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Il più grande disastro sportivo del 2023
31 dic 2023
Come il Botafogo ha perso un campionato impossibile da perdere.
(articolo)
16 min
(copertina)
Foto di Satiro Sodra / Imago
(copertina) Foto di Satiro Sodra / Imago
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Sono le 22.50 del primo novembre. Stadio Nilton Santos, casa del Botafogo. Il vicino di posto alla mia sinistra piange a dirotto, rumorosamente e teatralmente. Un’ora dopo - per il motivo opposto - farà esattamente la stessa cosa, con le mani aperte e spiaccicate sul viso a fermare le lacrime, come fanno i bambini, anche se lui bambino non è più da un pezzo. Le due scene sono talmente sovrapponibili (se si esclude lo stato d’animo, che poi è tutto, ma l’immagine, si sa, può fuorviare) che per inviare una foto a un amico che vive a Rio de Janeiro, tifa Flamengo, e mi chiede - un po’ sadicamente - un’istantanea dei tifosi del Botafogo disperati, gli mando quella scattata a fine primo tempo, quando era in realtà gioia pura distillata in lacrime, perché a fine partita non ho avuto abbastanza coraggio né cinismo per scattarne una.

Alle 22.50, il vicino di posto alla mia destra, con moglie e figlia, ma senza maglietta (che si è tolto dopo nemmeno dieci minuti di partita), infila una serie di videochiamate rabbiose, infarcite di termini irripetibili (almeno quelli che capisco). A fine partita gli squilla il telefono per due-tre volte, lo guarda in cagnesco e lo tiene tra le mani come se dovesse scagliarlo più lontano possibile, ma non risponde, trascinando letteralmente con sé la famiglia fuori dallo stadio.

Alle 22.50, ora di Rio de Janeiro, quando alla mia destra si sbraita e alla mia sinistra si piange per lo stesso motivo, il Botafogo è virtualmente campione del Brasile dopo quasi trent’anni di attesa. Dopo aver avuto, alla fine del girone di andata, 13 punti di vantaggio e dopo un periodo di flessione che aveva fatto scendere il distacco a 7 punti, sta battendo per 3-0 il Palmeiras secondo in classifica, rimettendo 10 lunghezze tra sé e i suoi tre rivali più accreditati: Gremio, Flamengo e, appunto, Palmeiras.

In quel momento mancano sette giornate di campionato e un secondo tempo che si rivelerà sciagurato e dalla sceneggiatura talmente assurda da apparire credibile a malapena solo sui campi di Holly&Benji. Ad aggiungere solidità e certezze alla posizione del Botafogo, il fatto che di partite ne deve recuperare ancora due, e le giornate da giocare, quindi, per loro sono di fatto nove e non sette come per gli altri.

Pochi minuti prima di quell’intervallo passato a festeggiare, il Botafogo si era divorato in contropiede il 4-0: a parte un tifoso due file più in giù che si era disperato in modo che in quel momento pareva eccessivo (e invece aveva ragione lui, come se sapesse o presentisse qualcosa), per tutti gli altri era bastata una scrollata di spalle per farsene una ragione, come quando si rompe un bicchiere a una festa dove tutti si divertono, ci si gira giusto il tempo del rumore del vetro che si schianta e poi si riprende a bere, ballare, flirtare, quel che è.

Al rientro in campo non sembra cambiato poi davvero molto. Nemmeno il gol di Endrick al 49’ minuto, in cui salta in corsa quattro difensori un poco addormentati, pare cambiare l’inerzia della gara a tal punto da ribaltarla. Sembra una di quelle partite dove tutto è già successo e si attende solo la fine. Il Palmeiras attacca, ma sembra non crederci, il Botafogo difende male, eppure non abbastanza da far crollare tutto, subendo anche un gol evitabilissimo, ma in fuorigioco. Poi al 76’ la difesa del Botafogo s’incarta e Adryelson rimedia un cartellino rosso con un recupero goffo e, probabilmente, inutile. Forse è tardi per farsi davvero troppo male, anche perché al 90esimo manca solo un quarto d’ora. Non c’è nemmeno tempo per avere paura che il Botafogo, tre minuti dopo, si guadagna un rigore. A batterlo va Tiquinho Soares, uno degli eroi, fino a quel momento, della cavalcata del Fogão - come lo chiamano i tifosi - verso un titolo che sembra ormai impossibile perdere.

Stiamo assistendo al sigillo definitivo sul Brasilerao 2023? No, stiamo assistendo alla versione sudamericana, quindi più caotica, slabbrata e visionaria del celebre rigore di Knockaert nella semifinale playoff del 2013 tra Leicester e Watford per salire in Premier League. Quel rigore - e quel che succede nel minuto successivo - è il riassunto della follia del calcio e dei mille bivi che può prendere. Lo conoscono tutti gli appassionati ed emoziona pure chi il calcio lo guarda di straforo: Knockaert si guadagna il rigore, pretende la palla da un compagno, calcia addosso al portiere del Watford Almunia, si ritrova il pallone tra i piedi a pochi metri dalla porta, ma sbaglia ancora; parte un contropiede di Foresteri sulla destra, cross in mezzo, sponda di testa di Hogg e gol di Deeney, che si tuffa tra il pubblico. Il Leicester è fuori, passa il Watford.

La versione da telenovela brasiliana inizia con Tiquinho Soares che sceglie l’angolo alla sinistra del portiere del Palmeiras, Weverton, che para. Il cronometro dice 82 minuti e 12 secondi. L’azione, come in quel Watford-Leicester, si ribalta in fretta e si sviluppa sempre sulla fascia destra. Il Palmeiras guadagna un fallo sulla tre quarti, butta la palla in mezzo che viene raccolta da Endrick, che fa quella finta, già celeberrima, con quello che sembra un tiro, ma diventa uno stop di stinco in grado di disorientare tutta la difesa del Botafogo. Endrick fa battere la palla a terra, calcia, segna. Mentre il pallone entra in porta il cronometro dice 83 minuti e 12 secondi. Un giro di lancette esatto dal momento in cui Weverton ha parato il rigore del possibile 4-1 di Tiquinho.

Quando la palla torna a centrocampo, tutti sappiamo che è cambiato tutto: intorno a me c’è chi si dispera come se il Botafogo stesse già perdendo, i giocatori in maglia bianconera sembrano sgonfiarsi a tal punto che quando arriva il 3-3, all’89', sembra un’esercitazione attacco contro difesa, in cui l’allenatore chiede alla difesa di stare ferma per provare lo schema e non un momento decisivo del campionato.

Quando l’arbitro fa capire che il recupero sarà lungo ci si guarda l’un l’altro chiedendosi non se succederà, ma quando succederà. Succede al nono minuto di recupero. Altra punizione con la difesa ferma, altra sponda: 4-3 per il Palmeiras. Si va a centrocampo, e c’è appena il tempo di battere: al secondo passaggio l’arbitro con il nome di un amaro, Braulio, fischia la fine. Il Botafogo è ancora primo, seppur con 4 punti di vantaggio, ma a guardarsi attorno sembra che sia retrocesso. In una delle tribune si accende anche una rissa sedata a fatica dalla polizia. La festa esplosa alle 22.50, durante l’intervallo è finita un’ora dopo per i venti-trentenni che non ne hanno mai vissuta una e per chi, con qualche anno in più, ricorda l’ultimo trionfo nazionale del Fogão, datato 1995. Una vita fa. Per non parlare di chi è abbastanza vecchio da aggrapparsi ancora agli anni d’oro di Garrincha, Didi, Zagallo e Jairzinho.

Capire quando è stato davvero l’inizio della fine per il Botafogo è difficile. Molti lo fanno risalire al 30 giugno, giorno in cui l’allenatore il portoghese Luis Castro, convinto dai soldi dei sauditi, va ad allenare Cristiano Ronaldo all’Al-Nassr. In quel momento il Botafogo ha 30 punti, sette in più del Gremio, otto più di Flamengo e Palmeiras.

Il cambio di allenatore però non sembra interrompere la striscia positiva: sotto la guida di Claudio Caçapa il Fogäo ne vince quattro su quattro e allunga sui rivali. Poi il club sceglie il portoghese Bruno Lage, s’inceppa e vira su Lucio Flavio, chiesto a gran voce dai giocatori e che sembra in grado, almeno all’inizio, di portare la squadra al successo finale nonostante qualche inciampo di troppo. Alla fine del girone d’andata il Botafogo ha girato con 47 punti (15 vittorie, due pareggi, e due sconfitte), record del club. Ma il crollo, anche se nessuno se n’è accorto per tempo, non è dietro l’angolo, è già iniziato.

Eliminato dalla Copa Sudamericana nei quarti di finale, il Botafogo perde tutte e tre le partite giocate nel mese di settembre: nonostante tutto è primo con 7 punti di vantaggio sul Bragantino e 8 su Gremio e Palmeiras. Pareggia con il disastrato Goias in casa, poi vince in trasferta con Fluminense e America Mineiro: è il 18 ottobre, mancano undici gare e da quel momento il Botafogo, come colpito da una maledizione, non ne vincerà più nemmeno una.

A rendere tutto più farsesco saranno i tanti passi falsi di chi lo insegue, che faranno erroneamente pensare al Botafogo che c’è sempre un’altra possibilità, che il titolo arriverà in un modo o nell’altro.

Eppure il Fogão e i suoi tifosi avrebbero dovuto riconoscere meglio la sventura in arrivo e le maledizioni sportive, avendoci avuto a lungo a che fare. Basti ricordare che dopo il trionfo in Copa Libertadores del 4 novembre scorso del Fluminense contro il Boca Juniors al Maracanã, il Botafogo è rimasto l’unico storico club brasiliano a non aver mai alzato la coppa più importante del Sudamerica, che invece si trova nelle bacheche di Flamengo, Vasco, Cruzeiro, Atlético Mineiro, Corinthians, Palmeiras, San Paolo, Internacional e Gremio.

Il Botafogo è riuscito anche a rimanere imbattuto per quasi due anni, tra il 1977 e il 1978, una striscia di 52 partite che però non è bastata per vincere almeno uno dei due campionati: nemmeno a dirlo, è l’unico club brasiliano ad essere riuscito a realizzare questo record al contrario. Nel 1977 è rimasto fuori dalla fase finale per un gol, nel 1978 per un punto, e cioè per colpa dell’unica partita persa.

Forse la scelta della prima mascotte, negli anni Quaranta, ha indirizzato il cammino successivo del club: si tratta di Paperino, che il fumettista Lorenzo Mollas vestì con la maglia del Botafogo in omaggio al carattere incazzoso di alcuni membri del direttivo. La cosa prese piede a tal punto che ancora oggi si può vedere Paperino, o meglio il Pato Donald, come lo chiamano lì, con la maglia del Botafogo fare capolino nei bar e sui muri di Rio. Il binomio ufficialmente non durò molto, anche perché la Disney, venuta a sapere la cosa, chiese i diritti d’immagine.

La mascotte successiva non era uscita da un fumetto, ma dalla realtà, e portò decisamente bene: si tratta di Biriba, il meticcio bianco e nero (i colori del Botafogo) del difensore Macaé che entrò in campo durante una partita contro il Flamengo mentre gli avversari erano in vantaggio per 3-1. La gara venne sospesa per recuperare Biriba: quando riprese, il Botafogo segnò 4 gol e vinse 5-3. Il superstizioso presidente dell’epoca, Carlito Rocha, decise di portare Biriba in panchina la partita successiva: arrivò un’altra vittoria. Alla fine, il cane di Macaé, con un cappottino nero con la stella bianca del Botafogo, prese a scendere in campo con la squadra prima di ogni partita del campionato 1948. Quell’anno il Botafogo, che non vinceva nulla da tredici stagioni, conquistò il campionato carioca in rimonta davanti allo strafavorito Vasco da Gama. Con Biriba a presenziare in panchina la squadra vinse 15 partite e ne pareggiò due, senza mai perdere.

L’anno dopo i rivali del Vasco chiesero e ottennero dalla federazione di vietare l’ingresso sul campo da gioco al cane. Tuttavia, durante la sua vita, conclusa nel 1958, Biriba fece in tempo ad essere la mascotte di un altro titolo, quello del 1957.

Lo scorso anno, quasi tre quarti di secolo dopo il titolo del ’48, Biriba è diventato la mascotte ufficiale del club, con un tempismo non proprio azzeccato, visto il disastro di quest’anno.

L’alternativa a Biriba è sempre stata Manequinho, ovvero la copia del Manneken Pis di Bruxelles che si trovava davanti alla spiaggia di Botafogo. Anche lui - come prima accadde a Paperino - fu vestito con la maglia del Botafogo durante i festeggiamenti del titolo del ’57. Da quel momento ogni successo del Fogão ha avuto tra i momenti topici la vestizione di Manequinho, che ha però una storia travagliata quanto il club d’adozione. Dopo essere stata spostata più volte perché irrispettosa, la statua venne infine rubata e distrutta nel 1990. La copia (della copia) venne messa nella piazza dove ha sede il club, ma nel 2008 le rubarono il pene. Da quel momento è il Botafogo stesso a prendersi cura di Manequinho.

Il numero fortunato è invece il 7 di Garrincha. Ma la mistica del numero precede persino le gesta di quello che da molti è considerato la miglior ala della storia, infatti il 7 lo indossò per primo Egidio Landolfi, noto come Paraguaio, principale artefice del titolo carioca del 1948 (e anche primo anno in cui venne usata in Brasile la numerazione dall’1 all’11), quello del cane Biriba. A vestire il 7 di Garrincha saranno poi Jairzinho, Rogério e Zequinha, tutti idoli locali. Il 7 era anche sulle spalle di Maurício, l’attaccante che segnò il gol decisivo per il titolo carioca del 1989 contro il Flamengo, una rete che interrompeva un digiuno lungo 21 anni. Il 7 sarà il numero magico anche nel 1995, anno dell’ultimo titolo nazionale del Botafogo: il bomber Tulio Maravilha, fino alla stagione precedente aveva giocato con il 9, ma quell’anno, anche per motivi di marketing, fu convinto a giocare con il 7. Risultato: Botafogo campione e lui capocannoniere. Lo sponsor? 7Up.

Quest’anno il 7 era sulle spalle di Victor Sá, un esterno d’attacco con una carriera minore - passata anche dall’Austria e dagli Emirati Arabi - considerato da molti tifosi non all’altezza di una maglia venerata come una reliquia. Eppure, tra le polemiche del dopo Botafogo-Palmeiras, ne è venuta fuori una che sa di Brasile e magia applicata al calcio come poche. Dopo l’espulsione di Adryelson, per rafforzare la difesa, l’allenatore ha richiamato in panchina proprio il numero 7. Senza di lui in campo, tre minuti dopo il Botafogo ha sbagliato il rigore che ha dato il “la” alla sconfitta. La morale sarebbe che il 7 non va tolto dal campo nei momenti decisivi di una stagione anche se il proprietario è Victor Sá, uno che nulla ha da spartire con la grandezza di Garrincha e i suoi fratelli, a parte il numero sulla schiena, che vive di vita propria.

Prima della partita col Palmeiras avevo incrociato il Darth Vader del Botafogo, tal Joberto, che si presenta alle partite vestito come il cattivo di Guerre Stellari, con la sola differenza della stella bianca simbolo del Botafogo sul casco. Anche questo travestimento, un po’ come la scelta di Paperino come mascotte, non sembra proprio un accostamento fortunato.

Cinque giorni dopo la notte da tregenda col Palmeiras sono al São Januário, storico stadio del Vasco, per il derby in testacoda che può valere la salvezza per i padroni di casa e il campionato per il Fogão. E se i primi fanno di tutto per vincere, i secondi sembrano ancora imbambolati dalla gara precedente. La grande occasione nei primi minuti ce l’ha proprio il 7 del Botafogo, Victor Sá, che però da pochi metri colpisce in pieno un difensore. Al 29’ la difesa dà, se possibile, il peggio di sé aprendosi e lasciando arrivare Paulo, che va a spasso col pallone sino al limite dell’area e segna l’unico gol della partita. Il Botafogo da quel momento sembra giocare solo perché obbligato, ma li vedi che se ne andrebbero dal campo, scomparirebbero, se solo potessero, sapessero come fare.

A riprova del periodo no, la scaramuccia tra il cileno ex Bologna Gary Medel, anima del Vasco, e Diego Costa, campione in declino del Botafogo: i due si scontrano, battibeccano, e Medel se ne esce con una smorfia di disgusto, una la mano sul naso e l’altra a mo’ di ventaglio come a dire che Diego Costa emana un odore tutt’altro che piacevole. L’attaccante allarga le braccia e indica l’avversario all’arbitro, che ignora la faccenda. Medel continua il suo show tra le risate e gli applausi del suo pubblico. Ormai è chiaro che il Botafogo non perde solo le partite, ma - ogni giorno che passa - anche il rispetto degli avversari.

Il 9 novembre c’è Botafogo-Gremio e l’incubo vissuto col Palmeiras si ripete quasi in fotocopia: avanti 3-1, il Botafogo si fa raggiungere e superare dalla squadra di Porto Alegre trascinata da un Luis Suarez scatenato, che segna una tripletta. Sembra incredibile, ma alla fine di quel turno il Botafogo è ancora in testa. Mancano cinque partite (sei per il Fogão) e la classifica dice: Botafogo, Gremio e Palmeiras 59 punti, Bragantino 58 Flamengo 56. Il giornale O Globo mette nero su bianco tutte le partite da lì alla fine con tanto di coefficiente di difficoltà. Nonostante tutto il Botafogo risulta ancora la squadra con le maggiori probabilità di vittoria, il 30%. Ma a O Globo non avevano i conti con la vocazione per l’harakiri dei bianconeri che, in vantaggio per 2-1 in casa del Bragantino si fanno raggiungere al 98’. Sono secondi, ma hanno da recuperare la gara con il Fortaleza. Vincendo possono tornare ancora primi. Nel frattempo hanno anche cambiato allenatore, facendo arrivare dallo Sporting Cristal Tiago Nunes, l’uomo che avrebbe dovuto sedere sulla panchina del Fogão campione a partire dal 2024, ma c’era bisogno di lui subito per provare a invertire la rotta e giocarsi un’ultima carta della disperazione, che però resta tale: Fortaleza-Botafogo finisce 2-2.

I bianconeri, che hanno racimolato appena tre punti nelle ultime sette partite e non vincono da un mese e mezzo, riescono addirittura a fare di peggio nelle gare successive, raggiunti al 90’ dal Santos (che retrocederà pochi giorni dopo) e al 99’ dal Coritiba (già retrocesso), dopo aver segnato il rigore del vantaggio appena due minuti prima. Chi sa - o meglio - chi ti vuol far credere di sapere, ti dice che una volta è che saltato tutto per aria, quelli del Botafogo hanno almeno provato a guadagnarci su con una serie di risultati strampalati buoni per ingrossare il portafoglio con le scommesse. Non ci sono prove, ovviamente.

Arriveranno un altro triste pareggio 0-0 col Cruzeiro e una sconfitta all’ultima giornata con l’Internacional, che costa ulteriormente cara al Fogão, che esce anche dalle prime quattro (per la prima volta in tutto il campionato, che aveva guidato dalla quarta giornata sino al tracollo) e per entrare nella prossima Libertadores dovrà passare da due turni preliminari. Il primo apparentemente morbido, con la vincente di Aurora (Bolivia)-Melgar (Perù), il secondo - se tutto va come deve andare - proprio contro il Bragantino. Insomma, in una competizione in cui le brasiliane iscritte sono ben otto, rischia di non entrare nel tabellone principale quella che qualche mese fa stava dominando il campionato.

Tornato in Italia, Andrea, l’amico italiano che vive a Rio, mi manda una foto che ha fatto tutto il giro dei gruppi WhatsApp del Brasile: è un tatuaggio con il simbolo del Botafogo e la scritta “campione 2023”. Non si sa chi sia il proprietario, ma si sa che non è stato l’unico ad avere un’idea di cui sarà stato facile pentirsi, ma non è facile né indolore né a buon mercato tornare indietro.

E ripenso a quella volta che - riscendendo dal Morro de Dois Irmaos, la collina in cima alla favela di Vidigal (15 mila abitanti, in gran parte tifosi del Flamengo) che ti ripaga della fatica di una ripida salita con uno dei panorami più belli di Rio - ho incrociato un mototaxi che non saliva su sparato come tutti gli altri, ma veniva continuamente fermato da gente con il ghigno e la battuta pronta. Quando ho chiesto ad Andrea, mi ha detto: «Ah, ma lui è tifoso del Botafogo».

Si conoscono tutti lì, e per di più il mototassista indossava anche il casco con l’inconfondibile stella bianca, come Joberto-Darth Vader. In cima, dove il conducente del mototaxi sembrava non poter mai arrivare, ci sono due murales di Manobenke, l’artista che ha rivitalizzato la favela: uno raffigura Zico, l’altro Garrincha. Accanto c’è la scritta O Glorioso, altro soprannome storico del Botafogo che oggi anche il torcedor più ottimista fa fatica a pronunciare.

Il prossimo 17 gennaio, giorno dell’esordio stagionale del Botafogo, contro il Madureira, nel campionato carioca, saranno passati esattamente tre mesi dall’ultima vittoria. In quei giorni che paiono lontanissimi, il Botafogo aveva la possibilità di conquistare ancora 33 punti: un giornale locale calcolò - facendo una media dei vincitori degli anni precedenti - che per vincere il torneo gliene sarebbero bastati 15. In realtà - si scoprirà alla fine - ne bastavano dodici. Ne hanno fatti sei.

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