Il sole tramonta su Tavullia in una fredda giornata di febbraio, ma il giallo acceso continua a pervadere ogni angolo del paesino. Ci sono manifesti gialli con il 46 nero ovunque: dai guard-rail a bordo della strada ai tronchi degli alberi, fino alle bandierine sventolanti appena varcato il confine per entrare in paese, provenendo dall’uscita di Pesaro della A14. Vicino all’ingresso del centro di Tavullia c’è la struttura del “Da Rossi”, che racchiude diversi locali: pizzeria, bar, fan club e store ufficiali. Appena fuori, una striscia interminabile di disegni di bambini ci accompagna in salita all’entrata in centro e il cartello di ingresso è diventato completamente illeggibile, sommerso di adesivi.
Arrivando da Pesaro e salendo verso Tavullia, il percorso prosegue in discesa verso la vallata e termina nella grande struttura della VR46 Racing, che coordina tutti gli aspetti del marketing e della comunicazione attorno alla figura di Valentino Rossi. Il clima e la scenografia sono distanti dall’aura semplice e mistica del paesino: un cancello imponente accoglie l’ingresso e la struttura in vetrate ricalca perfettamente lo stereotipo contemporaneo della grande azienda.
Fare un giro a Tavullia è indispensabile per capire Valentino Rossi. La totale devozione della parte alta del paesino è il cuore pulsante del suo culto. Quel genere di calore, intimo e intenso, può forse svilupparsi e risuonare solo in un piccolo borgo, ed è stata dispersa solo in parte dai media e dalla globalizzazione dell’icona di Valentino, in qualche modo ancora strettamente legata alla provincia italiana.
La necessaria freddezza architettonica della sua struttura di comunicazione è soltanto la piccola tassa da pagare al successo, la sua parte più artificiosa. «Valentino deve vivere in un certo modo perché è diventato troppo importante», ha detto di recente Andrea Dovizioso, «è chiuso in una cerchia in cui è difficile entrare e per farlo bisogna comportarsi in un certo modo. Ma sono convinto per la passione e il tipo di approccio che ha alle cose, non solo alle moto, che ci sono molti aspetti che ci accomunano. Con Marquez ho un rapporto senza filtri, con Valentino invece potremmo avere un rapporto molto stretto o addirittura di amicizia senza quelle barriere».
Ne aveva parlato lui stesso già nel 2004, in una vecchia intervista di Giorgio Terruzzi dopo la vittoria del Mondiale: «Ormai nei weekend di gara quando sono nel camper non posso più uscire», disse Valentino. «Andare nel paddock è diventato impossibile. A Valencia era un macello, ci saranno state 20 mila persone nel paddock, come fai? Ho fatto fatica a dire di no al pass anche per molti miei amici. Anche quando vado al ristorante è meglio che ci vada alle 10.30 o alle 11 anziché alle 8.30. Starei anche più tempo a firmare autografi se la gente fosse meno pressante. Lo stress maggiore durante le gare ce l’ho per persone che mi vengono a bussare e mi chiedono autografi o interviste».
La parte più filtrata di Valentino Rossi è arrivata però solo dopo, e non è comunque riuscita ad intaccare il proselitismo verso la sua icona, costruito invece attorno agli aspetti più spontanei della sua figura. La naturalezza con la quale Valentino ha espresso la propria personalità, una caratteristica tipica più della vecchia scuola dei motociclisti anglo-americani che di quella odierna degli spagnoli, ha mutato negli anni forme e contenuti ma non si è mai troppo discostata da quel modo di fare scanzonato e adolescenziale, adottato fin da quando era sconosciuto al grande pubblico.
Valentino, specie nei suoi primi anni, ha creato un immaginario divertente, intelligente e autoironico, che a volte lambiva i confini di una “cafonaggine” di stampo provinciale. Un immaginario che ha contagiato anche il pubblico più adulto e disilluso, mutando nella forma ma rimanendo tale nella sostanza col passare degli anni: «Con l’età si cambia, ma lui è riuscito fino adesso a non accorgersi dell’età che passa», ha dichiarato suo padre Graziano. La spontaneità e la coerenza hanno portato Valentino Rossi a tramandare la stessa immagine di sé stesso senza alcuno sforzo, attraverso il tempo. La sua essenza più profonda, che Valentino ha esibito soprattutto nei primi anni di carriera, è ancora attuale, dopo aver appena compiuto 40 anni. Le parole di suo padre sono del 2004, ma nessuno si stupirebbe se le pronunciasse oggi.
Il potere dell’uomo
Le fondamenta della forza di Valentino Rossi, però, sono state rappresentate dalla sua innata capacità di trasportare in pista l’immagine che ha comunicato fuori. La leggerezza con cui va in moto, il suo stile aggressivo e sempre al limite, perfetta sineddoche del suo temperamento generale, rappresentano l’icona di immortalità di cui in molti volevano essere partecipi. È attraverso questo stile, in bilico tra l’umano e il troppo umano, che Rossi ha risolto a proprio favore la contrapposizione tra Uomo e Macchina che pervade il motorsport degli ultimi anni.
In Formula 1, forse con l’eccezione di Lewis Hamilton nell’ultimo Campionato del Mondo, l’uomo si è ormai rassegnato a veder ridotta la sua influenza. Nel motomondiale, invece, la maggiore difficoltà a tenere in strada il mezzo meccanico lascia ancora spazio all’azione e alle qualità dei piloti. In questo senso, la stagione 2004, con l’addio di Rossi alla Honda e il trionfo mondiale con la Yamaha risorta dalle ceneri, resterà forse il punto con il più alto valore simbolico nella sua carriera.
Il successo nel Mondiale 2004, soprattutto la vittoria nella gara di esordio a Welkom in Sudafrica dove ha vinto il duello con l’acerrimo nemico Max Biaggi, è stato fondamentale nella nascita del suo mito. Per continuare a rendere credibile ed efficace il suo carisma Valentino ha avuto innanzitutto bisogno dei risultati in pista: «I successi che ottengo nel mio sport sono molto importanti per il resto della mia vita e per il mio umore», disse nel 2004 sempre nell’intervista di Giorgio Terruzzi.
Valentino aveva il mondo tra le mani e decise di abbandonare la moto migliore, la sua Honda, per passare nel 2004 alla Yamaha che l’anno precedente aveva raccolto un solo podio con Alexandre Barros a Le Mans. «Forse è questo il mio desiderio: fare qualcosa che nessuno ha mai fatto, o comunque qualcosa che pochi hanno fatto. Devo capire bene cos’è», disse nel 2002. Probabilmente è da questa idea che un anno più tardi è maturata la decisione di lasciare la Honda; oltre alla sensazione che la sua grandezza non venisse abbastanza riconosciuta, soprattutto dalla stessa Honda.
In poco tempo Rossi è passato dal dominio totale sulle gare, quello delle stagioni 2002 e 2003, al fare i conti con successi a singhiozzo e a calcoli necessari sui rischi da prendere per accumulare più punti possibile, in contesti di gara non sempre favorevoli, soprattutto per colpa del mezzo meccanico. La stagione 2004 ha segnato un punto di svolta nella maturazione di Valentino, passato per necessità a uno stile di guida più costante e pulito, senza le spettacolari derapate con le quali solcava l’asfalto nel periodo di invincibilità alla Honda. «Mi sembra di essere migliorato in molte cose in cui non ero bravo», disse a fine stagione, «per esempio nella guida sul bagnato, nelle partenze o nei giri da qualifica con la gomma da tempo».
L’influenza delle straordinarie qualità del suo talento di guida sono state evidenti, da subito, soprattutto nei duelli corpo a corpo. Non tanto e non solo in quella stagione 2004, dove i duelli dal più alto valore simbolico sono stati quello di apertura contro Biaggi in Sudafrica e quello di chiusura del titolo contro Gibernau in Australia. I sorpassi che hanno marcato in modo indelebile la legacy di Rossi sono stati quello su Gibernau a Jerez nel 2005 e soprattutto quelli su Casey Stoner al Cavatappi di Laguna Seca; e su Jorge Lorenzo a Barcellona nel 2009, all’ultima curva.
Gli ultimi 3 giri di Barcellona 2009 con la leggendaria telecronaca di Guido Meda.
Contro l’australiano, a Laguna Seca, il potere psicologico di Valentino si è espresso nel duello generale più che sulla singola manovra. È con la mente, con la sua forza oscura, che Valentino ha compensato la superiorità di Stoner nel passo gara, forzandone poi la caduta, sia negli Stati Uniti che poi a Brno e Misano. Quello dei sorpassi negli ultimi due giri è stato un altro dei temi ricorrenti della migliore fase di carriera di Rossi: un aspetto che ha naturalmente contribuito a far entrare certe gare nella leggenda, e contemporaneamente a tenere ancora più sotto pressione gli avversari nei duelli individuali.
Valentino Rossi si è affermato in un periodo in cui la ricercatezza tecnologica nel motociclismo era ancora limitata. È per questo che per molti anni ha dato l’impressione di poter piegare totalmente al suo volere il corso degli eventi, dove talento e forza mentale sembravano alimentarsi a vicenda. Forse il successo mediatico di Rossi nasce anche da una sorta di invidia verso di lui e delle sue capacità di controllo, sia a livello tecnico che psicologico. Forse senza quel passaggio in Yamaha e i quattro titoli, ottenuti in condizioni molto differenti tra loro e con tipi diversi di avversari, Valentino Rossi non sarebbe mai riuscito a esercitare il fascino così imponente della vittoria dell’Uomo sulla Tecnologia.
Il potere del carisma
Elencare i successi e le qualità di Valentino Rossi in pista non basta per spiegarne il potere carismatico. La forza della sua spontaneità e della sua leggerezza, unite ovviamente al suo talento e alla sua solidità sportiva, hanno creato attorno alla sua immagine una sorta di culto religioso. Non tifare o non ammirare Valentino quasi sempre significa disprezzarlo, con un dissenso radicale che solo le grandi dittature sono in grado di generare, come unica forma possibile di opposizione di fronte alla cieca devozione verso la figura del leader.
Rossi però è riuscito a rendere trasversale il suo carisma, trasmettendo un senso di dominio mai violento e sempre leggero, in pista e fuori. C’è qualcosa di infantile nel mito di Valentino Rossi, che lo rende unico nel panorama dello sport contemporaneo, ossessionato dal pensiero forte del “duro lavoro” e della “mentalità”, del “successo ad ogni costo”. È stata però la sua leggerezza a renderlo una figura rassicurante e in un certo senso “d’evasione” per i suoi tifosi. «Quando vedi Valentino camminare, parlare o muoversi in generale nel paddock, vedi una mentalità differente da quel tipo di persona che fa il professionista nel motociclismo», disse Jeremy Burgess, suo storico capomeccanico. «Ha un approccio casual e gioioso nel paddock. Quando arrivò da noi in 500 in Honda nel 2000, ci ha fatti sentire tutti molto più giovani. È stata un’esperienza straordinaria nella mia vita».
Valentino Rossi ha creato da solo un movimento, quello dell’interesse mediatico verso la MotoGP che, fino solamente a qualche anno prima, sarebbe stato impensabile vedere sorpassare talvolta la Formula 1 negli indici di ascolto. In questo c’entra molto anche il ruolo del telecronista Guido Meda, non perché sia tifoso di Rossi nello specifico, ma per la capacità di creare una narrazione emotivamente potente attorno ai successi di un pilota italiano. Meda ha rappresentato per anni il perfetto surrogato di Valentino nell’unico momento in cui non può comunicare attraverso le parole, cioè quando è in pista.
Lo stesso mutamento dei paradigmi comunicativi operato da Valentino Rossi lo ha portato anche Meda nello stile delle telecronache, non solo motociclistiche. Forse Meda, che ha iniziato a commentare la MotoGP nel 2002, è stato anche abile a capire il vento che gli stava passando davanti e a cavalcare l’onda, alzando l’asticella sulla personalizzazione e sul calore emotivo della telecronaca. Magari c’entra anche il fatto che Meda sembra anche avere un carattere un po’ simile a quello di Rossi, professionale ma leggero e ironico al contempo. L’affinità che emerge tra i due ogni volta nelle interviste sembra spontanea, ed è parsa ancora più tangibile al confronto con la freddezza e le difficoltà di connessione evidenti quando Valentino è stato ospite da un giornalista più ingessato come Fabio Fazio, a Che tempo che fa.
Alla sua identità scapigliata Rossi ha contribuito con molte celebrazioni preparate a tavolino, ma che ne hanno ogni volta tirato fuori il lato più spiritoso e in molti casi autoironico. Per due anni consecutivi a Misano, nel 2009 e nel 2010, Valentino ha utilizzato il forte impatto di marketing dell’autocritica: nel 2009 il tema ricorrente del casco e delle celebrazioni sul podio era quello dell’”asino”, dopo la banale caduta di Indianapolis nella gara precedente. L’anno successivo sul casco fece disegnare una sveglia, a sottolineare il fatto che fosse ora di interrompere un lungo digiuno di vittorie.
Tutte queste immagini personalizzate non hanno avuto solo una funzione comunicativa, ma in qualche modo anche pragmatica. «Salire su una moto che mi sembra la mia moto mi rende più sereno e mi dà più motivazioni», disse Valentino sempre nell’intervista a fine campionato nel 2004 concessa a Giorgio Terruzzi. «È importante che ci sia il giallo, che ci sia Guido (l’adesivo con la caricatura del suo vecchio cane, nda), soprattutto che la moto sia bella e abbia una colorazione stile Valentino Rossi. Ora si fa sempre più fatica con gli sponsor, però questa (indica la sua Yamaha del 2004, nda) si riconosce che è la mia moto».
Anche in questo aspetto Valentino Rossi ha istituito un nuovo paradigma. Dopo di lui un certo tipo di personalizzazione della propria immagine e delle proprie celebrazioni motociclistiche è ormai diventata una prassi tra i nuovi campioni del motomondiale, soprattutto Marquez e Lorenzo.
Valentino ha creato il suo brand prima che questi discorsi fossero comuni nello sport, non solo nel motociclismo. Per fare un esempio, è stato il primo a rinunciare al numero 1 dopo la vittoria del Mondiale, intuendo come il mantenimento di un numero e un font precisi potessero avere un impatto decisamente più forte a livello di immagine. Se n’è accorto anche Jorge Lorenzo, che solo dopo la sua prima vittoria in un Mondiale ha indossato il numero 1, e si è accodato anche Marc Marquez con il suo 93.
In questi aspetti di immagine i campioni che sono seguiti a Rossi non sono però riusciti a mantenere lo stesso livello di spontaneità. Valentino in questo aspetto è stato un profondo innovatore e tutto gli sembrava perfettamente naturale, mentre per gli spagnoli è parsa da subito una semplice operazione di marketing, per non dire un calco. In questo senso d’autenticità ha pesato forse la diversità dei media attraverso cui si è diffusa l’icona di Rossi. La televisione dei primi anni Duemila ha restituito un’immagine al contempo più vicina e lontana di Valentino Rossi, che senza l’ausilio dei social media manager ha costruito un mito dai contorni più sfumati e potenti. Valentino ha poi sottolineato tutta la differenza che percepisce tra il suo mondo e quello dei campioni attuali: «Nel nostro sport il paraculismo oggi la fa da padrone», ha detto proprio nell’intervista fatta da Meda e dedicatagli da Sky Sport per i suoi 40 anni. «A essere paraculi e a fare finta di andare d’accordo con tutti si risparmia un sacco di tempo. Però a me piace di più com’era qualche anno fa: va bene stare con quelli di cui hai rispetto e che ti stanno simpatici, e con gli altri no. Non c’è bisogno che si vada d’accordo con tutti».
L’autenticità di Rossi è anche la sua schiettezza. Valentino in quel passo dell’intervista faceva riferimento alla sua feroce rivalità con Max Biaggi: «All’epoca si poteva ancora avere una rivalità così vera, più tosta di adesso». Il modo in cui Rossi ha gestito i suoi successivi dualismi, soprattutto quello con Marc Marquez, rivela quanto lui sia un prodotto di quella vecchia corrente di pensiero di motociclismo un po’ anglo-americana.
Prima degli ultimi tre Gran Premi del Mondiale 2015 – nei quali Marquez rinunciò in modo evidente a correre la propria gara per favorire Lorenzo nella lotta al Mondiale contro Rossi – Valentino ebbe sempre atteggiamenti di estremo rispetto e quasi di ammirazione nei confronti del nuovo fenomeno del motomondiale, nonostante si vedesse già che Marquez fosse un serio candidato a sfidare i suoi record. A Barcellona nel 2014, dopo una feroce e leale battaglia in pista, Valentino sotto il podio strozzò scherzosamente Marquez, che era alla settima vittoria consecutiva (un messaggio del tipo: «ti posso solo ammazzare per batterti»), mostrando un profondo rispetto. La situazione cambiò radicalmente dopo il brutto epilogo del Mondiale 2015, con Valentino che ancora fino a pochi mesi fa si è rifiutato di stringergli pubblicamente la mano, come mai fatto prima d’ora, neanche con Biaggi.
Altri tempi.
Forse Rossi qualche volta ha calcato un po’ troppo la mano, sfruttando la potenza della sua icona per mostrare il suo disappunto. Memorabili in questo senso il modo cupo, irriverente e forzato in cui ha guardato Marquez in conferenza stampa prima del Gran Premio della Malesia 2015 (dopo averlo accusato, forse a ragione, di aver impostato la strategia nel Gran Premio precedente per favorire Lorenzo), o la risata sarcastica dopo la gara di Misano del 2016. quando ha risposto all’accusa mossa dal maiorchino per un sorpasso duro ma sostanzialmente corretto di Valentino. Forse lo ha fatto, a torto, anche quando contestò pubblicamente il reclamo fatto da Sete Gibernau in Qatar nel 2004, che portò alla retrocessione in griglia all’ultimo posto per Rossi, colpevole di aver pulito la sua piazzola di partenza originaria la notte prima della gara.
Anche questi episodi un po’ ineleganti, però, rientrano nel suo personaggio senza filtri, guascone, mai disposto a scendere a compromessi con la diplomazia forzata e ipocrita del circuito. Sono anche questi episodi ad averne accresciuto il potere comunicativo, a renderlo più vero degli altri motociclisti. Negli anni Valentino Rossi ha ceduto lo scettro di pilota più veloce a Casey Stoner prima e Marc Marquez poi. Ma forse, anche dopo il suo ritiro, non cederà mai quello del pilota più iconico. C’è stato un motomondiale pre- e post-Valentino: quanti grandi campioni possono dire lo stesso nei loro rispettivi sport?
Il potere della longevità
Per parlare della traiettoria professionale di Valentino Rossi motociclista, più specificamente dal lato tecnico, bisogna però introdurre innanzitutto la sua forza nei duelli corpo a corpo. Il talento forse più atavico di Valentino, e che più si sposa con la sua immagine del guascone, dell’eterno fanciullo. Oltre a quello che ne ha definito di più il mito, in uno sport, come il motociclismo, in cui i suoi protagonisti sfidano apertamente la morte. La leggerezza del suo coraggio è ciò che ha distinto Valentino Rossi da tutti gli altri. «Quando era in 125, Valentino o vinceva, o comunque arrivava a podio, oppure invece cadeva», disse Andrea Dovizioso in una vecchia intervista a Paolo Beltramo, sottolineandone la naturale aggressività nei sorpassi e contrapponendola alla sua riflessività.
Ma questo aspetto rischia di far passare in secondo piano la sua evoluzione. Il fatto che Rossi sia arrivato a 40 anni compiuti come un candidato ancora credibile per vincere il titolo mondiale in MotoGP fa riferimento all’altra sfera che lo ha reso immortale, quella della sua incredibile longevità. Un lato del suo talento sviluppatosi attraverso un lungo processo di maturazione e completamento, che lo porta ora a sfidare l’ennesimo record: in 70 anni di storia nessun pilota di almeno 38 anni di età ha mai vinto un titolo mondiale in 500 o in MotoGP, mentre lui stesso è già il più anziano vincitore di una gara in MotoGP (38 anni e 128 giorni, ad Assen 2017).
Foto di Daniel Istitene / Getty Images.
Valentino, in linea con il suo temperamento spontaneo e quasi istintivo, non è stato un pilota innovatore, che ha studiato un modo per modificare i paradigmi della guida in moto, allo stesso modo di come invece ha rivoluzionato i canoni comunicativi nel motociclismo. «Nei primi anni in 500 e MotoGP aveva una guida molto vecchio stile», analizza Luca Salvadori, motociclista e soprattutto vlogger di successo. «Valentino aveva il corpo molto seduto sulla sella e molto in asse con la moto. In seguito, come altri, anche Valentino ha cercato di imitare lo stile di Marquez, con il sedere molto fuori dalla sella in piega e il gomito praticamente a terra».
«Ho iniziato a cambiare il mio stile di guida durante l’ultima parte del 2012, quando ancora ero in Ducati», ha precisato Rossi qualche anno fa. «Ho iniziato a far uscire il busto rimanendo un po’ “appeso” guardando Stoner che lo faceva per correggere il sottosterzo. Il nuovo stile, quello poi adottato da Marquez e da tutti noi ora, è stato introdotto da Stoner e in minor parte anche da Lorenzo, perché in effetti è più redditizio con questo tipo di moto e con questo tipo di gomme. Ho dovuto modificare anche la posizione delle mani sul manubrio perché cambia totalmente la posizione in sella. Il cambio di stile è un’evoluzione umana: quando una cosa funziona poi la fanno tutti gli altri».
Lo stile importato dal campione australiano deriva dal flat track, specialità simile allo speedway che si disputa su sterrato, nella quale Stoner si allenava in gioventù e che è infatti diventata la preferita di Valentino Rossi nel suo ranch di Tavullia, fuori dai weekend di gara. Ma il segreto della longevità di Valentino sta anche nel coraggioso cambio del suo capomeccanico, da Jeremy Burgess a Silvano Galbusera, che dal 2014 ne ha rilanciato i risultati: «Ho preso questa decisione perché il modo di lavorare in MotoGP è diverso rispetto al passato», ha spiegato Rossi qualche anno fa, «gli ingegneri dialogano con il pilota ma passano molto più tempo di prima al computer, tenendo conto delle sensazioni del pilota ma anche dei dati della telemetria».
La longevità e la capacità di Valentino Rossi di modificarsi, di passare da un atteggiamento di guida totalmente spavaldo a un altro cerebrale, riflessivo, quasi computerizzato e perfino schumacherizzato, affrontando però contemporaneamente il calo fisico e di riflessi dell’età avanzata, non sarebbero però avvenute senza una dose sconfinata di passione verso il suo sport. «Valentino ha speso soldi per creare una situazione (la sua pista a Tavullia, nda) per potersi divertire tutte le volte che vuole nel modo che vuole», dice Dovizioso, «gira continuamente nella stessa pista allo stesso modo, tutti i sabati, cercando di battere gli altri e di migliorarsi. Questa è passione pura».
Dopo tutto la longevità, in tutti gli sport, rappresenta la certificazione più solida dell’ingresso nella leggenda. La durata nel tempo e l’adattamento a decenni diversi dà una consistenza in un certo senso eterna al talento di uno sportivo, in grado di resistere a tutti i mutamenti.
L’estensione del suo periodo di successi e la coda di carriera dopo i 35 anni, più o meno allo stesso modo di Roger Federer, hanno alimentato la leggenda di Valentino Rossi, cambiato nel modo di lavorare ma coerente invece nello spirito con cui affronta la sua carriera. Nel 2015 la forza della Yamaha, l’insolita sequenza di errori di Marquez e la sua programmazione scientifica nel centrare ogni volta il massimo risultato possibile attraverso i vari momenti del weekend e della gara, lo hanno portato in testa al Mondiale fino all’ultima gara.
Valentino, provocato in Malesia da Marquez – con numerosi inutili sorpassi e controsorpassi – che aveva come unico interesse quello di fargli perdere il titolo, perse un po’ la testa: prima lo chiamò a bordo pista e poi, dopo che lo spagnolo appoggiò la testa sulla sua gamba, gli rifilò una pedata che lo fece cadere, forse con scopo di autodifesa, ma che lo costrinse come punizione a partire in ultima posizione nella gara conclusiva. Un epilogo triste a Valencia, dove Marquez ha palesemente rinunciato alla sua proverbiale combattività scortando Lorenzo fino al traguardo, ha permesso al maiorchino il successo iridato e impedito a Valentino la conquista del suo decimo Mondiale, forse per sempre.
Nelle celebrazioni sul podio Jorge Lorenzo sprizzava di gioia ma sotto a lui, nel paddock, in pochi erano a festeggiarlo. Tra questi Max Biaggi, amico di Lorenzo e acerrimo rivale di Rossi. La maggioranza della folla era invece impegnata a formare un corridoio umano per applaudire Valentino, al suo rientro nei box. Forse, insieme alla devozione che si può toccare con mano passeggiando a caso nei borghi del suo paese natale, questa è l’immagine più rappresentativa di cosa significhi Valentino Rossi.