
Parlare di Franco Scoglio prendendo le distanze da concetti molto emotivi come quelli della nostalgia, o del trasporto sentimentale, forse addirittura della mistificazione è un esercizio stilistico complicato con il quale però è necessario scendere a patti: a undici anni dalla sua scomparsa la sua figura continua ad avere i contorni sfocati che conferisce la malinconia, e meno spesso riusciamo a pensarlo, o rileggerlo, in termini di eredità e lasciti prettamente calcistici.
Per questo devo fare una premessa, anzi due. La prima: non voglio scorrazzare fra la retorica del “bel calcio che era”. Anche perché non c’entrerebbe niente con il Professore: uno che guardava indietro solo per poter essere avanti, perché per lui il passato rappresentava un insieme di memorie, sì, importantissime, ma destinate a rimanere patrimonio di se stesse. D’altra parte: «io non faccio poesia, verticalizzo».
La seconda, che è forse quasi una conseguenza, è che in questo pezzo ho deciso di non riportare molte sue citazioni tra virgolette, bensì di mescolare le sue frasi e le sue definizioni nel testo, un po' come lui ha messo la sua cultura, il suo genio visionario e anche le sue bizzarrie all'interno del suo calcio.
Le navi non sono fatte per stare in porto
Se le sue massime sono la sua storia, è il suo calcio ad essere il suo manifesto: le sue parole raccontano, i suoi fatti testimoniano. Ci sono posti in cui è considerato, ancora oggi, il miglior allenatore del mondo. Messina, Genova, Tunisi: i tre porti mitici della sua Odissea, i luoghi in cui ha piantato le radici del suo poema, finale (profetizzato) compreso. Perché davvero è morto parlando del Genoa. Anzi, ancora di più: difendendo il Genoa e attaccandone il Presidente.
Difendere e attaccare, difendere per attaccare. Possiamo partire da questo semi-bisticcio verbale per raccontare il calcio di Franco Scoglio e, di conseguenza, Franco Scoglio, che nel calcio ha mischiato tutto. Yin e Yang, ma alla liparese, con l'essenza di un'entità marina che nelle tempeste dà il meglio di sé.
Il mare era l’elemento di Scoglio, perché la civiltà cammina col mare. Sul mare ha composto i suoi capolavori; lontano invece non è mai stato bene. Come a Udine, città di uno dei suoi sette meravigliosi esoneri: era la stagione ‘91/’92, arrivò accompagnato dalle fanfare - nonostante fosse reduce dalla delusione di Bologna - perché considerato un tecnico da serie A che si rimetteva in gioco al piano inferiore, testimoniando parimenti la voglia di fare grande calcio della famiglia Pozzo. Non arrivò a primavera e fu cacciato da terzo in classifica in serie B, qualcosa di razionalmente inspiegabile se non fosse che lì Scoglio proprio non ci poteva stare, tanto da farsi centinaia di chilometri in macchina – rigorosamente in solitaria - durante le numerosi notti insonni, anche solo per poter respirare qualche refolo di aria salmastra. Il mare lo aveva avvolto dalla nascita, avvenuta su un'isola; solo chi è nato su un'isola può sapere cosa significhi il gusto della libertà e dell'esplorazione. La voglia di partire come costrizione alla lontananza forzata.
La vera epopea del Professore è partita da Messina, dove per la prima volta ha applicato il suo metodo ad alti livelli: aveva già vinto in Promozione e in Interregionale, ma portare una squadra che da quasi vent'anni era confinata al di sotto della serie B fino alle soglie della A era una cosa che non si aspettava nessuno. A Messina, dove gli hanno intitolato lo stadio, ha preso in mano un gruppo di calciatori che apparentemente non aveva grandi potenzialità. Li chiamava bastardi, i suoi bastardi, perché a nessun altro sarebbe stato permesso di attaccare un suo giocatore. Ma non era importante il tasso tecnico. A Messina è nato il suo primo dogma: è lo schema, l’organizzazione, a governare. La prima cosa necessaria è la coscienza di essere una squadra con valori e un’identità forte. Il modulo poi è soggettivo, anche se alla fine, per lui, l'identità coincideva appieno col modulo. Nella sua zona, la palla - e cioè il modo in cui viaggia - ha la precedenza sullo spazio e, infine, sull'uomo. Palla, spazio, uomo: è questa la regola.
Scoglio, più che un sergente di ferro, era semplicemente un insegnante. E nella didattica è fondamentale innanzitutto essere chiari, perché non si tratta di comandare, ma di guidare. Il suo convincimento, che diventa anche quello dei suoi giocatori, è che per fare il calcio moderno occorra un impegno totale negli allenamenti, che si traduce in costanti esercitazioni su situazioni come i movimenti difensivi (con l’utilizzo anche di corde per legare i reparti e disegnare le diagonali) e sulle sue famose palle inattive. Lavora in primis sulle menti dei calciatori, sfruttando l’esperienza fatta laureandosi in Pedagogia, il motivo per il quale ama fin da subito farsi chiamare “Professore”. Introduce il concetto di zona “sporca”, un misto di marcatura a uomo e a zona, mutuando schemi anche da altre discipline. La zona sporca si basa fondamentalmente sul concetto di scomposizione (ovviamente teorica) del terreno di gioco in tanti segmenti. Il “giocatore A” non deve passare la palla al “giocatore B”, ma deve mandare la palla in una zona del campo dove deve obbligatoriamente esserci il “giocatore B”. Forse non sembra, ma c'è tutta la differenza che poi diventerà storia con la rivoluzione sacchiana.

A Messina il Professore impara anche,perché la didattica va in un senso e nell’altro. Impara ad esempio che l'unica variabile impossibile da inserire in un sistema prevedendone i comportamenti è il talento: quello va lasciato scorrere e “usato” per quel che è. Glielo dimostra “Totò”, Salvatore Schillaci, che gli schemi non li comprende e non li considera, ma che segna a raffica e lo porta in serie B. Lì nasce il suo metodo, ancora primordiale ma già definito, e lì, oltre a far risorgere l’orgoglio sportivo di una città dalla quale in quegli anni partivano treni dipinti di giallo e rosso per seguire le trasferte della squadra, aumenta anche esponenzialmente le capacità di alcuni giocatori, plasmando futuri elementi da serie A: Schillaci su tutti, ma anche Nicolò Napoli - passato per Juventus e Cagliari e ora anche lui allenatore in avamposti sperduti del mondo del calcio - o Carmelo Mancuso, che Scoglio ha portato dalla Primavera del Messina alla firma con il Milan.
Messina - Genova
Da Messina a Genova, dalla nascita all'innamoramento. Dall'idea all'applicazione pratica.
È il 1988, il Grifone è a una passo dalla serie C e mancano ancora quattro giornate alla fine di un campionato cadetto che vede invece il Messina di Scoglio veleggiare sereno verso la salvezza. Spinelli vuole il Professore e il Professore vuole Genova. Non importa in che categoria. Certo, la serie B sarebbe meglio. E Scoglio comincia a lavorare per il Genoa un mese prima di arrivarci, ovviamente sotto stretto segreto: studia la squadra, impone al Presidente di fidarsi di lui nonostante sia formalmente ancora da un'altra parte.
All’ultima giornata, lo scontro diretto del Braglia finisce 1-3, con i gol di Di Carlo, Scanziani e Briaschi, le parate di Gregori, la catarsi genoana espressa dallo storico striscione “Solo chi soffre impara ad amare. Noi soffriamo, ti amiamo e insieme torneremo grandi”. Nella leggendaria salvezza di Modena (e qualsiasi tifoso rossoblù comprenderà l'enfasi dell'aggettivo, forse addirittura riduttivo) c'è già la mano del Prof. Una mano convinta ma soprattutto lucida. Tanto da capire che per fare quello che ha veramente in mente di fare, deve per forza arrivare in serie A: la seconda divisione è un campo di battaglia, l'Iperuranio è al piano superiore.

Per questo bisogna cominciare con una soluzione pratica. Il cardine irrinunciabile, il perno sul quale decide di improntare la squadra, ha un nome e un cognome: Gianluca Signorini. Più di un giocatore feticcio: il più amato in assoluto, la pietra filosofale, il vertice basso del rombo difensivo, completato da due marcatori e da un metodista. Il resto della squadra si costruirà procedendo con l'evoluzione, ma questa difesa “a tre più uno” è già il suo secondo dogma, dopo la zona “sporca”. Alla fine degli anni '80 non erano in tanti a puntare su una difesa a tre: un precursore?
Forse, ma sempre attingendo dal passato.
A chi gli avesse fatto notare che il suo stile, e i suoi metodi, fossero 30 anni avanti, lui avrebbe risposto che no, non era vero, perché certi principi valevano già 60 anni prima, nel calcio uruguagio degli anni '20, ovvero la prima espressione mondiale di football organizzato: a quei tempi la “Celeste” dominava il mondo con una sorta di modulo “a piramide”, un 2-3-5 dove si potevano intravedere degli antesignane tracce di zona. Una zona sporca verrebbe da dire: in questo senso, l’affermazione può essere accettata. E dall’Uruguay il Professore regalò al Genoa anche colpi formidabili come Aguilera, teoremi giusti nella teoria ma non nella pratica come Rubén Paz o chiamate ai limiti dell’indifendibile come Perdomo.
Il primo ciclo genoano di Scoglio si è esaurito in soli due anni. Per errore, perché nell’estate del 1990, forse il momento in cui raggiunse il suo più alto livello di appeal, il Professore fece lo sbaglio di credere troppo al sogno dello Scudetto, facendosi sedurre e poi abbandonare dagli ammiccamenti di Napoli e Juventus che non ebbero seguito, separandosi dal Genoa e ritrovandosi poi, deluso e senza stimoli, sulla panchina del Bologna. Più in là nel tempo avrebbe avuto modo di definire quel mutuo lasciarsi il suo più grande errore e la sua più grande ferita. Ma l’eredità che gli lascia Genova, e il Genoa, non sono tanto i risultati, il ritorno in serie A, l'esplosione di popolarità che lo investe. Così come quel che lascia lui lì non solo l'imbastitura di quei meccanismi che poi Bagnoli avrebbe reso storici. Per entrambi, quel che nasce e durerà in eterno è una simbiosi. «Il Genoa ha una tifoseria unica, non ce ne sono altre così in Italia. Neanche quella del Toro, l’altro mio grande amore. La tifoseria del Genoa è popolo. Il mio popolo. E il popolo ha bisogno di sentimenti». Chissà non sia per questo che alla fine, in altre piazze, i risultati siano stati più agri che dolci.
A Genova, ovviamente, finisce per ritornare. E forse è il suo secondo ciclo quello che parla di più del suo calcio, ancor di più del terzo (normale che ci sia anche un terzo, perché le affinità elettive sovrastano gli allontanamenti, e finiscono per tessere le fila di destini intrecciati). Il terzo sarà il ciclo del vero sentimento, il gran finale, anche un po’ melenso per drammaticità. Ma il secondo: quello rappresenta il momento in cui l'Idea si completa e fiorisce.
Manifesto Genoano
Quando Scoglio nel 1993 torna a Genova ha solo certezze, sul campo e fuori. Forse addirittura troppe, e di questo la dirigenza è un po' intimorita, perché quello che sta facendo ritorno a Marassi non è più un semplice allenatore, peraltro bisognoso di rispolverarsi dopo qualche esperienza negativa: è un capopopolo, un idolo. Ed è anche un uomo estremamente furbo, quindi in grado di ergersi, agli occhi della gente, addirittura sopra al club. Perciò la dirigenza decide di affiancargli una grande figura genoana come Claudio Onofri, tecnico già svezzato dalle giovanili e parafulmine garantito in caso di problemi.
Il Professore, astuto, capisce immediatamente la mossa. Preferirebbe un assistente meno ingombrante ma accetta. Non solo, ci mette appena due settimane a trasformare l'imposizione in risorsa, capendo che Onofri è il socio migliore che possa avere. Lo capisce, lo dice e lo spiega ai giocatori: nelle sue intensissime sedute di allenamento mette sempre qualche pausa per far riposare le gambe e lavorare le teste. Quando si riprende, la sua frase è sempre più o meno la stessa: vuole massimo sacrificio, massima attenzione e massima lealtà: l'esempio è Claudio Onofri, da nemico ad amico in quindici giorni.
Il Professore era un fissato, nel calcio come nella vita: un uomo che aveva bisogno dell’individuo per assurgere al sistema. Cura l'allenamento nei minimi dettagli ma non segue la partitella. Organizza trasferte e ritiri in ogni particolare, ma viaggia sempre da solo e si isola in camera, leggendo libri antichi e scrivendo cose nuovissime. Scrive tantissimo, è capace di passare un'intera mattinata chiuso in camera, ad appuntarsi tutte le possibili domande e le conseguenti risposte per una conferenza stampa del pomeriggio. Definisce l'alimentazione dei suoi atleti in modo maniacale, imponendo le patate solo ed esclusivamente con la buccia e i suoi celeberrimi minestroni post-partita, però molto raramente mangia con la squadra o con la dirigenza.
Ma non è un dittatore: per lui il calciatore, fuori dal campo, può fare quello che vuole. Persino nello spogliatoio, tanto che Mino Francioso (l'autore del gol partita nel derby di Genova più catartico al quale mi sia capitato di assistere dal vivo) rivela che non aveva mai visto un allenatore concedere ai suoi giocatori l'utilizzo delle cuffie per ascoltare musica. E parliamo di quindici anni fa. Attenzione: non briglie sciolte, perché quelle portano all'anarchia, solo una concentrazione ferrea da riservare a quello che considera il suo luogo ameno: il campo da calcio.

Sul campo la sua fissazione passa anche per i numeri che formano tabelle e costruzioni, ma senza farli rimanere cosa arida, accompagnandoli con fede e applicazione umana, perché per lui il calcio è fatto per il 47% di tecnica, per il 30% di condizione fisica e per il 23% di psicologia. Nel suo calcio, l'allenamento è la base: la seduta va spiegata, sviluppata e ripetuta finché non viene assimilata. Ha idee lontane da un calcio pratico, forse perché non ha mai giocato ma ha sempre teorizzato. Però è talmente intelligente da percepire determinati segnali e metterli in pratica.
La sua fase difensiva si basa sull'attaccare la palla: lo ha imparato in Unione Sovietica dal Colonnello Lobanowski, durante uno stage estivo organizzato alla fine degli anni ‘80. Scoglio vuole un pressing continuo ma non allineato all'insegnamento di Sacchi: non vuole che si pressi l'uomo, bisogna pressare la palla per toglierla e riprenderla. E se il pressatore viene dribblato, si scala in verticale. Concetto inaudito, avanguardia pura, che porta a un sistema definibile “dei rombi”: tre in difesa (a uomo) con il libero e il mediano a formare il primo quadrilatero con i due marcatori, mediano che è anche il vertice basso del centrocampo. Un “proto 3-4-3”, che in fase offensiva ha un altro dogma: il sopra-palla. Il concetto è questo: vuole che la palla sia giocata dritta e che il passaggio sia seguito da un'immediata sovrapposizione del passatore, per creare superiorità numerica. Sempre, comunque e dovunque. A costo di rischiare di dover mandare Nappi o Fontolan a crossare dalla Gradinata.
Scoglio ha un carisma magnetico e riesce a rendersi credibile dai calciatori nonostante le stranezze, come provare gli schemi nella hall dell'albergo o fare riscaldamento per le scale. Così si fa amare, portando al Genoa e a tutti quelli che sono gravitati attorno al mondo rossoblù nei suoi anni un calcio fatto sulla terra più dura, ma costruito con la materia dei sogni.
Sogni infranti
Scoglio conoscerà due facce dell'Africa Maghrebina: Tunisia e Libia. A casa Gheddafi rimane solo qualche mese, nel 2002 appena prima della sua ultima, e tardiva, esperienza su una panchina della Serie A, alla guida di un Napoli moribondo. A Tripoli resiste poco, giusto il tempo di costruire un rapporto con il Colonnello e di far capire a tutti che nella sua squadra non avrebbe mai trovato posto il figlio Al-Saadi, che però era allo stesso tempo il presidente federale, e di conseguenza gli diede il benservito.
Le cose più importanti le fa per e con i discendenti di Cartagine. Li resuscita facendo il contrario di ciò che fece Annibale: si disinteressa del nord per puntare alla conquista del sud.
Si qualifica alla Coppa d’Africa e raggiunge le semifinali dopo aver eliminato niente di meno che l’Egitto. Lo fa fedele ai suoi dettami tattici, senza snaturarli ma adattandoli: pressing, zona sporca, contropiede e palle inattive. La teoria tra il serio e il faceto dei famosi ventuno modi di battere un calcio d'angolo. Non arrivano riconoscimenti empirici, però France Football elegge la Tunisia migliore squadra africana del 1999. Di fatto li guida fino alla qualificazione per Corea e Giappone 2002, anche se al Mondiale il Professore non ci andrà mai.
Il motivo per una rinuncia di tale portata non può essere che uno: il Genoa chiama, rischia di finire in serie C e sta giocando malissimo. Scoglio per il Genoa è disposto a rinunciare al lauto ingaggio e a un mondiale sicuro. Torna e salva la squadra. E all’ombra della Lanterna torna ad echeggiare il motto: «Da uno scoglio di Quarto è nata l’Italia, da uno Scoglio di Lipari è rinato il Genoa». Per il Genoa si è autoinferto la seconda grande ferita della sua carriera, la rinuncia a un campionato del mondo che lo avrebbe definitivamente consacrato.
Una rinuncia comunque non totale, perché il viaggio dalla Tunisia a Genova non lo ha fatto da solo. Ha portato con sé un’altra novità assoluta, ovvero i primi giocatori tunisini nella storia dei campionati professionistici italiani. Cinque in tutto. Il portiere El Ouaer, che qualcuno ricorda solo per una vaga somiglianza con George Clooney.. Il centrale Badra, tanto grezzo all’apparenza quanto precursore nel ruolo di perno difensivo votato all’offensiva. Poi Bouzaiene, Gabsi e Mhadhebi, centrocampisti plasmati per essere il perfetto rombo centrale ma frenati dalle difficoltà di adattamento alla fisicità e al tatticismo del calcio italiano.
Sono scelte non dettate dall’esotismo, quanto per portare con sé una sorta di rappresentanza dei suoi adorati “ragazzi del mare”, quelli che aveva spinto più in là dei propri limiti. In loro vedeva esattamente, come ha rimarcato in alcune interviste, quel che osservava, nei tardi pomeriggi di Tunisi, guardando le spiagge brulicare di bambini intenti a rincorrere un pallone: l’innocenza del gioco di un ragazzino. E forse, di riflesso, anche la sua adolescenza, trascorsa in compagnia delle elucubrazioni di una mente complessa, e inevitabilmente tormentata, che gli impedivano di vedere la semplicità nel calcio, che lo soffocavano in sovrastrutture.
A undici anni dalla scomparsa, del Professore continua a rimanerci l’idea di un’eresia, quella di un uomo che ha piegato il calcio alle sue emozioni e non viceversa, sfogando le tribolazioni di un’anima perennemente in pena e in costante ricerca di riscatto. Che ha anche vinto qualcosa, certo, ma che soprattutto e in definitiva è riuscito ad attirare su di sé attenzioni enormi in un contesto del quale, da calciatore, non aveva frequentato i livelli più alti.
In fin dei conti forse è questa la miglior soddisfazione che si è tolto: risolversi in una contraddizione perenne.