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Il pericoloso limbo dei Golden State Warriors
11 giu 2020
Dopo un anno di purgatorio, Golden State vuole tornare subito a recitare da protagonista. Ma è così semplice?
(articolo)
12 min
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Ora che abbiamo la certezza che i Golden State Warriors non scenderanno più in campo nel 2019-20, viene da chiedersi come bisogna interpretare questa stagione della squadra più vincente dell’ultimo lustro NBA. Ci sono ottime probabilità che, a dieci anni da oggi, guarderemo a questa annata come a un semplice incidente di percorso, un turno in prigione di una franchigia che prima e dopo ha continuato a raccogliere successi su successi. Ma non è neanche così remota la possibilità che questo 2019-20 — che affonda le sue radici negli infortuni di Kevin Durant e Klay Thompson negli scorsi playoff — sia invece il preludio a un lustro ben lontano dalle cinque partecipazioni consecutive alle Finals con tre titoli — perché se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla NBA è che tanto è difficile arrivare in cima, tanto è facile precipitare in un attimo. (Chiedere ai Cleveland Cavaliers pre e post LeBron James per informazioni).

Magari il prossimo anno i Golden State Warriors a pieno regime saranno davvero la contender che tutti si aspettano di vedere in campo. Magari Steph Curry, Klay Thompson e Draymond Green a pieno regime saranno in grado di rendere utile anche un talento impantanato come quello di Andrew Wiggins. Magari la dirigenza illuminata guidata da Bob Myers sfrutterà al massimo ciò che uscirà dal Draft di (si spera) metà ottobre, che sia una scelta da far crescere in casa o uno scambio sul mercato per avere un giocatore pronto subito a giocarsi il titolo. E magari la situazione legata al coronavirus sarà talmente migliorata da riportare il nuovissimo Chase Center a pieno regime, assicurando quelle entrate su cui l’intera franchigia ha basato il proprio futuro a breve e lungo termine. Ma se fino a qualche mese fa erano tutte ipotesi più che plausibili, la verità è che non ce n’è più certezza.

Una stagione con zero aspettative

Nonostante tutti sapessero che le possibilità di vedere in campo Klay Thompson fossero remote, a inizio anno nessuno avrebbe ragionevolmente scommesso che gli Warriors sarebbero rimasti fuori dai playoff. Potendo comunque contare su Steph Curry e Draymond Green, oltre al neo-arrivato D’Angelo Russell, il sentire comune era comunque che i vice-campioni in carica avrebbero trovato un modo per mettere assieme una stagione attorno al 50%, sperando poi di avere Thompson a pieno regime per diventare la mina vagante dei playoff.

Ripensandoci ora, però, era illogico aspettarsi tutto questo. Tolti i due leader dello spogliatoio, il resto del roster era pressoché interamente formato da giocatori senza esperienza, senza carisma o senza grandi aspettative, oltre a essere giovanissimi. Dopo essere stati massacrati all’esordio stagionale contro i Clippers e distrutti in maniera ancora più perentoria a Oklahoma City due giorni dopo, persino Steve Kerr aveva dovuto ammettere davanti alla stampa ciò che tutti avevano improvvisamente realizzato: questi Warriors non avevano una chance di competere per un posto playoff.

L’infortunio di Steph Curry alla quarta partita stagionale contro Phoenix, a rivederlo oggi, è stato un toccasana per l’intera franchigia. Se Curry non si fosse fatto male subito, la pressione per competere e rimanere a galla avrebbe cominciato a salire sempre di più, specialmente per una squadra che gode di ampia copertura mediatica (e di tantissimi passaggi televisivi in diretta nazionale). Invece il suo infortunio con tempistiche così lunghe ha sgonfiato le aspettative su di loro, che velocemente sono spariti sullo sfondo della stagione mentre perdevano partite su partite, fino ad arrivare a quota 50 sconfitte stagionali a fronte di sole 15 vittorie — quattro in meno della seconda peggior squadra della lega.

Il ritorno in campo di Steph prima dell'interruzione della stagione.

La squadra che ha guardato tutti dall’alto in basso nell’ultimo quinquennio — non senza una dose di arroganza nel farlo, come testimonia l’ormai celebre “light years ahead” con cui il resto della lega apostrofa il loro modus operandi — si è ritrovata improvvisamente nei bassifondi e ha affrontato situazioni a cui non era più abituata. Per utilizzare le parole di Steve Kerr: «Negli ultimi cinque anni abbiamo avuto la fortuna di vivere in un mondo che in realtà non esiste… Non funzionano così le cose nella lega. Questa è la realtà che ci attende, quella che per molti è la normalità».

E così gli Warriors si sono rimessi a sviluppare giocatori, insegnare fondamentali, rispiegare schemi difensivi, predicare pazienza, mettere il pallone nelle mani dell’unico giocatore di talento a disposizione (spesso D’Angelo Russell) e rallegrarsi per qualche prestazione sopra le righe di giocatori come Eric Paschall, Jordan Poole o Marquese Chriss. Ma mentre le altre squadre facevano tutte queste cose nella consapevolezza che le proprie fortune sarebbero passate da quelli a disposizione (o al massimo dal giocatore in arrivo dal Draft), gli Warriors ragionavano su presupposti completamente diversi — immaginandosi i giocatori non nel loro contesto attuale, ma calati in uno in cui Curry, Thompson e Green sono a pieno regime.

Viene quindi da chiedersi: Golden State è davvero riuscita a sviluppare qualche giocatore, se quello stesso giocatore dovrà poi essere valutato su presupposti completamente diversi rispetto a quelli in cui è cresciuto? In altre parole: c’è davvero qualcosa di quello che è stato fatto quest’anno di limbo che è utile per il futuro, quando sulla baia contano di tornare a competere per il titolo? O le condizioni e la pressione sarà talmente diversa da costringerli a rifare tutto da capo o quasi, rendendo inutile quello che è stato fatto nel 2019-20?

L’affaire Russell-Wiggins

In uno scenario competitivo, evidentemente, secondo l’opinione della dirigenza non rientrava D’Angelo Russell, che come Kerr ha ammesso dopo lo scambio di febbraio «fin da quando lo abbiamo firmato, c’erano dubbi sulla sua adattabilità per il nostro sistema». Golden State ha offerto il massimo salariale a Russell solo ed esclusivamente per non perdere Kevin Durant a zero, ma in questo modo si è legata le mani con un hard cap con cui ha dovuto battagliare per tutta la stagione (centellinando i contratti two-way di Damion Lee e Ky Bowman e dovendo tagliare per un breve periodo anche un giocatore su cui intendono puntare come Chriss, che poi sono comunque riusciti a firmare), oltre a sacrificare anche un pezzo gigantesco della franchigia come Andre Iguodala (e rimettendoci una prima scelta al Draft protetta 1-4 nel 2024).

Russell e Golden State hanno convissuto per dei mesi ben sapendo entrambi che il loro futuro non li avrebbe visti assieme, specialmente perché tutte le parti sapevano che a Minneapolis si erano messi in testa a ogni costo di volerlo mettere al fianco di Karl-Anthony Towns. Bob Myers ha sfruttato questa posizione di vantaggio per lucrare una prima scelta dei T’Wolves al Draft del 2021 e allo stesso tempo scaricare due contratti come quelli di Jacob Evans e Omari Spellman che hanno permesso loro di scendere sotto la luxury tax — diventato improvvisamente l’obiettivo numero uno della proprietà per evitare anche i salassi dovuti alla repeater tax.

Dallo scambio è arrivato anche se non soprattutto Andrew Wiggins insieme al suo enorme contratto al massimo salariale e il suo carico di promesse non ancora mantenute. Il ragionamento di Golden State è stato ancora una volta proiettato verso gli anni a venire: attorno ai tre pilastri, un giocatore atletico in grado di marcare entrambi i ruoli di ala e di attaccare una difesa già mossa e/o di tirare sugli scarichi aveva più senso rispetto a un dominatore del pallone come Russell. Ed è un ragionamento che sta in piedi: gli Warriors sono convinto che Wiggins possa diventare una sorta di Harrison Barnes 2.0 se sviluppato nella giusta maniera, e anche se non potrà mai sostituire quello che dava Kevin Durant nello spot di ala piccola, la speranza è che attorno a due catalizzatori come Curry e Thompson lo aiuti a sfruttare meglio i suoi mezzi atletici in avvicinamento a canestro.

La decisione presa lo scorso febbraio rimane comunque un punto di svolta per Golden State. La dirigenza avrebbe potuto tenere duro, aspettare di capire quale scelta al Draft avrebbe avuto dopo la Lottery ed eventualmente impacchettarla insieme a Russell per ricevere qualcosa di meglio rispetto a Wiggins. La realtà del mercato però è stata decisamente più tiepida rispetto a quanto ci si potesse immaginare, con poche squadre interessate alla point guard e ancora di meno a una scelta tra le prime cinque di un Draft senza un vero prospetto su cui mettere la mano sul fuoco. Per questo Golden State ha deciso di giocare di anticipo cedendo subito Russell alla deadline e pensando al resto successivamente. Solo che il “poi” si è rivelato ben diverso rispetto a quanto immaginato.

Once we were kings, ora peggio dei Kings.

Anche i ricchi fanno i conti col coronavirus

La stagione 2019-20 è stata anche la prima dell’attesissimo Chase Center, la nuova casa della franchigia che si affaccia direttamente sul mare di San Francisco. Abbandonato la calorosissima ma ormai vetusta Oracle Arena, la dirigenza guidata da Joe Lacob e Rick Weltz è riuscita — con uno sforzo da un miliardo e mezzo di dollari — a portare a termine un progetto estremamente ambizioso, visto che costruire a San Francisco di questi tempi non è esattamente semplice. Nessuno di loro però si sarebbe potuto aspettare che una pandemia globale rendesse inutilizzabile il Chase Center non solo per le partite degli Warriors (che valgono tra i 3 e i 4 milioni di dollari in media) ma anche per tutti gli altri eventi già messi a calendario come i concerti (ne sono stati cancellati o rimandati una ventina). Con una municipalità che si è distinta per il suo approccio molto cauto, potrebbero non esserci eventi pubblici al Chase Center fino al 2021. E un’arena del genere non è stata costruita per rimanere inutilizzata per nove mesi appena dopo la sua inaugurazione.

Il coronavirus avrà inevitabilmente ripercussioni anche sul salary cap della prossima stagione. Per quanto il ritorno in campo a Orlando permetterà alla NBA di recuperare un po’ dei soldi che altrimenti avrebbe irrimediabilmente perso dai diritti tv, gli incassi delle partite rappresentavano circa il 40% degli introiti della lega. Meno introiti significa salary cap più basso, e salary cap più basso significa luxury tax più bassa — senza però che i contratti già garantiti scendano di pari passo. Se ipoteticamente il cap calasse di 25-30 milioni, senza fare nulla sul mercato gli Warriors vedrebbero la loro tassa di lusso passare da 45 a 160 milioni solo con i contratti ora in essere — visto che Curry, Thompson, Green e Wiggins prendono da soli 130.1 milioni per il prossimo anno.

È altamente probabile che la lega faccia “artificialmente” qualcosa per mitigare gli effetti devastanti che uno scenario finanziario totalmente imprevisto e imprevedibile avrebbe sulle squadre, ad esempio mantenendo alto il salary cap (lo “smoothing” che non è stato realizzato nel 2016 e che ha portato Durant sulla Baia, solo al contrario) oppure sospendendo per uno/due anni la luxury tax (o contando solo una percentuale dei contratti in essere per il suo calcolo). Molte di quelle decisioni determineranno anche l’approccio che la proprietà avrà nei confronti della prossima stagione: se prima della sospensione era implicito l’accordo che, dopo questa stagione di sofferenza, il proprietario Joe Lacob avrebbe avallato la costruzione di una nuova squadra da titolo, ora non è più così scontato.

Come costruire i prossimi Warriors vincenti

Golden State ha in mano tre asset da potersi giocare per costruire attorno a Curry, Thompson e Green. Il primo è la scelta al Draft 2020, che ora sarà certamente tra le prime cinque (seppur ci sia il 47.9% di possibilità che sia la quinta) e per la quale la dirigenza ha già cominciato il processo di analisi e incontri virtuali con i vari prospetti. Il secondo asset è la mid-level exception (sempre in base a dove verrà fissato il cap). Il terzo è la trade exception da 17.2 milioni creata con lo scambio di Andre Iguodala, che permetterebbe di assorbire un contratto di pari o minore entità — potenzialmente un giocatore in grado di avere un ruolo importante nella rotazione.

Tutti questi tre asset richiedono però un investimento economico non indifferente, visti i 130.1 milioni già occupati da Curry-Thompson-Green-Wiggins, prima ancora di pensare alle eventuali firme dei free agent sul mercato, che sarebbero inevitabilmente ridotte al lumicino. Insomma, lo scenario per costruire i prossimi Golden State Warriors “avanti anni luce” non è per niente semplice, neanche per una dirigenza abituata a fare i salti mortali per mantenere competitiva la squadra con le stringenti regole della NBA.

"Di quanti quarti hanno bisogno ora gli Warriors per segnare 50 punti?"

C’è poi da considerare l’aspetto sportivo di come si presenteranno Curry, Thompson e Green alla ripresa delle operazioni. Anche se di certo non sono tre giocatori in là con gli anni, tutti è tre hanno ormai superato la soglia delle 30 primavere (Curry già 32) e sono reduci da una stagione del tutto persa. Curry ha disputato solamente cinque partite e non ha mai potuto creare il benché minimo rapporto con i compagni che si troverà attorno il prossimo anno; Thompson ha inevitabilmente saltato tutto l’anno facendo riabilitazione per il ginocchio, e al ritorno in campo di dicembre saranno passati 16 mesi dalla sua ultima partita NBA; Green ha “dato su” molto in fretta la stagione, trascinandosi per buona parte delle 43 partite disputate e rimanendo fuori al minimo accenno di problema fisico.

Pretendere che tutti e tre magicamente accendano l’interruttore e siano gli stessi che abbiamo conosciuto negli ultimi cinque anni è irrealistico, oltre che ingiusto. Anche perché lo stile di gioco che li ha resi leggendari è estremamente dispendioso sia dal punto di vista fisico che mentale, per non parlare delle pressioni derivanti dall’essere una delle squadre più seguite della lega. Essere spariti dai radar per un anno non significa che nel frattempo si sia conservata quella magia trovata tra il 2014 e il 2019: in una lega come la NBA, una stagione è un tempo infinito e tantissime cose diverse possono succedere — come gli ultimi mesi di pandemia globale dovrebbero averci insegnato.

Magari davvero un giorno riguarderemo al 2019-20 come a un semplice asterisco di una franchigia modello San Antonio Spurs che ha continuato a mantenersi su livelli di eccellenza impensabili per chiunque altro. Ma ragionevolmente non si può neanche escludere la possibilità che l’epoca d’oro dei Golden State Warriors sia finita e che una squadra così non la vedremo più per molto, molto tempo.

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