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Il rispetto del tempo
03 mar 2016
Intervista a Giovanni De Carolis, nuovo campione del mondo dei supermedi WBA.
(articolo)
13 min
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Prima di tutto il tempo

La cosa più bella che ti insegnano quando entri in una palestra di pugilato per la prima volta è avere rispetto del tempo. Tutto quello che succede sopra e intorno al ring è scandito da un ritmo preciso, sempre lo stesso, sempre uguale dall’inizio alla fine: tre minuti di lavoro e un minuto di riposo.

Col tempo il corpo impara a stare comodo dentro quella cadenza innaturale, impara a sentirla come qualcosa di perfetto. La durata del tuo round e il tuo minuto di riposo, cercando di ricavare il massimo da entrambe le situazioni: solo questo puoi gestire. Tre minuti, un minuto.

Alla fine di questa intervista, quando prima di andarmene dalla palestra della Montagnola chiederò a Giovanni de Carolis, con una voce mezza imbarazzata a causa della domanda molto personale che sto per fargli, «Solo un’ultima domanda, Giovanni. C’è qualcosa che ti fa paura?» lui con una naturalezza impassibile e gli occhi aperti, buoni, dirà «Il tempo, prima di tutto il tempo».

Giovanni de Carolis è il nuovo campione dei supermedi WBA, dopo aver combattuto per la seconda volta contro il ventenne Vincent Feigenbutz. Ma la storia di come si arriva a quel match in Germania è lunga e decido di farmela raccontare un lunedì di metà febbraio, nel posto dove tutto è cominciato: la Team Boxe Roma, una palestra popolare ricavata da un prefabbricato abbandonato nel quartiere periferico della Montagnola. Anche se conosco le palestre popolari di pugilato non so bene cosa aspettarmi, ognuna è un mondo a sé, che cambia col passare del tempo, che prende in prestito lo spirito dalle persone che la frequentano. Quando entro i due allenatori, Italo e Luigi, me lo indicano e mi fanno cenno di aspettare: Giovanni è ancora impegnato col suo preparatore atletico. Tutt’intorno una ventina di ragazzi del turno degli agonisti, per lo più giovanissimi, si allenano alle ripetute o alla corda. Un altro pugile professionista, Damiano Falcinelli, “nove incontri nove vittorie” mi dicono i ragazzi lì intorno, è alle figure.

Quello che sta facendo de Carolis è un esercizio strano, il preparatore gli indica repentinamente delle direzioni e lui con degli spostamenti brevissimi deve raggiungerle. «Serve a fare in modo di mantenere un battito cardiaco basso nonostante sia un lavoro ad alta intensità», mi spiegherà poi mentre prendiamo un tè al limone della macchinetta, fuori dalla palestra, lui con lo zucchero, io senza. Parliamo davanti all’ingresso della palestra, in piedi, interrotti in continuazione dai ragazzi che entrando si fermano a salutarlo.

Giovanni de Carolis, classe ’84 è nato alla periferia di Roma sud, a Fonte Meravigliosa, a pochi metri dall’Eur del Colosseo Quadrato e del Palazzo dei Congressi. «Ho iniziato la boxe a sedici anni, per caso. Successe l’anno in cui giocavo ancora a calcio con l’Almas Roma, quando passai in prima squadra come fuori quota. Giocavo in difesa. Durante un contrasto, il ragazzo che avevo davanti mi buttò a terra e allora capii che era necessario che mi irrobustissi».

Quello che mi sembra chiaro subito è che la vita di De Carolis sia scandita dalla calendarizzazione progressiva delle sue prese di coscienza. Come in un racconto di Auslander, a un certo punto l’autocoscienza cade sulla testa di chi è pronto a cambiare tutto quello che credeva di conoscere di se stesso. «Dalla sala pesi della palestra che avevo iniziato a frequentare intravedevo il ring. Quella volta c’erano due ragazzi che combattevano. Uno, molto piccolo, stava avendo ragione su un altro pugile, molto più grosso di lui. Allora ho pensato che non era necessario diventare grosso, se poi non avrei saputo come difendermi. È così che ho iniziato, con quel ragazzo lì. Ho dovuto aspettare diciotto anni, perché mia madre non voleva farmi combattere».

L’allenamento, solo quello

A guardarlo oggi, calmo, sorridente, perfettamente in sintonia con l’ambiente che lo circonda non lo diresti che è uno che nella vita ha dovuto riflettere più volte sul suo senso di inadeguatezza. Eppure l’approccio di De Carolis con la boxe vera all’inizio è freddo, a diciotto anni fa il suo primo match da dilettante e lo perde. La paura di salire sul ring, la paura di subire i pugni che aveva all’inizio gli resta appiccicata addosso. «Sono sempre stato molto insicuro di me, anche a scuola, al liceo scientifico, stavo molto per conto mio, in disparte. Non ho mai nemmeno avuto storiacce da raccontare. Non ho fatto la boxe per sfogarmi, per qualche storia di riscatto sociale. A me interessava l’allenamento, solo quello».

Ho sempre ammirato delle persone la capacità di narrare di se stessi il corpo, descrivere quello che succede a livello fisico con onestà e chiarezza e Giovanni è una di queste. Sembra perfettamente in contatto con i suoi stati umorali e, solo a volte, in qualche breve lampo di incertezza che ti sembra di percepire in una specie di balbettio timido, ti viene il dubbio che quella che ascolti sia una storia, una narrazione del sé che funziona soprattutto per lui, che è stata provata e riprovata.

«Quel match mi aveva deluso. Le emozioni che avevo provato subito dopo non erano state quelle che mi aspettavo. Come se non avessi ancora capito che cosa fosse la boxe e che cosa ci stessi facendo io lì sopra». I primi mesi sono difficili, il match perso lo destabilizza. Continua a giocare a pallone, riceve anche un piccolo stipendio. Di sera fa il cameriere nel ristorante del proprietario della squadra.

Quando apre la palestra popolare della Montagnola avviene l’incontro che cambierà le sorti della vita di De Carolis, Italo lo prende sotto la sua ala. Lo allena di nuovo, da capo, lo tranquillizza psicologicamente. A novembre di quell’anno ritorna sul ring. Vince per KO al primo round. «Ci ho messo dieci o dodici match per acquistare la sicurezza che cercavo. Continuavo a essere molto insicuro, non trovavo la chiave di volta che mi permettesse di guidare l’incontro. Ho capito molto tardi di avere la possibilità di andare avanti, di fare carriera. Conta che poi andava di moda la boxe delle macchinette, toccare i colpi dell’avversario, eccetera. Io sono sempre stato di sostanza, anche perché sapevo di aver cominciato tardi a combattere e non potevo vantare una tecnica sopraffina. La mettevo sulla fisicità, sulla precisione dei colpi».

Se all’inizio aveva perso tempo ritardando l’ingresso nella boxe agonistica, ora decide di accelerare. Diventa professionista a 23 anni, con soli 29 match da dilettanti e una frattura alla mano. Quello sarà anche l’anno in cui comincerà a convivere con Veronica, che chiama mia moglie anche se non si sono mai sposati, e che lo aiuterà a preparare gli incontri futuri.

Il primo grande match è alle porte. Fuori casa, in Ucraina.

«Mi chiamano quindici giorni prima per combattere da peso medio, a 72 chili, contro Maxim Bursak, quello che sarebbe diventato il numero uno del pugilato in Ucraina. Io facevo fatica ad arrivare a 75, e non conoscevo niente del pugilato fuori. Dicevano che mi avrebbero dato 5000 euro e conta che io avevo lasciato il lavoro da cameriere perché facevo troppo tardi la sera e allora mi ero messo a lavorare in uno smòrzo, dalle 7 alle 4 dal pomeriggio, per 900 euro. 5000 euro volevano dire 5 mesi di stipendio. Non ci pensai due volte».

Ma Giovanni non è preparato per quell’incontro. Gli avevano detto che Bursak era un pugile che boxava, che avrebbe potuto giocarsela. Il suo è il match clou dell’evento.

«Al primo cazzotto che ho preso ho capito che quello che avevo di fronte era un uomo esperto. Non ero mai uscito tanto male da un match. Non perdevo da due anni, due anni di allenamenti perfetti. Fu un’esperienza molto forte, a livello psicologico fu devastante, una legnata».

Gli highlights del match perso contro Bursak nel 2008.

Il controllo di sé e la qualità

Questo è il secondo grande momento risolutivo. L’onestà verso se stessi porta di solito a due strade molto differenti fra loro, in una De Carolis smette con la boxe a grandi livelli, si rifugia nella palestra che intanto ha aperto a Monterosi e vive una dignitosa vita piena di rimpianti, come quella di tutti, coltivando l’estetismo della sconfitta e dell’autosabotaggio. Nell’altra, in un moto irrazionale di rivalsa su se stesso inizia ad allenarsi sul serio. In Dragon Ball questa sarebbe la parte in cui Goku si allena nella camera dello Spirito e del Tempo, e Vegeta nella sfera di gravità di Bulma, le mie parti preferite, dove le possibilità vengono messe al loro posto e dove ogni fibra del corpo si tende verso un solo obiettivo. A me non è mai successo.

«È stato dopo quell’incontro che ho capito che fino a quel momento avevo solo giocato. Che la preparazione atletica non era all’altezza, che la preparazione tecnica non era all’altezza, che la preparazione mentale non era all’altezza e che, in una parola, io non ero all’altezza».

Allora Giovanni riprende i libri, ricomincia tutta la preparazione atletica da solo. Comincia a girare le palestre di Roma, arriva a guadagnare 1400 euro al mese lavorando poche ore a settimana. Il resto del tempo lo dedica all’allenamento di se stesso. Ma sa che non può arrivare ai livelli che gli competono senza qualcuno che abbia studiato davvero la materia. «Ho letto un sacco di libri. Macro ciclo, micro ciclo, L’allenamento ottimale di Weineck, ma non bastava». Incontra Antonello Regina, il suo attuale preparatore, ma non smette mai la preparazione tecnica con Italo e Gigi, che iniziano a lavorare insieme per prepararlo.

«Sono scientificamente controllato da me stesso, metto il cardiofrequenzimetro la mattina per sapere quali sono i miei standard, la mia variabilità cardiaca, a seconda del match che devo preparare. Ma non è il dato scientifico, è la consapevolezza. Se salto quaranta centimetri, e salto cento volte a trentacinque, è inutile. Devi allenare la qualità. Il pugilato vuole che tu esprima potenze alte a frequenze cardiache alte. Per dodici volte a settimana».

Solo perché ti piace

«Nei momenti difficili hai solo bisogno di qualcuno che ti voglia bene, di qualcuno che ti protegga. Devi essere concentrato e abituato ad avere i paraocchi, lo fai perché ti piace, non lo fai perché devi. Ci rapportiamo spesso con quello che pensa la gente di noi, e l’espressione sul ring è il massimo esempio, perché tu sei lì sopra, combatti e la gente ti guarda e giudica. Ma va bene, fa parte dello spettacolo, una volta che scegli di volerci stare non puoi meravigliarti del contrario. Come succede a un calciatore che sbaglia un rigore in finale. Non puoi sottrarti a quel tipo di giudizio dettato dal flusso. Come Maywheater».

È lui che lo tira fuori per primo, e quando gli chiedo di motivare il suo giudizio su di lui dice una cosa che mi spiazza. «Io penso che lui sia un uomo molto forte e uno che non si cura del giudizio delle persone. È un grande tattico, un grande conoscitore dell’allenamento e del pugilato. Non dà spettacolo ma fa apparire semplice cose che semplici non sono. Il pubblico vuole vedere botte e sangue ma guarda i suoi spostamenti! Lui ha annullato qualsiasi picchiatore che si è trovato davanti, facendo soltanto dei movimenti. Come pugile ha tutta la mia stima e il mio rispetto».

Negli anni, De Carolis si costruisce una carriera di tutto rispetto, con 23 incontri disputati con 11 KO. Gira tutta l’Europa e vanta anche qualche colpo illustre, come quello rifilato ai danni di David Haye. Costruisce la sua carriera e il suo stile sulla precisione, sulla prestanza fisica, basando tutto sui dettagli. Fino a che non decide che è arrivato il momento di puntare a un titolo mondiale.

Feigenbutz, uno e due

Arriva finalmente il momento dell’incontro fra i due. De Carolis sfida il tedesco per la cintura WBA ad interim dei supermedi. È il 17 ottobre del 2015, il match si svolgerà alla DM Arena di Karlsruhe, città natale del pugile tedesco. Feigenbutz “Iron Junior” è giovane, destinato a una grande carriera, ma soprattutto è potente. Ha dalla sua parte la sbruffonaggine che gli consente l’età, De Carolis ha qualche incontro in più alle spalle e cinque centimetri di altezza e dieci anni di età.

Il primo incontro con Feigenbutz.

De Carolis parte sfavorito, ma il primo round è il suo: Feingebutz viene messo subito a terra. Subisce nei round successivi il ritorno dell’avversario, che non riuscirà mai a stenderlo ma che alla fine vincerà ai punti: 115 – 113. La stampa tedesca e gli addetti riconoscono il valore e il grande match disputato dall’italiano e il divario di soli due punti gli consentono una rivincita, sempre in Germania, il 9 gennaio.

«Non ho mai pensato “adesso vado su, spacco tutto e vinco”. Io ho preparato il match perfettamente, su tutto quello che potevo sbagliare, sono salito sul ring con questa consapevolezza. Mi aspettavo da lui una sorpresa, dati i soldi e la professionalità. Io mi ero fatto un piano A un piano B e un piano C. Mentalmente e tatticamente ero perfetto. Avevo i comandi perfetti, gli automatismi. Infatti durante la seconda ripresa gli allenatori mi dicono di aumentare un po’ ma io faccio cenno di aspettare, perché non mi fido, mi aspetto qualcosa da lui. Ma al terzo round mi sono accorto che lui non aveva un piano B, in realtà non aveva neanche un piano A. Voleva soltanto menare. Ma non pensavo al dopo, non è come nei lavori di visualizzazione e di training autogeno dove ti concentri sulla vittoria, io avevo solo la certezza della mia preparazione. Diventi lucido e concentrato al punto giusto, né cattivo né dormiente. Vivi il momento».

Il match stavolta non ha storia, De Carolis stende il pugile avversario alle corde con un’incredibile serie di colpi. L’arbitro sospende il match. De Carolis è il primo italiano a vincere un titolo mondiale dopo sette anni, dopo Fregomeni. «È il lavoro di tutta una vita» dirà a caldo dopo l’incontro.

Gli ultimi minuti contro Vince Feigenbutz.

Il futuro

Parliamo della difesa del titolo, de Carolis ha dichiarato più volte che non lo spaventerebbe un terzo incontro con il tedesco: "It's no problem, I am a fighter, I fight” ha detto ai microfoni di SkySport. Ma ci sono altri pugili che potrebbero insediare il suo titolo.

«In Germania non gli è andata giù, cercheranno di rifarsi sicuramente. E di nuovo io dovrò andare lì». Gli chiedo se è impossibile una grande serata di boxe a Roma ma è sconfortato «non c’è una tutela. E tutelarlo non vuol dire per forza combattere in Italia per mantenerlo, ma si tratta di usare la forza del titolo mondiale per veicolare un messaggio. Io devo fare sempre un’impresa per andare fuori a vincere, anche se vado fuori da campione. Le istituzioni dovrebbero, insieme a un organizzatore forte, considerare quello che è successo come un patrimonio. Si può fare, basta la volontà e l’impegno. In Germania c’è un business assurdo. Dì spettatori lì ce ne sono dieci milioni, incollati alla televisione, noi ne facciamo 290.000, capisci la differenza? Serve qualcuno che abbia la capacità di investire, di creare attesa. Senza contare il pubblico agli incontri, gli sponsor. Noi pugili siamo solo un prodotto e il materiale in Italia c’è, abbiamo pugili migliori dei tedeschi, ho visto diciottenni diventare professionisti senza aver disputato nemmeno un incontro da dilettante, cioè solo con un anno di palestra e in Germania diventano dei simboli. La boxe deve ritornare dentro la vita televisiva italiana, nei palinsesti quotidiani, nelle seconde serate. Crei dei personaggi, in questo modo riavvicini i ragazzi allo sport, educhi il pubblico a questo stile, che non si educa con lo spettacolo, ma con il quotidiano, l’educazione viene costruita. Solo così torneremo a essere quello che è ora la Germania, quello che trent’anni fa eravamo noi».

Mentre ci salutiamo mi parla della moglie e dei figli, sorride e allarga gli occhi di nuovo. Mi rendo conto che non c’è veramente altro oltre la boxe e la famiglia. E forse è anche per questo che mi risponde alla domanda sulla paura in quel modo, è fermo in questo il senso del tempo che non ti lascia spazio per fare tutto quello che devi, tutto quello che puoi.

Quando torno a casa mi infilo le cuffiette per risentire l’intervista, e solo in quel momento mi accorgo che anche la nostra conversazione è stata dettata involontariamente dal suono della campana del ring, solo che il registratore l’ha colta, le nostre orecchie invece non ci fanno più caso.

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