
Dopo la polemica durata un anno per la questione della disomogeneità delle palline denunciata da molti tennisti, Daniil Medvedev su tutti, ora un nuovo spettro sembra aggirarsi nella stagione appena nata, l’omogeneità delle superfici. Indian Wells, il primo Masters 1000 della stagione che sta arrivando alle fase finali, ha un nuovo cemento. James Blake, ex top10 e direttore del torneo, qualche settimana fa ha annunciato che dal Plexipave usato per 25 anni si passa al Laykold, un cambio apparentemente innocuo ma che nasconde una questione più radicale per il tennis in generale. Se il 2024 tennistico è stato l’anno delle palline, il 2025 potrebbe essere quello delle superfici.
Il timing dell’annuncio aveva lasciati un po’ perplessi, con delle dichiarazioni arrivate a margine del torneo, ma in fin dei conti non è così importante. Quello che è importante è il segnale che arriva da uno dei tornei più importanti della stagione, che compone con Miami il Sunshine Double. Il Plexipave, realizzato dalla locale California Sports Surfaces, è una tipologia di cemento caratterizzato da un rimbalzo alto e condizioni di gioco medio-lente. Nel circuito è usato anche nell’ATP 500 di Acapulco, che secondo i dati di Tennis Abstract è leggermente sopra a Indian Wells come velocità della superficie. I nuovi campi sono stati “messi giù” sotto il marchio Laykold, prodotto dall’americana APT, che fornisce i campi in cemento dello US Open e del Miami Open, un cemento con caratteristiche di gioco medio-veloci e con un rimbalzo piuttosto basso.
I campi in cemento di Indian Wells sono sempre stati una melassa rispetto a tutti gli altri del circuito. L'effetto non è soltanto dato del Plexipave, ma anche delle condizioni di gioco; il torneo si svolge nel mezzo della Coachella Valley, in condizioni quasi desertiche, e anche le palline sono state oggetto di contenzioso per quanto riguarda la lentezza del campo, che nel 2023 fu attestata a livelli da terra battuta. Il Laykold sembrava esprimere il desiderio di uniformarsi al resto dei Masters 1000 sul cemento, specialmente Miami che utilizza la stessa Laykold, anche in risposta alle frequenti critiche che vengono mosse a Indian Wells.
Un cambiamento apparentemente insignificante ma che pare nascondere la volontà sempre maggiore di omogeneizzare le velocità del circuito. Ma è davvero così? Esiste un Loro dietro il circuito ATP che manipola in maniera arbitraria le superfici in modo che si assomiglino un po’ tutte?
Di certo si parla di questi temi sempre in mezzo a mille contraddizioni. Da un lato sicuramente il pubblico del tennis, almeno nella sua maggioranza, preferisce scambi più lunghi, favoriti da superfici più lente. Dall’altro Indian Wells proprio per la sua lentezza, teoricamente contraria alla sua superficie, non è stato mai particolarmente apprezzato per le condizioni di gioco, neanche da molti tennisti. Nessuno sembra mai contento.
Da almeno vent’anni di parla di uniformazione delle superfici; almeno da quando Wimbledon decise di cambiare la composizione della sua erba per rallentare, aumentando la resistenza dell'erba. I cementi rallentano, l'erba rallenta, l'erba sembra velocizzarsi. Come rilevato da Jeff Sackmann su Tennis Abstract stiamo assistendo a una convergenza nelle superfici, specialmente dal 2000 in poi. Il discorso, però, è complesso e questa presunta standardizzazione del gioco non è solo l'effetto delle superfici.
L’allungamento degli scambi e la morte contestuale del serve & volley sono la conseguenza naturale dell’affinamento tecnologico di palle, racchette e stili di gioco. Questi fattori pesano più dell'uniformazione delle superfici. A Wimbledon il cambio di sementi può aver accelerato il processo, ma non è solo per l'erba diversa che oggi si scende meno a rete. L’altra faccia di questo paradosso è il tennis su terra battuta, diventato estremamente più rapido rispetto anche solo a un decennio fa. I famigerati "pallettari" non esistono più, almeno ad alti livelli; questo non perché la terra sia diventata più veloce, ma perché con gli stili e i materiali attuali, oggi, una qualsiasi moonball viene trasformata in vincente, e in generale l’eccessiva passività nello scambio non porta a nulla se non a sconfitte. La peculiarità dell'esperienza tennistica resta l'assistere alla varietà e al contrasto di stili di gioco tra tennisti, e tra questi stili e le superfici che ne esaltano di volta in volta pregi e difetti diversi.
Creare una massa di tornei troppo simile, e secondo alcuni commentatori troppo impostata verso il medio-veloce, favorisce troppo la specializzazione e in generale non permette di apprezzare le sottigliezze tattiche farebbero la differenza tra il gestire una velocità e rimbalzo palla completamente diversa. E nonostante tutto il discorso già fatto su Wimbledon “lento” basti pensare al quarto di finale dello scorso anno tra Musetti e Fritz. Un tennista notoriamente da terra battuta come Musetti che neutralizza la velocità di palla superiore dell’americano sballottolandolo per tutti i lati del campo con il back e le sue variazioni di palla, aiutato dal rimbalzo della superficie.
C'è un'altra cosa da dire, ovvero che la velocità dei campi è un fattore molto difficile da determinare in maniera oggettiva. La ATP usa il Court Pace Index, che utilizza una formula che considera i coefficienti di attrito e di restituzione, calcolati sulla mediana della settimana del torneo ATP di riferimento. Il problema è che i campi variano molto di velocità in base alle condizioni meteo. Il cemento all’aperto è più rapido in un giorno soleggiato mentre un campo in terra battuta come quello di Roma, medio-veloce per il rosso, in condizioni serali diventa molto lento. Insomma: queste misurazioni sono sempre corrotte dalle contingenze.
C'è anche il discorso già accennato delle palline, che contribuiscono alla percezione di velocità che esula dalle metriche della ATP. L'insieme di queste variabili fa sì che solo con la sensazione dal campo ci si può rendere conto quanto una palla “lenta” possa rallentare un cemento veloce e viceversa. Tant’è che Daniil Medvedev, uno dei tennisti che si è sempre lamentato per la lentezza di IW, ha detto che la nuova superficie è lenta ugualmente, se non più lenta di prima. Mentre altri, come Aryna Sabalenka e Ben Shelton, hanno detto che è molto più veloce, per Elena Rybakina invece è lenta uguale ma il rimbalzo è molto diverso. In fin dei conti la percezione della velocità del campo è una cosa soggettiva anche per i tennisti.
Resta però il fatto che la maggior parte dei tornei del calendario oggi si giocano su cemento. Cementi molto diversi, come detto, ma i calendari di terra ed erba si stanno asciugando sempre di più. Se il verde è già considerato una parentesi esotica e innocua, è dal rosso che arrivano i maggiori campanelli d'allarme. Non sono poche le lamentele sulla difformità dei campi di partecipazione della gira sudamericana appena trascorsa rispetto ai tornei indoor nelle stesse settimane. Nelle semifinali dell’ATP500 di Doha c’erano Jack Draper, Andrej Rublev, Felix Auger-Aliassime e Jiri Lehecka. In quello, contemporaneo, di Rio c’erano Sebastian Baez, Alexander Muller, Francisco Comesana e Camilo Ugo Carabelli. Anche togliendo dall’equazione le semifinali, che comunque possono essere il risultato di exploit, a Doha erano presenti ai nastri di partenza dieci top20 e quindici top40, a Rio c’erano due top20 (uno dei due era il ritirato Musetti) e sei top40. Una discrepanza notevole per due tornei che assegnano gli stessi punti, due difficoltà diverse per raggiungerli.
Dare la colpa ai tornei sudamericani sarebbe sbagliato. Anzi, l’ATP dovrebbe fare molto di più per promuovere posti con una cultura tennistica lunga e appassionata, con tifosi che riempiono i campi e i palazzetti per chiunque giochi creando un’atmosfera che hanno pochissimi tornei. Il problema è che i direttori dei tornei sudamericani, che già devono pagare delle appearance fee corpose per strappare i tennisti al cemento, stanno ponderando l’idea di passare al cemento. «Ci stiamo lavorando, il cemento ci assicurerebbe più tennisti che saltano la terra per la transizione tra il cemento degli Australian Open e la terra battuta», ha detto il direttore del Rio Open Luiz Carvalho.
Perdere anche lo swing sudamericano su terra sarebbe un colpo durissimo alla già poca varietà del circuito ATP, il vero problema rispetto alla velocità in sé delle superfici. Per dare delle proporzioni, al momento circa il 65% del circuito si gioca sul cemento, contro il 30% della terra e il 5% dell’erba, che non ha nemmeno un Masters 1000. Ognuno può avere le sue preferenze da spettatore sul tipo di tennis giocato su una determinata superficie, ma è oggettivo credere che lo spettacolo non possa che beneficiare da una distribuzione più equa tra le tre superfici del tennis, al netto della loro velocità. Forse gli organi che governano il tennis, preoccupati perennemente per la sua espansione, dovrebbero pensare innanzitutto alla salvaguardia e una gestione migliore del prodotto già presente. Altrimenti il tennis resterà sempre uno sport “zoppo”, per quanti soldi privati possano arrivare.