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Il sovrannaturale finale di stagione di Cristiano
09 giu 2017
Come la leggenda di CR7 è entrata in una nuova fase.
(articolo)
12 min
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Prima che segnasse una tripletta, contro il Bayern Monaco, per più di un’ora di gioco, lo stadio Santiago Bernabeu ha fischiato Cristiano Ronaldo, pochi giorni dopo la sua doppietta decisiva a Monaco di Baviera. Sessanta minuti di primi controlli e dribbling velleitari, di passaggi forzati, tiri pretenziosi e cross sbagliati. In quel momento sembrava che nonostante l’insieme dei trofei conquistati negli ultimi anni, Cristiano non avesse acquisito uno statuto speciale per i suoi tifosi: gli veniva riservato il trattamento delle tante stelle della squadra, perché come da tradizione a Madrid, neanche alle stelle si risparmia la minima critica.

Il Bayern era in vantaggio nella partita di ritorno valida per il passaggio in semifinale di Champions League, il Madrid era vicino a un’eliminazione che sarebbe stata scandalosa (specie dopo la vittoria 1-2 in Germania) e in più i tifosi spagnoli avevano ancora in testa il derby di una settimana prima, quando il Madrid ha subìto il gol del pareggio nei minuti finali e a prendere le copertine è stato Antoine Griezmann. In quel momento non solo la squadra era sotto nel punteggio, in casa, ma il suo giocatore più forte vagava per il campo senza troppe idee di cosa fare per cambiare la situazione, come si immagina che i grandi giocatori siano sempre in grado di fare.

A Cristiano, in effetti, basta un gol per cambiare tutto, quello del pareggio di testa dopo uno smarcamento in area preciso. Tutto il Bernabeu si alza in piedi, lui corre verso la bandierina e con gesti misurati zittisce lo stadio, indica il campo (la sua presenza in campo) e invita alla calma. Per finire, il classico salto con giro a 180 gradi e grido, provato e riprovato in allenamento.

Tutto quel che accade dopo pare naturale: la sua grandezza entra nella testa degli avversari e diventa un fantasma gigantesco di ansia e paura, Cristiano è in campo e sai che segnerà, la sua è una profezia auto-avverante.

Ronaldo realizzerà una tripletta e gli ultimi due gol saranno decisivi per mandare il Real Madrid in semifinale: nel secondo riceve un cross in mezzo all’area, dopo che Alaba ha lasciato la marcatura per metterlo in fuorigioco (e in questo contesto poca importano le polemiche sull’arbitraggio, e la miriade di altri colpi fortunati/sfortunati che hanno condito la partita), stoppa di petto e calcia di sinistro; nel terzo gol della serata invece riceve un passaggio di Marcelo, arrivato a tu per tu con Neuer, che gli serve a pochi metri dalla porta sguarnita un pallone con su scritto “spingere dentro”. Nessuno, tra i presenti al Bernabeu, si sognerebbe di fischiarlo, adesso. Al tempo stesso, serate di questo tipo con Cristiano Ronaldo accadono talmente tante volte che ormai non ci stupiamo neanche.

Premere l’interruttore

In un certo senso i fischi dei tifosi dei tifosi del Madrid non erano rivolti al Cristiano onnipotente che abbiamo oggi negli occhi, ma a quello più vulnerabile che si era visto per tutta la stagione, che non corrispondeva in niente alla proiezione del loro concetto di Cristiano Ronaldo, né al concetto che lo stesso Cristiano ha di se stesso.

Seguire la sua crescita nel corso degli anni è stata un’esperienza di trionfo, un personaggio mitologico che compie il proprio destino eroico in diretta, la cui presenza è diventata sinonimo di dominio, più che di vittoria, manifestazione carnale del concetto di superiorità. I fischi durante la partita con il Bayern, allora, rispecchiavano la delusione e lo stupore. In quel momento della stagione 2016/17 al tifoso del Real Madrid mancava la sensazione del solito dominio.

Ma è un discorso che si affianca a quello del mutamento calcistico di Cristiano Ronaldo, che da qualche tempo si concentra solo in un aspetto del gioco non così unico, in cui anche altri calciatori più normali riescono. Cristiano, ormai, di mestiere fa il finalizzatore di una squadra di alto livello. La differenza, è che Cristiano riesce ad eccellere, anche in questo singolo aspetto, con una tale frequenza - così più spesso degli altri, e quasi sempre nei contesti più importanti - che alla fine sposta il discorso su un ordine di grandezza solo suo.

Ma quella di Cristiano Ronaldo è una grandezza che si manifesta solo nell’atto compiuto del gol. Non rispecchia (più) la completa padronanza tecnica e atletica del gioco dei grandissimi giocatori, quel senso di superiorità così esteso che entra sotto la pelle degli spettatori. Non che sia un problema per Cristiano. Anzi, lui stesso ha rinunciato a essere una presenza costante nella partita della sua squadra: questo è il Real Madrid dei centrocampisti più forti del mondo e lui è felice di raccoglierne i frutti.

Cristiano tira tanto, tira spesso male, ma segna. È ovviamente il tiratore più seriale del calcio europeo. E quando questa forma di cannibalismo va male porta ai fischi, ma quando le cose vanno bene allora diventa un inno alla volontà di potenza.

Quando le cose vanno male riesce a frustrare anche Luka Modric.

Quando le cose vanno bene fa sembrare gli avversari meri personaggi di contorno nel suo trionfo.

Le cose, per Cristiano, hanno cominciato a migliorare proprio dalla giornata del Clásico di ritorno, quando la sua nemesi aveva coronato con un’esultanza iconica la sua miglior prestazione stagionale. Era il 23 aprile, il week end successivo alla partita con il Bayern di Monaco vinta 4-2 nei supplementari. La stagione stava entrando in quel momento in cui si inizia a raccogliere quanto seminato, e da quel brutto Clásico (perso 2-3 in casa) in poi, Cristiano ha cominciato la sua risalita.

Innanzitutto, il gol a Valencia. Poi la seconda tripletta consecutiva in Champions League, all’andata contro l’Atlético Madrid: tre gol diversi tra loro, ma accomunati da una certa aura magica, quella di un giocatore che riesce ad andare oltre ogni contesto, anche quello di una delle migliori difese al mondo. Basta un cross in area e dopo 10 minuti è già gol, poi sul secondo basta un rimpallo sul passaggio di Benzema che lo mette in condizione di tirare di collo pieno e sfondare la porta; infine, il suo iconico movimento a tagliare in area, così intelligente e preciso da portarlo a ricevere senza nessuno attorno per chiudere la qualificazione.

Se si esclude il ritorno con l’Atlético Madrid, in cui Benzema disegna un Matisse sulla linea di fondo per portare al gol che cambia la partita, Cristiano ha segnato solo gol pesanti in ognuna delle partite giocate da fine aprile alla finale di Champions League, del 3 giugno.

I suoi gol hanno scandito con una regolarità irreale la cavalcata finale del Real Madrid 2016/17.

Scendere a patti col tempo

Dopo aver alzato la Champions League, Cristiano Ronaldo si è rivolto ai critici con un certo gusto. La sua rivincita è cominciata mentre il Bernabeu mugugnava per le sue prestazioni, ma in realtà è da tempo che Cristiano sente il peso dei suoi anni e se il suo fisico è ancora scultoreo è comunque evidente una perdita di elasticità e di resistenza.

Cristiano è stato messo di fronte alla più difficile scelta che un atleta professionista deve affrontare: accettare il proprio declino fisico e adattare il proprio gioco ad esso, oppure ostinarsi a provare ad essere quello che non si è più.

Nei mesi passati questa decisione sembrava troppo grande per Cristiano: per lui era fondamentale comunicare un’immagine legata alla superiorità fisica e tecnica. Ha provato a lungo a fare le stesse cose di sempre, con risultati a volte nocivi per la squadra, altre volte semplicemente ininfluenti. Lentamente stava erodendo la sua importanza nelle gerarchie: il Madrid di Zidane vince grazie al dominio tecnico e mentale dei piccoli momenti della gara. Spesso i gol di Cristiano sono stati la ciliegina sulla torta del dominio di squadra, non la ragione di essere della stessa. Questo, fino all’arrivo del momento decisivo della stagione, quello in cui qualcosa è cambiato.

Non sappiamo con quali parole e in quanto tempo Zidane sia riuscito a convincere Cristiano di qualcosa che prima di lui nessun allenatore era riuscito a fare: lo ha convinto a pesare i gol e, quindi, a fidarsi dei compagni di squadra. Lasciare a loro le partite non decisive e far giocare a lui solo quelle importanti. Oppure avere pazienza ed entrare nei momenti importanti delle partite decisive.

Sembra una banalità ma per Cristiano è stata un’epifania: «Siamo stati intelligenti, mi sono riposato per quelle partite dove si decidono i titoli». Un’evoluzione che ha richiesto un ripensamento del proprio posto all’interno di un organismo collettivo: passare da essere il trascinatore della squadra, a integrarsi come parte di un insieme.

Delle ultime sei trasferte in Liga, con il titolo ancora da decidere, Cristiano ha partecipato solo alle ultime due contro Celta e Málaga (segnando tre gol, tra cui quello che ha deciso il titolo). Comprendendo la trasferta a Monaco di Baviera, solo tre volte da inizio aprile Cristiano ha lasciato Madrid. Non è andato neanche in panchina, è potuto rimanere a casa a guardarsi la partita, staccando completamente la spina per concentrare tutte le forze quando chiamato in causa nel rush finale. Una scelta che ha portato all’esplosione finale di gol pesanti: 16 reti in 10 partite. Di cui 10 nelle ultime 5 partite della Champions League, una cosa semplicemente mai vista.

Nel complesso è stata la sua peggiore stagione dal punto di vista realizzativo negli ultimi 7 anni: 42 gol (contro in ordine: 53, 60, 55, 51, 61, 51), ma è quella dove la qualità ha pesato più della quantità.

Questo gol, in cui si muove nello spazio per raccogliere il filtrante di Isco e arrivare all’uno contro uno col portiere, è quello che ha assegnato il titolo in Liga.

Invece di lottare contro i mulini a vento, contro un fisico che non può più eseguire gli ordini del suo cervello, non più come prima almeno, Cristiano ha accettato di farsi parte di qualcosa di più grande di lui.

Questo, oltre ad alleggerirlo psicologicamente e atleticamente, ha permesso a Zidane di cucirgli addosso una veste più utile per sfruttare le caratteristiche dove Cristiano ancora domina incontrastato: la lettura della situazione in area di rigore, la tecnica di calcio, la tecnica nel colpo di testa, la determinazione.

Giocando in una coppia di attaccanti, Cristiano ha anche limato il numero di conclusioni inutili: per la prima volta in carriera ha meno di 2 conclusioni da fuori area per 90 minuti. Ma soprattutto, cosa che conta più di tutte, ora corre di meno e corre meglio.

Partendo già alto, e già centrale, non deve più spendersi in quegli scatti con cui prima raggiungeva il cono di luce della porta partendo da sinistra. Adesso può concentrarsi nella ricerca dello spazio: sia in verticale oltre la difesa che verso l’esterno per allargarne le maglie. E non sono movimenti continui, si concede lunghe pause nella partita in cui si limita a liberarsi in area dai centrali difensivi.

Così ha segnato contro Bayern, Atlético e Juventus in Champions League. Il cross (alto o basso che sia) verso la fascia centrale dell’area di rigore per il Madrid è diventato quasi una sicurezza di gol.

La leggenda continua a crescere

L’adattamento di Cristiano Ronaldo non è banale e va letto come l’ulteriore segno della grandezza di questo giocatore. Ma è anche merito del contesto che gli ha creato intorno Zidane. Il suo ruolo di riferimento offensivo tra le linee è ora svolto magistralmente da Isco, Benzema non si muove più solo per liberargli l’area ma aiuta tutta la squadra. Cristiano può giocare una partita più intelligente, concentrandosi sui due principali pattern di movimenti: attaccare la profondità e farsi trovare pronto e libero sul lato debole.

Su tutte le prestazioni decisive di Cristiano col suo nuovo abito tattico cucitogli su misura da Zidane, spicca la finale di Cardiff, il suo capolavoro. Contro la Juventus si è dimostrato totalmente integrato nel sistema e non ha forzato nulla: ha aspettato paziente il suo momento con intelligenza e freddezza.

I suoi gol, quelli che hanno svoltato la gara, racchiudono il suo nuovo stile di gioco. Il primo è il più significativo: partendo centralmente si è allargato per controllare a distanza la forma della linea difensiva avversaria, costretta a seguirlo; poi ha atteso sul lato debole che gli arrivasse la palla. Una volta ricevuto il passaggio, non ha forzato la giocata nonostante il possibile 1 contro 1 con Alex Sandro. Ha passato il pallone con i tempi giusti a Carvajal, accentrandosi per ricevere la chiusura del triangolo in area, con la difesa in movimento.

Colpire di prima per continuare a giocare senza far schierare la difesa è quello che ha portato alla deviazione fortunata di Bonucci.

Un uomo in totale controllo della situazione che domina la difesa più forte d’Europa nella notte più importante.

Zidane ha scommesso su questo Cristiano Ronaldo perché aveva la possibilità di farlo. Cristiano ha scommesso su una versione più zen di se stesso perché era l’unica cosa che poteva fare. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti: «Penso che le persone non hanno parole per criticarmi perché i numeri non mentono».

Nel loro percorso verso un’idea di grandezza sempre più astratta da ogni realtà esterna alla loro competizione, Leo Messi e Cristiano Ronaldo sono stati necessari l’un l’altro per migliorarsi. Proprio nel momento in cui uno umilia il Bernabeu, l’altro si prepara a tornare ancora più forte per ristabilire quello che ha sempre considerato l’ordine naturale delle cose.

Cristiano è puro agonismo, pura competitività, e se questo lato di lui a volte ne fa emergere una sfumatura quasi grottesca, quando si fanno i conti a fine anno lui è sempre lì, a superare un altro record, ad alzare un’altra coppa. Talmente proiettato verso l’infinito da lasciarsi alle spalle anche quelle che sembravano leggende incrollabili della squadra più importante del mondo.

Hugo Sanchez, Butragueño e “la quinta del buitre”; Raúl, Zidane e i “galacticos”, c’è chi comincia a pensare che Cristiano se li sia messi tutti alle spalle, creando un’epica personale ancora più grande e ingombrante, come scritto da Manuel Jabois su El País: «Nessuno è stato tanto decisivo tante volte nel Madrid, è stato tanto grande nelle notti importanti, è stato tanto devastante nelle partite che definiscono cos’è il Madrid e cosa non è».

Prima di lui fu Di Stefano, più di chiunque altro, a definire cosa fa del Madrid una squadra dall’epica inarrivabile, è stato lui a fissare lo standard. Come scritto su Ecos del Balon, per capire il rapporto conflittuale tra il Bernabeu e Cristiano Ronaldo bisogna tornare proprio a Di Stefano: l’archetipo di giocatore con un livello di gioco talmente elevato da portare lo stadio a non accettare niente di meno dell’eccellenza ogni singola volta che tocca palla. Il Bernabeu ha fischiato ora Cristiano come fischiava prima Di Stefano (e lo faceva veramente), pretendendo la perfezione per riconoscerne la grandezza.

Anche senza prospettiva storica, Cristiano Ronaldo va inserito nell’élite della storia del calcio. Non per una somma di valori fisici o tecnici, ma per tutto quello che la sua figura ormai rappresenta. I calciatori arrivati a questo livello in carriera si contano più o meno sulle dita di una mano. La porta d’entrata di Cristiano nella leggenda è stato il suo legame con il gol, ma ci voleva un’altra leggenda per convincerlo del fatto che i gol vanno pesati.

Questo è il vero passo in avanti che Zidane ha fatto fare alla carriera di Cristiano. Quello probabilmente finale. Sicuramente quello che ha cambiato la stagione del Real Madrid.

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