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Il Pianista
15 ott 2014
Intervista a Miralem Pjanic: i ricordi della Bosnia, la maturità raggiunta in Francia, i rapporti con Totti, Zeman e la sua idea di calcio.
(articolo)
17 min
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Fuori da un campo da calcio, vestito non da calciatore, Miralem Pjanic non sembra un calciatore. In vita mia sono stato veramente vicino a un calciatore in pochissime occasioni e ogni volta è stata un'esperienza impressionante. La differenza tra vedere un calciatore in tv o allo stadio e averlo a pochi passi in abiti civili è pressapoco quella che c'è tra sfogliare una rivista di moda e trovarsi con una modella in ascensore per cinque piani. Ai tempi del liceo, una mattina che non sono entrato in classe, ho incontrato Vieri in una sala giochi di Roma Nord. Con la tuta della Lazio faceva lo stesso effetto che avrebbe fatto il T-Rex di Jurassic Park in una sala giochi piena di adolescenti.

Di recente sono stato spalla contro spalla con De Rossi per una foto e la sensazione che ho avuto è stata che De Rossi non fosse fatto della stessa materia di cui sono fatto io. Che sotto il cardigan lungo che indossava (con una fantasia verde e rossa forse di Missoni) fosse rivestito di uno strato protettivo supplementare. Ho provato la stessa sensazione quando ho stretto la mano a Emerson e le mie ossa si sono sovrapposte con uno scatto; o quando ho visto Zebina in un aeroporto con una camicia bianca che addosso a lui aveva gli spigoli. Certo, ho incontrato quasi solo giocatori grossi, ma Pjanic può essere considerato “piccolo” solo in confronto a calciatori di questo tipo: è comunque un atleta ventenne di un metro e ottanta.

Giocare con lo sguardo.

Il punto è che a trovarselo davanti, con una maglietta nera di un tessuto lucido e morbido sulle sue braccia magre e dei pantaloni di cotone, Pjanic non sembra una persona che si guadagna da vivere con il proprio corpo. Non sembra, cioè, che per giocare a calcio (persino in questo calcio) il corpo sia la cosa più importante, almeno per lui. A pensarci bene è così anche quando è in campo: la testa di Pjanic si muove separatamente dal corpo, come il periscopio di un sottomarino, lo sguardo viene prima dei movimenti delle sue gambe, che lo seguono in ritardo.

Una parziale conferma mi arriva quando, verso la fine dell'intervista, gli chiedo a quali giocatori si ispira: «Da bambino Zizou, Zidane. Da avversario mi piace molto Pirlo, è sempre difficile giocare contro di lui, fa la differenza, è elegante. Forse in generale nel calcio di oggi quello che mi piace di più è Xavi, per lo stile». Gli faccio notare che ha nominato giocatori che giocano in posizioni diverse in campo: un play, una mezzala e un trequartista. «Perché sono intelligenti. Mi piacciono i calciatori che riflettono quando giocano. Si capisce se un giocatore sa riflettere o no. E questi tre vedono cose che gli altri non vedono.»

Pjanic, ventenne, in amichevole contro la Germania

Avrebbe potuto giocare con la Francia, o il Lussemburgo con cui ha fatto le giovanili (ai tempi in cui somigliava a Michael Owen), ma ha scelto a diciotto anni, appena ha potuto cioè, il paese da cui il padre lo ha portato via quando aveva un anno. Ha sofferto per le esclusioni dal Mondiale del 2010 e quella dall'Europeo del 2012 (in entrambi i casi perdendo lo spareggio contro il Portogallo) e ha pianto di gioia quando finalmente sono riusciti a qualificarsi per il Mondiale brasiliano (qui se volete c'è anche Dzeko con un sombrero). Oggi Miralem Pjanic è il quinto giocatore con più presenze nella Nazionale bosniaca e l'autore di uno dei quattro gol che per il momento sono gli unici gol che la Bosnia abbia segnato nella storia dei Mondiali di calcio.

Guerra.

La sua storia comincia con un aneddoto così da romanzo che gli devo chiedere se è vero: «Sì, sì. È vero. È andata così: mio padre aveva chiesto due volte i documenti per andare a giocare in Lussemburgo e avevano rifiutato di darglieli. Era un calciatore, giocava nel Drina Zvornik. Così la terza volta siamo andati con mia madre. Io ero in braccio a lei e quando mia madre ha iniziato a piangere, perché continuavano a rifiutarsi di darci i documenti, mi sono messo a piangere anche io. Abbiamo impietosito l'uomo davanti a noi che ci ha detto: Va bene, lo faccio per il bimbo». (Pjanic parla cinque lingue e ogni tanto le mischia, in questo caso ha detto che il tipo che non gli dava i documenti “ha avuto male al cuore”, che è una traduzione letterale dal francese tanto sbagliata quanto poetica.)

Il padre giocava in terza divisione e girando per i campi dell'Ex-Jugoslavia aveva capito che la situazione stava per peggiorare e ha portato la famiglia in Lussemburgo: «Aveva degli amici lì. È stata la prima occasione per andarsene e l'ha colta. In Lussemburgo faceva l'operaio, e anche mia madre doveva lavorare. Grazie al calcio però ha avuto i documenti per restare, all'inizio. Ma lì non si vive con il calcio, è amatoriale».

Zvornik è stata la seconda città invasa dalle forze armate e paramilitari serbe, le moschee sono state distrutte e la popolazione bosniaca è stata espulsa, deportata in campi di concentramento o uccisa; in quella zona è stata trovata una delle più grandi fosse comuni del conflitto. La famiglia di Pjanic ci è tornata subito dopo: «Nel 1996. La prima volta c'erano ancora i carrarmati degli americani per strada». Alcuni suoi compagni di Nazionale, invece, hanno vissuto il conflitto: «Sì, ma non ne parliamo molto. Io ho visto le immagini, ho guardato i documentari, i film».

A ventiquattro anni ha guidato da leader del centrocampo la Bosnia durante il Mondiale. Permettendosi cose come la piroetta al minuto 0:42 del video qui sopra, contro l'Argentina finalista.

Bambino prodigio, Lussemburgo (1991-2004)

Un altro aneddoto da romanzo è quello su come Pjanic padre ha capito al volo che Miralem sarebbe diventato un calciatore professionista: «Eravamo già in Lussemburgo. Io quella mattina mi sono svegliato presto e sono sceso a palleggiare contro la porta del garage. Mio padre ha sentito dei rumori e pensava che qualcuno stesse provando ad entrare in casa nostra. Quando mi ha visto ha capito che avevo qualcosa di speciale con la palla». La forza di un aneddoto del genere sta nel fatto che ancora oggi per capire che Pjanic è un calciatore eccezionale basterebbe guardarlo palleggiare contro la porta di un garage: se si organizasse un provino con altri cento professionisti di Serie A, facendoli palleggiare a turno sulla porta di un garage, Pjanic ne uscirebbe probabilmente vincitore.

La madre lavora dalle quattro del pomeriggio alla sera e Miralem non aveva altra scelta che seguire il padre agli allenamenti. «Difficilmente mi separavo del pallone, lo tenevo sempre in braccio, tra i piedi, ero sempre fuori con gli amici. E mio padre mi dice che anche da piccolo c'era una grande differenza tra me e gli altri. Ma ci sono tanti giocatori bravi nel mondo. È la testa che a un certo punto cambia e ti permette di diventare un professionista. Oppure no».

Pjanic padre, quindi, ha rinunciato alla vita del calciatore professionista per la famiglia, e la sorte lo ha ripagato con un bambino prodigio che fin da subito riceve offerte dai club più importanti d'Europa. Miralem però dice di non aver mai sentito la pressione della sua famiglia, o del padre: «Certo, conta tanto per me, perché mi conosce meglio di qualsiasi altra persona. Mi segue fin da bambino, mi dà consigli. Era un centrocampista come me, giocava in una coppia di centrali. Sapeva giocare. Io l'ho visto giocare e ogni tanto giochiamo ancora insieme. Si vede che ne capisce. Ma abbiamo un rapporto normale, niente di eccessivo».

Metz (2004-2007)

Pjanic a tredici anni sceglie di trasferirsi a Metz, perché vicina al confine con il Lussemburgo, e perché dal settore giovanile del Metz erano usciti Robert Pires, Adebayor, Louis Saha. Se si leggono le interviste dei suoi allenatori del periodo Miralem viene descritto come «molto rigoroso e ambizioso», «un ragazzo meraviglioso da allenare», «un altruista, con grande spirito di abnegazione», «una perla».

Francis De Taddeo, all'epoca responsabile del centro di formazione del Metz, lo ha visto la prima volta in una partita tra la Nazionale giovanile del Lussemburgo e quella del Belgio. La partita è finita 5-5 e Pjanic ha realizzato 4 gol e 1 assist. Pjanic dice: «Me lo ricordo, sì. De Taddeo mi ha chiamato subito dopo la partita. Ancora oggi le persone che ho incontrato a Metz sono importanti per me. Con loro ho avuto un rapporto che ho con poca gente. Mi sentivo davvero molto bene lì e anche loro credevano molto in me. C'era qualcosa di molto forte tra noi. Per dirti, prima di firmare qui a Roma ho chiamato Olivier Perrin, il mio allenatore nell'Under 18, e gli ho chiesto che ne pensava, se era un calcio per me».

A Metz la sua carriera accelera: «Praticamente ogni anno saltavo una categoria e giocavo con quelli più grandi». De Taddeo, che nel frattempo è diventato allenatore della prima squadra, lo fa esordire in campionato il 18 agosto del 2007 contro il Paris Saint Germain: «Era la terza o la quarta partita del campionato, in casa, con lo stadio pieno. Quell'anno giocavo con la seconda squadra nel campionato dilettanti, ma c'erano un infortunato e uno squalificato, sono entrato in prima squadra e da quel momento non ne sono più uscito. Non se lo aspettava nessuno e la mia famiglia era in vacanza quando gli ho detto che sarei andato in panchina. Sono tornati di corsa». Al termine della sua stagione d'esordio il Metz arriva ultimo in classifica e retrocederà in Ligue 2, ma Pjanic ha giocato 32 partite e a fine stagione 2007/8 viene nominato per il premio di Miglior Giovane del campionato francese (il premio però lo ha vinto Ben Arfa).

Maturo da sempre

Guardare i video di quel periodo e tenere presente che Pjanic ha solo diciassette anni richiede uno sforzo. C'è qualcosa di così maturo nel suo gioco che sembra di un'altra epoca, se non addirittura fuori dal tempo. Anche vederlo in campo oggi (o parlarci di persona) e pensare che ha solo 24 anni è strano. Ha segnato il suo primo gol in campionato contro il Sochaux (rigore, traversa-gol) ma il meglio lo ha fatto vedere in Coppa di Francia.

Nei sedicesimi di finale, sul 2-0 per il Metz contro lo Strasburgo, riceve palla da fallo laterale vicino alla riga di fondo avversaria, controlla palleggiando con grazia e salta il difensore alle sue spalle con un sombrero. La mette giù e punta l'area dritto per dritto, arrivando all'altezza dell'area piccola, al centro ci sono due suoi compagni, Pjanic finta il passaggio e il portiere si stacca dal primo palo per intercettare la palla. Pjanic a porta vuota appoggia la palla di piatto. Se avesse voluto, se fosse stato meno maturo, si sarebbe potuto inginocchiare con la palla sulla riga di porta e metterla dentro di testa (magari Ben Arfa lo avrebbe fatto).

Il commentatore francese dice che «c'è qualcosa di Messi» nel gol di Pjanic.

Il Metz esce dalla Coppa contro il Lione ai quarti (0-1, gol di Benzema) ma la prestazione di Pjanic, il ragazzino che avrebbe dovuto giocare con la squadra B, contro la squadra che in quegli anni dominava il calcio francese ed era al livello dei migliori club europei, è sontuosa. Tra tiri da fuori, corse palla al piede, dribbling in palleggio, triangoli e controlli di tacco. Ed è probabilmente grazie a questa partita che a fine stagione il Lione lo acquista per 5,5 milioni di euro.

Per qualche motivo Pjanic ha il numero 9 sulle spalle.

Lione (2008-2011)

Tra il 2001 e l'estate del 2008, quando viene acquistato Pjanic, il Lione aveva vinto sette scudetti consecutivi. Da quel momento però sarebbe cominciato il purgatorio del Lione, sempre nella parte superiore della classifica ma lontano dai primi posti. «Il primo anno avevamo ancora una grandissima squadra, poi è andato via Karim (Benzema), Juninho, perché servivano soldi. Peccato, perché il Lione aveva tutto per vincere ancora».

La prima stagione di Pjanic (solo venti presenze in campionato) il Lione arriva a 3 punti dal Bordeaux di Gourcuff Laurent Blanc. La seconda stagione a 6 dall'Olympique di Marsiglia. La terza e ultima stagione di Pjanic (2010-11) il campionato francese viene vinto dal Lille di Rudi Garcia, con 12 punti di distacco dal Lione, terzo.

A questo punto è bene ricordare che nel 2008, dopo una sola stagione a Metz, Pjanic avrebbe potuto scegliere qualsiasi squadra avesse voluto. Arsenal, Real Madrid, Barcellona, Chelsea, Juventus, Inter, Bayern di Monaco e praticamente in ogni articolo di quel periodo che lo riguarda viene nominato un grande club differente. Gli chiedo se si sente sfortunato ad essere arrivato a quel punto della parabola del Lione: «Sfortunato? No. Anzi, posso dire di essere stato fortunato. Sono andato lì a 18 anni, venivo da Metz che è una piccola squadra di Ligue 1 e sono andato in una delle più forti in Europa, perché in quel momento lì erano veramente straordinari. È cambiato tutto, gli allenamenti erano più duri, dovevo abituarmi ai nuovi ritmi, ai nuovi compagni, alla nuova città. Ho lavorato, lavorato, lavorato e con il tempo...»

Se non avete voglia di guardarlo tutto andate al minuto 2:40, quando gira intorno a Strasser e successivamente nasconde la palla a Seedorf con coraggio e un pizzico di maleducazione.

All'inizio della stagione 2009/10 Pjanic prende il numero 8 che era di Juninho e nella tradizione di Juninho segna il suo primo gol con la maglia del Lione su punizione (contro l'Anderlecht, nei preliminari di Champions League). «In quel periodo ho iniziato a giocare molto anche con la Nazionale. In un anno devo aver giocato 50, 60 partite. Lì ho fatto il salto, sono entrato più nel vivo, nel centro del gioco. Sono diventato più maturo, diciamo».

Quell'anno il Lione arriva in semifinale di Champions League (il miglior risultato nella storia del club) e Pjanic segna a Madrid il gol decisivo per il passaggio degli ottavi: sponda di Lisandro Lopez, controllo di coscia in area e sinistro al volo. La terza stagione di Pjanic è segnata dall'arrivo a Lione di Gourcuff. Pjanic inizia in panchina, poi Puel, l'allenatore, prova a farli giocare insieme, anche con Pjanic esterno del 4-2-3-1, ma non funziona mai veramente. Alla fine di quella stagione, l'ultimo giorno di mercato, Miralem Pjanic diventa un giocatore della Roma.

Chi ha bisogno di Gourcuff?

Continuare a crescere. Roma (2011- )

Il dualismo con Gourcuff si è riproposto a Roma, secondo alcuni commentatori con Totti. Come se due giocatori con così grande qualità fossero troppi, come se ogni pallone toccato da Totti (a cui Pjanic si riferisce con il diminuitivo “Checco” che, mi pare, a Roma ormai non usi quasi più nessuno) fosse un pallone in meno per Pjanic. «Sì e no. Checco gioca in un ruolo diverso, Gourcuff è più il mio ruolo. Non è stato un anno molto felice, positivo, e quando dovevo scegliere di venire Roma ho tenuto conto anche di questo. Ma qui è diverso. Con Checco ci troviamo bene in campo, capiamo i movimenti l'uno dell'altro». Forse è anche merito dell'abitudine: «È la quarta stagione che giochiamo insieme. Io so molto bene come gioca lui, lui sa molto bene come gioco io. Quando vedo che lui viene un po' più basso, vado io più alto. So come lui vuole la palla... ci capiamo, è diverso e mi sento molto bene come gioco adesso».

Nel 4-2-3-1 della Bosnia Pjanic ha giocato sia nella coppia di centrali che come trequartista, ma non esita neanche un secondo a dirmi qual è secondo lui il suo ruolo: «Il mio posto è dove gioco adesso. La mezzala in un 4-3-3. In un centrocampo dove gestiamo la partita, dove abbiamo sempre il possesso, senza paura di tenere la palla. Questo è il mio gioco. E gioco con calciatori straordinari che capiscono davvero molto di calcio. È facile giocare in questo modo, quando il Mister ti chiede di giocare in questo modo».

Zeman.

E il discorso tattico ci porta a parlare dei problemi che ha avuto durante il suo secondo anno a Roma, con Zeman: «Secondo me Zeman è un bravo allenatore. Forse però voleva un certo tipo di giocatori che non aveva qui. Forse dovevamo giocare in un'altra maniera, perché i giocatori a disposizione facevano un altro tipo di gioco. Lui chiede spesso ai centrocampisti di buttare la palla in avanti, di verticalizzare, sempre. A me piace giocarla come la sento io. Come mi chiede il Mister adesso: Fai quello che senti perché tu sei quello che decide, tu devi fare il tuo gioco. Questo mi dice Garcia oggi. È completamente diverso. Non è che non me la sentivo di buttarla dentro, a volte però pensavo che la soluzione migliore era un altra. La differenza oggi è che mi sento molto più libero».

A forza di sentirsi chiedere di verticalizzare, forse, Pjanic ha pensato bene di verticalizzare direttamente nella porta avversaria.

Il sistema di Rudi Garcia.

Pjanic non si sentiva libero nel gioco di Zeman ma questo non fa di lui un giocatore anarchico. Di solito associamo la libertà in un campo da calcio all'individualismo, e alla quantità di talento. I giocatori migliori possono fare quello che vogliono, sono liberi di esprimersi (o, per dirla con le parole di Mazzone: «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri»). Pjanic, invece, sembra aver trovato la propria libertà nell'organizzazione di gioco di Rudi Garcia: «Abbiamo le idee molto più chiare. Sappiamo come vuole che giochiamo. Siamo molto più forti tatticamente, equilibrati. Sappiamo i compiti di tutti, e se uno non è al suo posto c'è qualcun altro che lo copre, ci battiamo l'uno per l'altro, corriamo, diamo una mano a quello che magari è meno in forma. È tutta la squadra che fa la differenza, e questo è lo spirito che il Mister ha portato con sé».

Con Garcia, Pjanic è migliorato sotto tutti i punti di vista, anche quello difensivo. «Noi facciamo quello che chiede il Mister e se il Mister vuole che recuperiamo la palla subito, velocemente, subito dopo la linea degli attaccanti ci siamo noi centrocampisti». Certo, non sa scivolare come Nainggolan (che però sembra uscito da un video-gioco, e non di calcio, più Mortal Kombat che Fifa) e non ha le spalle di Strootman per sostenere il peso del mondo, ma Pjanic è spesso il primo giocatore della Roma a portare pressione e la sua capacità di leggere le giocate avversarie gli permette di tagliare le linee di passaggio.

I pericoli di Roma.

A questo punto gli confesso la mia paura peggiore da tifoso: che Rudi Garcia possa crollare nei momenti difficili, non avendone ancora vissuti a Roma. Pjanic forse pensa che stia ancora parlando di lui e chiede: «Chi non ha vissuto momenti difficili?».

Ma è passato troppo poco tempo per aver già dimenticato il trattemento subìto da Pjanic nell'estate del 2013, il lato oscuro della passione sportiva a Roma: «Lo conosco, ma anche il Mister l'ha visto. Quando è arrivato ho un po' gli ho spiegato com'è qua la situazione, com'è l'ambiente. Il Mister è un uomo molto in gamba, ha capito subito la situazione e ha lavorato subito sull'aspetto psicologico perché venivamo da una stagione molto difficile. Certa gente ama quando qualcosa va male, per questo accentua gli aspetti negativi, per far male alla società, ai giocatori. Ma io so che quando ho giocato ho sempre dato il 100%. A volte non puoi dare tutto quello che vuoi. È la vita dei calciatori. Noi proviamo sempre a dare il massimo e i tifosi hanno tutto il diritto di essere arrabbiati quando in due stagioni arrivi quinto o sesto. Non sono stagioni da Roma, è normale che protestano. Adesso siamo lì dove dobbiamo essere e vogliamo portare gioia ai nostri tifosi».

Non è facile far credere a un'intera difesa che stai andando da un'altra parte quando è chiaro che la porta è giusto davanti a te.

Non è mai troppo presto per pensare al futuro.

Negli ultimi due anni, anche grazie a una continuità che prima non aveva per via degli infortuni, Pjanic ha alzato l'asticella del proprio gioco e a giudicare dalle prime partite di questa nuova stagione sembra pronto a un nuovo salto di qualità. Ha migliorato il suo tocco, anche perché i compagni gli passano palloni migliori, e il suo ritmo è migliorato insieme a quello della squadra. Da una parte continua a giocare con una maturità fuori dalla norma, dall'altra quell'aggressività che si vede fin dai suoi primi video lo porta a minacciare in modo più diretto le difese avversarie.

Dopo il gol vittoria di Parma, Totti lo ha chiamato “il nostro principino” e qualcuno a Roma si chiede se non possa essere il bosniaco il suo erede: «Come posso essere l'erede di Totti? Tutti sognano di essere l'erede di Totti ma non è facile. Totti è Totti, è qualcosa di più del solo calcio. Ha fatto la storia del calcio italiano, è una leggenda. È bellissimo il fatto che non abbia mai cambiato maglia. Ha avuto fortuna, a non dover mai cambiare maglia». Gli chiedo se è possibile identificarsi con una squadra, con una città, anche solo dopo un paio di stagioni. «Perché no? Il calcio è cambiato e a volte sono le società ad aver bisogno di soldi, non è sempre il calciatore che va via. Io ho avuto l'opportunità di andar via, però mi sento così bene che, mi chiedo, perché devo andar via se amo questa squadra, se amo questa città e voglio vincere qui?».

L'intervista è quasi finita e torniamo all'inizio del pezzo, al momento in cui gli ho chiesto a quali giocatori si ispira. Poco prima mi aveva detto di guardare molte partite in tv e quando nomina Zidane mi dimentico ancora una volta che ha solo 24 anni, e gli chiedo se pensa di voler fare l'allenatore in futuro, o comunque di restare nel mondo del calcio: «Non ci ho ancora pensato. Anche perché, spero, è un momento ancora lontano. Però penso di sì, perché amo talmente tanto il calcio che sarà dura uscirne».

Gli dico che Zidane non ci ha mai pensato prima di smettere. Che ci sono giocatori a cui piace solo giocare.

«No, no» taglia corto Pjanic «Io amo proprio il calcio».

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