediano) costruito dagli avversari per contenerlo. Suárez però la palla la riceve e la tocca di prima per Messi che, con un movimento da centravanti puro, taglia l’area senza palla e la tocca d’esterno di prima evitando l’intervento dei due avversari collassati in scivolata per fermarlo e del portiere che non fa in tempo a uscire.
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La partita tra due contendenti al titolo è durata un’ora, poi è entrato Messi e l’equilibrio è finito. In una sola azione il 10 ha interpretato il miglior Xavi, il miglior Iniesta e il miglior Suárez.
La parte più interessante però non è tanto l’infinito talento di Messi, quello che gli permette di incidere in tanti aspetti della propria squadra. Quello è pacifico. Parliamo del miglior giocatore al mondo. La cosa interessante è che per fare al contempo da Xavi e da Suárez significa che dal punto di vista tattico bisogna approfondire, perché Xavi gioca da mezzala, Suárez da punta, mentre Messi tecnicamente viene schierato da ala destra del tridente. Per spiegarlo si deve tornare indietro alla stagione precedente.
Nuovo Messi
Il Messi attuale, il centro della galassia blaugrana, non nasce dallo scontro con Luis Enrique, ma parecchio tempo dopo. Dallo scontro di ego tra i due nasce la seconda versione del Barcellona di Luis Enrique, quella che riporta definitivamente Messi sulla fascia destra abbandonando i tentativi di inizio stagione di farne il trequartista dietro a Neymar e Suárez. L’idea di Messi trequartista aveva una sua logica nell’avvicinare i due più grandi talenti della squadra, Messi e Neymar, ma aveva la pecca di rendere la squadra arginabile difendendo il centro senza preoccuparsi di cosa avvenisse sugli esterni. Gli scambi tra i due fenomeni erano bellissimi, ma il potenziale della squadra era limitato dalla mancanza di spazio.
Per Messi il dislocamento a destra ha rappresentato una specie di ritorno alle origini. In modo per certi versi controintuitivo questo cambio di posizione ha causato un rafforzamento del rapporto in campo tra Messi e Neymar, perché con il ritorno dell’asse con Dani Alves e la presenza dall’altra parte di Jordi Alba, la squadra catalana riesce a costruire gioco da destra e a definirlo a sinistra. Una squadra bifronte legata dai ponti creati dai passaggi di Messi per Neymar.
È come se il Barcellona avesse scoperto per l’ennesima volta l’unicità del talento di Messi: un universo in continua espansione, capace di spostare sempre più lontano i propri confini. Basta mettere il giocatore davanti a una problematica per vederlo uscirne vincitore con una soluzione nuova ogni volta. Vale quando si trova davanti avversari sempre più grossi e sempre più aggressivi, come quando si trova a dover cambiare il proprio gioco per salvare la stagione alla propria squadra. Messi scopre la qualità del proprio interno sinistro. Quella prima solo ammirata per filtranti ravvicinati o tiri sul secondo palo.
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Da notare il coro del Camp Nou in suo onore, che solitamente parte dopo un suo gol. In questo caso inizia non appena tocca palla. Il suo stadio già conosce il risultato finale.
Siamo abituati a vedere gesti eseguiti in modo perfetto da giocatori che li provano da anni, che quando diventano professionisti li hanno tra le proprie caratteristiche come se fossero una parte del loro corredo genetico. Xabi Alonso lancia la palla così da sempre no? Pirlo pure, giusto? E come fa un giocatore nel pieno della propria maturità a scoprire la perfezione in un gesto prima eseguito solo sporadicamente? Solo Messi poteva inventarsi da un giorno all’altro, e davanti a una nuova esigenza, come probabilmente il miglior passatore largo d’Europa.
Perché questo ha significato lo spostamento a destra senza la necessità di raffreddare il rapporto con Neymar, che i due si trovassero agli estremi opposti di un passaggio eseguito dalla fascia sinistra a quella destra da parte di Messi. Il famoso cambio di gioco per trovare il lato debole della difesa avversaria diventa un’azione talmente normale da risultare quasi del tutto logica.
Ma certo: se ho due talenti che hanno bisogno di spazio devo metterli ai capi opposti e poi farli connettere da un cambio di gioco sul lato debole. Luis Enrique è un genio.
O forse semplicemente il talento di Messi piega anche la logica al proprio volere, come suggeriscono le parole del compianto Eduardo Galeano, che per descrivere Messi finisce per sfidare la fisica: «Così come Maradona tiene il pallone attaccato al piede, Messi tiene il pallone dentro il piede. Si tratta di un fenomeno fisico… scientificamente è impossibile, però è vero!» questo è vero per il suo dribbling quanto evidentemente per ogni altro gesto tecnico che decide di perfezionare.
Messi esegue quasi 3 cambi gioco a partita, esattamente due in più rispetto alla stagione prima. Gli assist e i gol arrivano a valanga: segna 20 gol e serve 10 assist. L’esecuzione del gesto diventa routine: Messi riceve, avanza per distanziarsi dal marcatore e senza neanche guardare cambia gioco con precisione chirurgica per la fascia opposta, dove Neymar è in attesa del pallone a distanza di sicurezza dal terzino, occupato a tenere a bada i movimenti smarcanti di Suárez, passaggio al centro per chi taglia verso l’area (spesso anche lo stesso Messi). Gol. Il numero 10 non è più la creazione e la definizione del gioco del Barcellona come prima, ne diventa la chiave di volta. Quando si parla del gioco della squadra catalana si intende l’intesa tra Messi e Dani Alves, quella tra Messi e Neymar e quella tra Messi e la porta. Senza la chiave di volta l’arco non si può sostenere e crolla sotto il suo stesso peso.
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Pillola blu o pillola rossa?
La versione con i ponti di Messi sembra inarrestabile, fino a quando gli avversari si fanno coraggiosi: decidono che esiste un solo modo per fermare la squadra ed è quello di far crollare il ponte creato da Messi. Per farlo gli approcci diventano due e sono riassumibili brevemente nell’immagine di Morpheus che offre due pillole: pillola rossa significa bloccare Messi, costruire una rete di protezione che renda difficilissima la ricezione del pallone per il numero 10, magari marcandolo a uomo o con un sistema di coperture. Se non può lanciare da libero e deve passare il tempo a saltare l’uomo per giocare la palla, questa non arriverà con le giuste tempistiche dalla parte opposta. La scelta è stata fatta per primo dal grande Berizzo col suo Celta Vigo, impostato tutto nel controllare la direzione del pallone ricevuto da Messi.
Pillola blu invece significa lasciare a Messi il ponte, ma tagliare fuori il resto della squadra. Questa strategia viene provata con successo da Javi Gracia con il suo Málaga che, posizionatosi con tutta la squadra davanti alla propria area, blocca il passaggio finale della sequenza Messi-Neymar-gol. Messi non viene mai affrontato in modo diretto, l’argentino viene ritenuto troppo abile a saltare l’avversario che entra in modo aggressivo.
Viene invece accompagnato sul proprio destro, con due giocatori che lo invitano ad andare sul fondo invece che verso l’interno. Dietro la linea non c’è spazio per i movimenti di Neymar, che riceve la palla da fermo, cosa che ne limita molto l’efficacia. Messi non viene affrontato, viene isolato. Viene sfidato il suo talento. Grave errore. Sfidarlo così apertamente può portare a vincere alcune battaglie, ma la guerra alla lunga non l’ha vinta ancora nessuno. Peggio, sfidare il talento di Messi lo pone davanti a una problematica da cui presto o tardi trova risposta. In questo caso arriva due mesi dopo.
È il 25 aprile, il derby di ritorno con l’Espanyol, che in casa decide di prendere la pillola blu e provare la difesa à la Málaga. 4-4-2 compatto e controllo degli spazi per indirizzare Messi dove vuole la difesa. Tutto nella norma, se non fosse che in campo arriva una versione diversa di Messi, che pone le basi per l’incredibile finale di stagione dei blaugrana.
Libertà
Per semplicità possiamo chiamare questa versione la Messi 3.0, quella che ancora sta facendo tremare l’Europa tuttora, quella che ha battuto in mezz'ora l’Atlético Madrid e in due minuti il Bayern Monaco. Il giocatore che alzerà il Pallone d’oro 2015.
Messi entra in campo formalmente come ala destra, ma da subito si nota che la posizione di ricezione non è la solita. Svaria sul campo, si avvicina quasi a togliere la palla dai piedi di Dani Alves e poco dopo dialoga nello stretto con Neymar. A Rakitic viene dato il compito di “togliersi di mezzo”, fare spazio totale al numero 10 e capire quando andare a giocare largo per far ricevere il compagno da mezzala. A Suárez di allargarsi quando Messi attacca l’area. Luis Enrique decide quindi di andare all-in con il talento di Messi, dandogli tutte le libertà possibili, liberandolo anche del vincolo della posizione in campo. I ponti di Messi ritornano con ancora più forza, perché adesso non nascono solo dalla fascia destra, ma da qualsiasi punto il 10 ritenga opportuno eseguirli.
L’Espanyol perde la gara con una facilità assurda. Messi cammina per il campo, misura con freddezza inquietante lo spazio a disposizione e poi si accende creando una giocata o trovando la fessura che qualsiasi difesa al mondo è costretta a concedere almeno un paio di volte a partita. Come uno squalo gira intorno alla preda prima di decidere il momento di sferrare l’attacco.
Il gesto rimane pura poesia in movimento, perfetto nell’esecuzione e geniale nella creazione. Sempre diverso, mai fine a sé stesso. Quasi offensivo nel modo in cui tutto gli riesce. Quasi cattivo nel modo materialistico con cui indirizza il suo gioco. Potrebbe fare tutto. Saltare tutta la squadra avversaria e poi tornare indietro e farlo ancora. Giocare con la preda per il gusto di farlo. Invece Messi è la morte dell’effimero. L’esaltazione dell’efficienza come forma più pura di arte. Il gesto esiste perché ha un fine. Se non esiste lui lo crea, ma il fine ultimo rimane sempre. Che sia saltare un uomo, trovare un compagno, mettere la palla in porta.
Il suo miglior gol del 2015.
Non è mai esistito un giocatore così competitivo. Non è un esteta. Il calcio al di fuori dal momento in cui lui è in campo non sembra interessargli. Vuole però vincere sempre e allora quando tocca palla diventa un’enciclopedia del calcio. Chiedete a Guardiola se secondo lui il modo con cui ha deciso di vincere la partita contro il Bayern fosse dettato dalla ricerca di un momento di climax massimo o dalla voglia di sfruttare le uniche due azioni in cui la strategia dei bavaresi si era bloccata per un attimo. Un attimo è bastato per trovare lo spazio di calciare in porta da fuori e sorprendere Neuer. Un attimo è bastato subito dopo per umiliare Boateng e infilare la palla in porta per il 2-0.
Gesti bellissimi, eseguiti perché era il modo migliore secondo lui per vincere la partita. Piegare il tempo al proprio volere e rubare quella frazione di secondo necessaria a far dubitare a Boateng se il 10 volesse andare sul sinistro o sul destro. Il gesto è bellissimo, ma sono sicuro che se glielo chiedete a Messi parlerebbe della necessità di mandare fuori tempo l’avversario e la necessità di utilizzare il destro perché inaspettato.
Sarebbe in grado di giustificare logicamente anche questo gesto inventato sul momento come l’unico adeguato per stoppare quel pallone. Come se fosse un gesto che lui sa fare da sempre e che ha tirato fuori solo per l’occasione.
Il livello ormai è tale che gli allenatori devono scegliere se costruire un piano gara completamente dedicato a Messi o completamente dedicato al resto della squadra: andando a bloccare i rifornimenti al 10, attraverso un pressing inumano (come l’Athletic Club in Supercoppa e sempre il Celta in campionato questa stagione) o con un lavoro tattico attentissimo sulle distanze dei reparti (come dimostrato dal Depor).
L’opzione di andare contro i rifornimenti è efficace solo con un lavoro tattico esemplare e un’attenzione massima per tutti i 90 minuti, ma non è che l’opzione del piano dedicato a Messi sia altrettanto facile. Lo sanno bene alla Juventus, dove Allegri ha tirato su un piano gara all’altezza della situazione posizionando Evra e Pogba sempre nella zona di Messi per bloccargli l’opzione interna e quella esterna, Bonucci (centrale di sinistra per l’occasione) e Vidal per una doppia copertura. Praticamente tutto il sistema del centro-sinistra della Juventus era basato sul limitare Messi.
Limitarne la ricezione da libero, i cambi di gioco tenendolo sotto controllo a tutto campo e i tiri in porta mettendogli sempre almeno due uomini davanti allo specchio. In termini generali la strategia aveva una logica evidente e ha anche funzionato, limitando di molto l’impatto del 10 sulla partita e regalando le copertine a Neymar e Suárez. Andando però a rivedere i gol lo zampino di Messi c’è. Anche quando sembra non poter essere il miglior giocatore della partita, il modo per aiutare la squadra a vincere lo trova sempre. Inutile ripetersi, in questo si vede l’incredibile competitività.
Al minuto 3, con ancora in testa l’inno della Champions, il centrocampo della Juve lascia abbastanza spazio per far ricevere Messi. Lo spazio per creare un ponte con l’altro lato del campo c’è e l’esecuzione è chiaramente perfetta per i piedi di Jordi Alba. Da qui nasce l’1-0.
La Juventus sull’1-1 gioca bene, il piano gara contro Messi ha funzionato e l’ha limitato. I bianconeri pensano giustamente di poterla vincere e portano i giocatori in avanti. Gli spazi improvvisamente si aprono per Messi e nasce il gol del 2-1 per il Barcellona.
Le finali sono partite singole e si vincono come si perdono: anche questo Messi 3.0 riscopertosi onnipotente si è dovuto piegare in 2 delle 7 giocate (Copa América e Supercoppa). Ma il semplice fatto che abbia giocato ogni finale di ogni torneo a cui ha partecipato nel 2015 deve rendere l’idea del giocatore di cui stiamo parlando. In questo momento storico avere Messi in squadra assicura di arrivare fino in fondo. Sempre.
L’infortunio subito contro il Las Palmas che ha fermato per circa due mesi Messi in questo inizio di stagione, ci ha restituito un giocatore ancora più attento a dosare le proprie forze in un sistema che ha funzionato adeguatamente anche senza di lui (grazie soprattutto a Neymar e Iniesta). Ma che al suo ritorno ha trovato subito la quadratura distruggendo la Roma in Champions League. Messi ora è ancora più consapevole di quando sia il caso di dare lo strappo necessario e lo si vede evitare di scattare per due volte consecutive e preferire lo scambio ravvicinato al movimento palla al piede prolungato. Lo vedremo nuovamente al 100% forse solo con il ritorno della Champions League a febbraio contro l’Arsenal. Difficile che si faccia trovare impreparato nella competizione di cui ha riscritto la storia.
Attenzione però che nel mentre la sua competitività non è calata di una virgola. Come contro il River a Yokohama, dove per sbloccare una gara resa complicata dall’aggressività dei rivali lontano dall’area di rigore e vedendosi ancora non in grado di superare con la solita facilità il marcatore, il 10 ha pensato bene di tirare fuori un gol da centravanti puro. Il River aveva pensato di sfidare il suo talento, fiducioso che la ruvida difesa a disposizione fosse in grado di tenerlo a bada. Forse si sono dimenticati delle parole di Pep Guardiola prima della semifinale di Champions: «Quando gioca così, non c’è difesa che può fermarlo. È impossibile. È abituato che i giocatori difendono su di lui con ogni metodo e lui finisce sempre con avere successo. È troppo forte». Parole profetiche.