Pubblichiamo un estratto da "Giannis - L'incredibile ascesa di un campione" scritto dalla giornalista Mirin Fader e pubblicato in Italia da Add editore.
Quel mondo sembrava lontanissimo a Giannis quando, il primo giorno di training camp, si ritrovò sulla linea di fondo insieme a due compagni più alti, Larry Sanders (2.10) e John Henson (2.05). Allargarono le braccia, da polpastrello a polpastrello, misurando la apertura di braccia. Giannis sembrava esaltato alla sola idea di essere su un campo NBA, pieno di energia, come se avesse bevuto tre tazze di caffè.
Quando arrivò il momento di disporsi in coppie per un esercizio, Drew disse: «Giannis, fai coppia con O.J.». Si trattava di O.J. Mayo, l’ex stella di usc che a un certo punto era stato considerato uno dei migliori giocatori liceali di tutta America. Giannis si guardò attorno confuso: «Chi è O.J.?».
Mayo fece una smorfia e tra i denti si lasciò andare a un insulto. «Questo non sa neppure chi sono?». Avrebbe dovuto farglielo vedere. E non sarebbe stato il solo. A turno, tutti avrebbero approfittato di Giannis nei vari esercizi. Un giocatore doveva penetrare deciso al ferro, mentre un difensore era chiamato ad arrivare dal lato debole e incassare uno sfondamento. Era conosciuto come esercizio Due-Nove, ma si sarebbe potuto tranquillamente chiamare L’esercizio per stendere Giannis.
Il rookie se ne stava fuori dal semicerchio sotto canestro, le gambe leggermente piegate, le braccia alzate, molto simile a uno stuzzicandenti. Un compagno via l’altro arrivavano a caricarlo, sbattendolo a terra neanche fosse vuoto dentro. Caron Butler, un veterano di due metri per 103 chili originario di Racine, Wisconsin, uno che si sarebbe allenato nella neve in calzoncini e maglietta, se qualcuno glielo avesse chiesto, gli regalò alcuni bei lividi. «Sala pesi!», era l’urlo di Butler dopo ogni scontro con il rookie.
Poi toccò a Zaza Pachulia, un centro di 2.10 e 122 chili; poi a Stephen Graham, 1.98 per 97 chili, un giocatore alla ricerca di un posto in squadra. «Lo trattammo in quel modo per farlo diventare più forte fisicamente», racconta Graham, oggi responsabile dello sviluppo dei giocatori ai Denver Nuggets. «Era parte del nostro compito: benvenuto nella lega, rook».
Graham in particolare colpì Giannis così duramente da mandarlo per terra sulla linea di fondo. Si rialzò ma afferrandosi il petto, come se fosse stato ferito. «Mio Dio», disse tra sé e sé, ansimando.
Graham si preoccupò: «Pensai di avergli rotto lo sterno o qualcosa del genere». Drew fermò l’allenamento per sincerarsi che il rook fosse a posto. I veterani risero. «Giannis non era ancora pronto», racconta Graham. «Oggi sembra un Dio greco, ma allora? Allora sembrava non avere una sola possibilità di farcela. Bastava soffiargli contro per mandarlo a terra».
Era un debuttante magrissimo, ma anche uno con una enorme resistenza: ogni volta si rialzava, senza dare l’impressione di essere scoraggiato. Butler si voltò verso Nate Wolters, un’altra matricola, e sorrise: «Il ragazzo diventerà uno speciale».
A fine allenamento Drew consegnò a ogni giocatore un playbook così spesso che ci sarebbero volute ore per leggerlo tutto. A ora di cena, quella stessa sera, Giannis mando un sms a Drew dicendogli di aver notato un errore in uno degli schemi offensivi. Drew ci restò di sasso. Il rookie lo aveva appena corretto? Il suo primo allenatore in NBA, al suo primo giorno in NBA? La cosa divenne chiara in fretta: Giannis era un vero studente del gioco, uno pignolo, attento a ogni dettaglio. Voleva avere impatto, anche se per adesso era quello preso di mira da tutti.
Il giorno successivo i veterani continuarono a maltrattarlo. Se si azzardava a metter piede dentro l’area, lo cacciavano fuori a forza. Era un teenager chiamato a competere contro uomini adulti. «Fu un processo di transizione molto, molto, ma molto duro per lui», dice Drew. «Tanti compagni non facevano altro che giocare di fisico contro di lui». Giannis non indietreggiava davanti a nessuno, cercando di compensare con i centimetri e con la rapidità, ma spesso sembrava essere un pupazzo. Tutto succedeva così velocemente, attorno a lui. «Era perso», racconta Ersan Ilyasova, ala dei Bucks dal 2006 al 2007 e poi ancora dal 2009 al 2015 e dal 2018 al 2020.
Gli allenatori non potevano infuriarsi con lui, perché era evidente che ce la stesse mettendo tutta. Ma c’era così tanto da imparare: se conquistava un rimbalzo difensivo, provava subito l’apertura. Drew lo correggeva con costanza. «Spingi la palla, spingi in transizione: sei troppo lungo e atletico per disfarti subito del pallone. Vai».
Era come se il corpo di Giannis non riuscisse a eseguire quello che la mente gli diceva di fare. I suoi compagni lo prendevano in giro per il suo aspetto gracile, chiamandolo “piccola giraffa”, o “Gumby”, o “cartello stradale”. Gli dissero che somigliava a Shawn Bradley, un centro scoordinato di 2.23 visto nelle sue ultime apparizioni NBA con la maglia dei Dallas Mavericks. Giannis non sapeva chi fosse, ma una volta cercato il suo nome su Google e capito che il paragone era un insulto non apprezzò la cosa.
Oppenheimer, l’assistente allenatore dei Bucks, soprannominò Giannis “Bambi” e ogni volta che inciampava o finiva a terra i compagni ridendo imitavano il verso del cerbiatto. «Eccole lì, le zampe di Bambi». Giannis intuiva che “Bambi” non fosse un apprezzamento, ma non capiva cosa volessero dire. Stava ancora imparando a parlare inglese. «Coach», chiese a Openheimer, «cos’è Bambi?» «È un cucciolo di cerbiatto», gli rispose. «No, coach. Io non sono un cucciolo di cerbiatto. Non sono Bambi». Iniziò a parlare in greco, cosa che faceva quand’era infuriato, ma il piano dei veterani stava iniziando a funzionare: volevano entrargli nella testa, volevano che fosse arrabbiato. «Stavamo cercando di tirare fuori un Giannis aggressivo, quello che oggi siete abituati a vedere», dice Chris Wright, un’ala di quei Bucks.
Anche allora, però, Giannis non era soft: di sicuro avrebbe combattuto. Solo che arrivando dall’Europa, ed essendo così magro, giovane, e con una vocina sottile, non riusciva a non essere “adorabile”. Ad esempio, aveva paura del Goldendoodle di casa Geiger, London, perché ogni volta che andava dai genitori di Geiger il cane continuava a saltargli addosso. A un certo punto Giannis si rifiutò di tornare in giardino per un paio di minuti finché Geiger non lo rassicurò che London non gli avrebbe fatto del male e che stava soltanto giocando.
Dichiarò di amare l’Ellen DeGeneres Show, Justin Bieber e anche uno dei grandi classici della commedia con Eddie Murphy Il principe cerca moglie. Sembrava così innocente. E poi Giannis non poteva certo guidare il gruppo. Stava solo cercando di guadagnarsi un posto nelle rotazioni, per dimostrare di non essere Bambi. Voleva far capire a tutti di essere in grado di gestire centinaia di schemi in una lingua a lui nuova. Una volta, in allenamento, la squadra stava provando un classico schema NBA chiamato “Floppy”. Gli allenatori si accorsero però che Giannis sembrava agitato. Oppenheimer lo prese da parte e gli chiese: «Cosa c’è che non va?». «Coach, lo so che sono magro e devo irrobustirmi», gli disse, «però io non sono floppy. Non sono floppy!». «Ma di cosa stai parlando?» «Tutti mi guardano e urlano “Floppy, floppy, floppy!”.» «Giannis, “Floppy” è una classica giocata NBA: lo ripetono così tu sai che stiamo eseguendo quel gioco. Lo ripetono perché vogliono aiutarti a impararlo.» «Ah, è uno schema?» «Sì, uno schema».
«Era veramente una tabula rasa», dice oggi Oppenheimer. «Della NBA non sapeva nulla se non i nomi di qualche superstar. Non conosceva gli allenatori. Non riusciva a far altro che pensare: “Voglio sfidarti, voglio dimostrare di potercela fare, non importa quante volte finirò per terra perché mi rialzerò sempre e tornerò a sfidarti”».
Giannis ascoltava, chiedeva consigli. Era diverso da tanti giocatori scelti al primo giro che già avevano ego sovradimensionati. «Era come un pezzo di argilla», racconta Oppeheimer. «Qualsiasi cosa gli dicessi di fare, l’avrebbe fatta. E se non fosse riuscito a farla, avrebbe continuato a provarci fino a riuscirci».
Giannis e Oppenheimer, il suo primo allenatore di tiro, diventarono presto amici. Si fermavano ore in palestra per lavorare sul suo stile, sfidandosi in mille gare (Oppenheimer è conosciuto come “the shot doctor” e Giannis raramente riusciva a batterlo). Nessuno passava più tempo in palestra di Giannis. Jim Cleamons, uno degli assistenti dei Bucks che in passato aveva allenato Michael Jordan e Kobe Bryant finendo per vincere nove titoli NBA in panchina, notò subito la frustrazione di Giannis ogni volta che commetteva un errore. Si sarebbe tormentato su quel movimento per giorni. «Ci metteva l’anima», dice oggi Cleamons, che al tempo ripeteva spesso a Giannis: «Finirai per essere un giocatore straordinario prima o poi ma ti prego, non americanizzarti». «Di cosa stai parlando?», gli chiedeva Giannis.
«Voglio dire: non americanizzarti. Non dimenticarti l’abitudine al lavoro che hai. Non dimenticarti tutto quello che ti ha fatto arrivare qui dove sei ora». Cleamons vedeva sprazzi di grandezza, un eurostep o una conclusione acrobatica, ma Giannis stava ancora adattandosi alle novità. Il suo inglese non era terribile, però gli mancava la comprensione di alcune parole o di certe frasi, soprattutto quelle classiche della terminologia del basket. Drew spiegava sempre due volte i concetti a Giannis, approfondendo ogni schema nei minimi dettagli. «Sapevo che avrei dovuto aver pazienza», dice Drew. Spesso la reazione di Giannis era un’espressione completamente vuota, ed era in quei momenti che Drew capiva come il suo rookie non avesse la minima idea di quel che stava succedendo.
Conosceva termini tecnici base come pin down o back pick ma si perdeva appena sentiva un gergo un po’ più complesso, tipo pick the picker (blocca il bloccante), flare with a rescreen (prendere un secondo blocco in allontanamento) o anche crashing the glass (andare forte a rimbalzo). Il risultato di tutto questo era che normali sessioni video che sarebbero dovute durare un’ora finivano per durarne tre. «Giannis parlava un inglese migliore di quanto facessi io all’inizio», racconta Ilyasova, arrivato dalla Turchia. «Quando arrivi da un Paese straniero, la transizione non è per nulla facile». A volte Giannis urlava il nome di uno schema, “Nero!” o “Blitz!”, solo per ricordarsi meglio cosa dover fare. Butler dovette prenderlo da parte: «Giannis, non puoi urlare lo schema! Non possiamo dire all’altra squadra che giocata faremo! Tienitelo per te, ragazzo!». C’era così tanto da imparare da sentirsi quasi sopraffatti. «Penso gli girasse la testa», testimonia Walters, l’altro rookie del gruppo. «Il processo di passaggio alla NBA è già duro anche se sai l’inglese».