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Il triste tramonto dell'Argentina ai Mondiali del 2002
12 giu 2018
Ai Mondiali nippo-coreani nessuno si aspettava che la Nazionale allenata da Bielsa potesse uscire ai gironi.
(articolo)
20 min
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Al tramonto un’onda oceanica di gente si riversa in Plaza de Mayo. Indossano maglie della Selección, suonano fischietti, gridano scandendo «Ar-gen-tina! Ar-gen-tina!». Molti, con sé, hanno portato una pentola, e la percuotono come fosse un tamburo.

È passato poco più di un mese dall’ultima partita dell’Albiceleste, che si è qualificata al Mondiale di Corea e Giappone con quattro giornate di anticipo. Quello che sembra un carosello è in realtà un cacerolazo: è il 20 Dicembre del 2001 e l’Argentina è sul punto di esplodere. Una gravissima crisi economica ha condotto il paese a una recessione senza precedenti, spingendo il governo al blocco dei conti correnti - il celeberrimo corralito - per evitare fughe di capitali all’estero, e infine costretto il presidente de la Rúa a una fuga in elicottero dalla Casa Rosada.

In questo contesto il fútbol, incarnato dalla Sele, è un placebo. Perché questa Argentina è forse la più forte di sempre, anche se non c’è Diego Armando Maradona. Perché, in un paesaggio in cui è difficile scorgere l’orizzonte, l’unico punto di riferimento è il Mondiale che si giocherà tra sei mesi. Un appiglio, una fiammella di speranza per il riscatto, un motivo di orgoglio.

Il cammino eliminatorio verso i Mondiali del 2002 è stato una lunga ininterrotta serie di trionfi, l’unica oasi di gioia nello sconforto che regnava nel Paese.

Dopo un piccolo sbandamento nell’estate del 2000, successivo alla sconfitta con il Brasile (sarebbe stata l’unica di tutte le qualificazioni), l’Albiceleste aveva cominciato ad asfaltare gli avversari. Alla fine avrebbe raccolto 43 punti (su 54, un record ancora imbattuto), dodici di differenza sull’Ecuador secondo, riuscendo a incassare solo 15 gol in 18 partite. Prima nel Ranking FIFA, quella che si presenta al Mondiale da favorita assoluta è una squadra quadrata, ordinata e impenetrabile, eppure verticale, rapida nelle transizioni, aggressiva. Una squadra bielsista.

Marcelo “el loco” Bielsa è alla guida dell’Albiceleste dal 1998. Dopo aver vinto un Clausura con il Vélez era stato ingaggiato dall’Espanyol: peccato che dopo sole sei partite gli era stata proposta la panchina più ambiziosa della sua carriera. «È l’obiettivo cui ho dedicato tutta la mia vita, il lavoro che amo, per il Paese cui appartengo», aveva detto come per giustificarsi, congedandosi. Era l’uomo nuovo, prototipo di una nuova figura di allenatore ossessionato dalle statistiche, da una filosofia di gioco precisa, una specie di marziano per gli standard del tempo.

Ma Bielsa era anche, e soprattutto, un grande motivatore. Claudio “el piojo” López ricorda come nelle ultime partite delle eliminatorie, con l’Argentina già qualificata, per evitare cali di tensione Bielsa aveva raccontato un episodio, che più o meno suona così: immaginate di essere a questa partita nel potrero, dove un ragazzino si fa male. Vede il sangue, e ha due opportunità: tornarsene a casa, oppure fermarsi, continuare a giocare e a lottarsela. Ecco, concludeva Bielsa, questo è il momento in cui avete visto il sangue.

Una specie di compendio della storia argentina ai Mondiali offerto da Quilmes, sponsor ufficiale della Selección e produttore di spot sempre in bilico tra l’entusiasmante e il commovente. In quel momento non si è ancora stratificato il mood dello sconfitto perenne.

Niente lasciava immaginare che il Mondiale 2002 sarebbe passato alla storia come il più sonoro insuccesso, in assoluto, dell’Albiceleste a una Coppa del Mondo. Un fracaso doloroso come solo le delusioni adolescenziali sanno essere: ti fai il viaggio, la fantasia diventa quasi tangibile, ed è in quel momento che va in mille pezzi, frantumata davanti ai tuoi occhi, senza un perché preciso.

Nessuna crepa può intaccare mura dalle fondamenta solide

La Selección del 2002 somiglia al passante ignaro - e un po’ ingenuo - che si imbatte nel marciapiede sbagliato il giorno in cui operai altrimenti attentissimi si lasciano sfuggire di mano la corda che regge il pianoforte a coda che era quasi stato sollevato fino al quinto piano.

Avvolti nell’euforia trionfalista delle eliminatorie, gli argentini avevano minimizzato le insidie del sorteggio. Il gruppo F, l’iniziale di feo, orrendo, e anche l’iniziale di fatal, li mette di fronte a Nigeria, Inghilterra e Svezia. «Sono contento» aveva detto Bielsa subito dopo il sorteggio, seguito da casa sua, a Rosario, in TV «perché ci è stata data l’opportunità di giocare partite che rendono la vita meritevole di essere vissuta». Non aveva viaggiato con la delegazione argentina verso Busan perché «la mia presenza non avrebbe dato nessun contributo. Non puoi dare suggerimenti, istruzioni, partecipare attivamente o valutare. Devi solo accettare la fortuna dalle urne».

Per quanto completa, la rosa dell’Albiceleste mostrava alcune crepe, e non era del tutto coperta in ogni reparto. In porta per tutte le qualificazioni aveva giocato il “mono” Burgos: gli altri due portieri che Bielsa avrebbe portato in Asia erano Bonano, secondo del Barça, e Pablo Cavallero, nonostante il pubblico locale acclamasse a gran voce Sebastián Saja, reduce da una grande stagione con il San Lorenzo.

Prima dell’avvento della scuola degli sweeper-keeper, il “chino” Saja brillava soprattutto per la plasticità negli interventi. Forse se la sarebbe meritata una chance. Ma con i se, come si dice, non si fa la storia.

Uno dei motivi per cui Saja non andò ai Mondiali potrebbe essere che Bielsa non amava particolarmente gli idoli della Primera Liga, semplicemente. Andrés D’Alessandro, che si era messo in mostra con la Sub20, e Juan Román Riquelme, figure assolute in patria, erano comparsi sporadicamente nella lista delle convocazioni anche durante le gare di qualificazione, dopotutto. Eppure il pubblico, a profonda testimonianza della fiducia riposta nel tecnico, non aveva mai davvero contestato le scelte del “loco”. Innanzitutto perché credeva nella necessità di insistere sulla “base solida”, come la chiamava Bielsa, di giocatori che avevano già assorbito i suoi dettami di gioco. In secondo luogo, perché nelle pur poche opportunità concesse da Bielsa nessuno degli esclusi, in particolar modo Riquelme, aveva dimostrato di essere davvero imprescindibile.

Lo stile di gioco di Riquelme, fatto di pause e tocchi brevi, era praticamente antitetico rispetto all’identità che Bielsa aveva cucito sulla sua squadra, che puntava tutto su un'identità iperverticale. Uno stile che chiamava i giocatori, oltre che a uno sforzo atletico costante, a un’applicazione metodica: una combinazione sufficiente a tagliare fuori dai giochi Riquelme, al quale non è stata concessa in tutto l’arco di preparazione del Mondiale che un’opportunità di mettersi in mostra, in amichevole contro il Galles a 107 giorni dall’inizio della Coppa. Impiegarlo al fianco di Verón avrebbe portato l’Argentina a uno squilibrio che metteva a disagio Bielsa: inserire Riquelme avrebbe significato togliere uno tra Simeone e Zanetti, due dei suoi giocatori feticcio.

L’amichevole contro il Galles, nella quale oltre a Riquelme scesero in campo anche un poco convincente Saja e il redivivo Caniggia, lasciò al “loco” una sola certezza: e cioè che avrebbe portato con sé l’esperta ala, a scapito della giovane sensazione Javier Saviola. Le chiavi della fantasia, insomma, erano destinate a rimanere saldamente in mano all’unico calciatore che militava in Argentina ed era certo della titolarità: Ariel Ortega, sulle cui spalle sarebbe finito il più gravoso dei numeri, che Julio Grondona, presidente della federazione argentina, aveva proposto di ritirare in onore di Maradona, ricevendo però in risposta il rifiuto della FIFA, cioè ovviamente il 10.

Un’enclave di serenità

Quando l’Albiceleste lascia il Paese per iniziare l’avventura Mondiale, a maggio, la crisi è allo zenit. Il tasso di disoccupazione è ben sopra il 20%, che è anche la percentuale mensile di incremento del tasso di inflazione. Più della metà della popolazione, in media, vive sotto il livello di povertà.

L’Argentina ha scelto, per l’ultimo clinic prima della partenza effettiva, il centro sportivo della Lazio, a Formello, «il luogo ideale per un placido sogno», come recita un cartello alle porte della cittadina. L’atmosfera che si cuce intorno è onirica e ovattata, rispetto alla gravosità terrena che stanno vivendo i suoi sostenitori.

Il “Cholo” Simeone fa gli onori di casa: accoglie e consola Zanetti, al quale pochi giorni prima di incontrarsi in ritiro ha tolto praticamente dalle mani lo Scudetto. È convinto che l’Argentina possa «fare meglio del ‘94». Juan Sebastián Verón gli fa eco, più definitivo: «Se non vinciamo il Mondiale sarà un fallimento».

In Giappone Bielsa esige vengano portati più di 1800 VHS, la sua personale videoteca di partite, giocate e dati individuali su tutti i potenziali avversari del Mondiale. La base logistica viene fissata a Naraha, 190 chilometri lontana dalla confusione sfarzosa di Tokyo. L’ambiente, nonostante i proclami, è sereno. I volti sono distesi, la voglia di scherzare e l’affiatamento molto alti.

César Luis Menotti, parlando di quel gruppo dopo l’eliminazione, avrebbe detto: «L’Argentina ha una buona tecnica, è forte fisicamente, ma gli manca un po’ di talento. E quando non c’è talento uno finisce per dipendere dai destini di una giocata». Perseverare sul concetto di gruppo di fronte a una serie così impressionante di individualità finisce per sminuire il peso specifico della personalità nei destini del gioco. Ma anche, al contrario, cercare a tutti i costi un minimo comune denominatore che tenga uniti, sotto l’idea di un collettivo, una così ricca collezione di talenti, fino a sostituirli, appare una forzatura. «Uno pensa che il calcio sia un gioco collettivo», avrebbe detto più avanti Simeone, «ma è fortemente individuale. Perché nonostante lo spirito di squadra, la tattica, ognuno alla fine non pensa che a sé».

Si è sempre soli, in un modo o nell’altro. Anche quando si sta per entrare nella tempesta, senza avere lo spirito giusto per riconoscerla.

La tragedia in tre atti: Atto I - Prologo.

L’esordio dell’Albiceleste è contro la Nigeria. Pochi giorni prima, nella gara inaugurale, la Francia è caduta a sorpresa di fronte al Senegal. Bielsa è costretto a rimpiazzare Ayala, che si infortuna durante il riscaldamento, con Placente: un cambio che sorprende anche la regia, che riporta il “ratón” nelle grafiche con gli undici iniziali, e non il difensore del Bayer Leverkusen.

Bielsa non si discostò mai, per le tre partite giocate in Giappone, dal dogmatico 3-3-1-3. Aggiustò, rammendò, ma non osò mai davvero mettere in discussione le sue certezze. Tipo schierando due prime punte come Crespo e Batistuta, contemporaneamente.

Il piano gara dell’Argentina è tutto improntato a verticalizzazioni assurde che passano quasi sempre dai piedi di Verón. Tutto il peso dell’inventiva è sulle spalle di Ortega, in grande spolvero, pieno di una garra che non ricordavo, che se ne fa carico come Atlante con il Mondo, inscenando una serie di gambetas sterili sulla fascia destra.

La Nigeria non ha molte cartucce per fermare i rivali: l’unica strategia è quella di spezzarne il ritmo, con una gragnuola irritante di falli, soprattutto su Ortega. In questo accenno di macelleria messicana, Verón si muove soave ergendosi presto a vera chiave di violino dello spartito bielsista, con una serie di tocchi di esterno, di primo, verticalizzazioni lungo linee di passaggio che vede solo lui.

Nella ripresa l’Argentina comincia a farsi sempre più pericolosa, colleziona 19 tiri in porta: con uno di questi, un colpo di testa furbo, in anticipo su Pochettino, su un calcio d’angolo, Batistuta sblocca il risultato. Poco prima che il corner venisse battuto, le telecamere si erano soffermate su uno striscione che, all’altezza della bandierina opposta, recitava: «Perdón, Saviola».

Gli highlights della partita, in cui la madelaine più sorprendente sono i movimenti a tagliare verso l’interno di Sorin.

Dalla partita con la Nigeria l’Argentina esce con un paio di certezze. Di saper essere concreta, anche se non spettacolare, innanzitutto. Di avere dalla sua non solo il cannoniere delle eliminatorie, Crespo, ma anche l’esperienza di un Batistuta doppiamente motivato dal fatto che stia disputando l’ultimo Mondiale della sua carriera. Infine, di aver incamerato i primi tre punti, alla vigilia della gara che è anche lo snodo centrale della prima fase, quella contro l’Inghilterra.

Atto II - climax

Diversamente da quanto la vulgata ricordi, la scintilla che ha scatenato gli attriti calcistici più aspri tra Argentina e Inghilterra non è per nulla la partita giocata in Messico, quella della mano de Díos e del Gol Del Siglo, contestuale alla crisi delle Malvinas/Falkland. In realtà, quando va in scena l’Argentina-Inghilterra del Mondiale di Corea e Giappone, le due nazionali già si odiano, sul campo, da almeno un cinquantennio.

Una vittoria al Monumental, nel 1953, ha fatto sì che la Federazione Argentina intitolasse quel giorno al futbolista argentino. Nel 1966, stavolta in casa degli inglesi, durante i quarti di finale della Coppa del Mondo, Antonio Ubaldo Rattín si era fatto espellere per un’occhiata storta di troppo lanciata all’arbitro. Mentre abbandonava il campo aveva dapprima stropicciato una delle bandierine del corner, dipinte con la Union Jack. Poi si era seduto a bordo campo, sul tappeto rosso riservato al Palco Reale, scatenando l’ira di Sir Alf Ramsey che, in uno slancio tutt’altro che nobile, aveva definito gli avversari «animali».

Ogni occasione di incontro, o di scontro, tra Argentina e Inghilterra, insomma, è un pretesto di rivendicazione orgogliosa della propria identità. Una di quelle partite che vale la pena di vivere per giocare, come diceva Bielsa.

Le due squadre si erano affrontate anche più recentemente. Nel ‘98, in Francia, tutto il drama era finito per concentrarsi in Beckham che si era fatto espellere per un fallo di reazione piuttosto stupido, e nella serie di rigori che aveva visto trionfare l’Argentina. L’ultima amichevole, giocata nel 2000 a Wembley, era stata surreale. Durante l’inno ospite, dagli spalti, si erano alzati ululati di disapprovazione ai quali i calciatori argentini avevano risposto come probabilmente rispondevano i gauchos della pampa quando venivano accusati di essere dei barbari: con orgoglio e fierezza.

Verón ha la faccia di chi non può veramente dire ciò che vorrebbe; Zanetti sembra piuttosto imbarazzato. Ma il più stupito, e incazzato, sembra proprio Batistuta, mentre scuote la testa. Oltre a Kily, che in apertura si può osservare masticare un rotondo «la concha de tu madre».

Bielsa apporta solo qualche leggera correzione alla formazione scesa in campo con la Nigeria. Il “piojo” López paga l’inconcludenza con gli africani - un’evanescenza che non ricordavo e che mi ha disturbato, mentre riguardavo queste partite - con la sostituzione per mano di Kily González, che avrebbe garantito anche una maggiore copertura. L’Argentina che affronta l’Inghilterra deve essere, nelle intenzioni del “loco”, e per un buon tratto del primo tempo lo è, una squadra più fisica e atletica che tecnica. Ma è anche nervosa: intorno al 20’, nel giro di cinque minuti, Batistuta rischia di farsi espellere per un’entrata a gomito alto quando è già ammonito. E soprattutto Verón appare decisamente sottotono, appannato, incapace di illuminare il gioco come Bielsa, e un’intera nazione, si aspettassero facesse quella sera.

Per questa partita sfortunata, durata un tempo, Verón ha dovuto scontare una lunga demonizzazione, schivare strali che forse non meritava e che ne hanno segnato, in qualche modo, i destini in Nazionale, intaccandone la legacy. Ancora ad anni di distanza c’è chi, come Feinmann qua, gli chiede se in quella partita abbia giocato volontariamente male, ammesso che sia possibile farlo, e abbia chiesto di essere sostituito pensando al momento in cui sarebbe dovuto tornare a Manchester. «Chi pensa queste cose è stupido», taglia corto Verón. «E tu secondo me le pensi».

La sconfitta matura quando il primo tempo è quasi finito: Owen taglia la difesa come un coltello affilato e dalla lama arroventata nel burro, Pochettino - che viaggia al rallentatore rispetto a Owen, che in quel periodo era uno dei calciatori con l’accelerazione più fulminante al mondo - cade nella trappola e il gol di Beckham, oltre che una vendetta personale, assume i connotati della foschia che cala sulla vallata in una giornata che si preannunciava radiosa, per quanto fosse iniziata con un’alba velata.

Owen, insieme a Ronaldo, è stato per un breve lasso di tempo l’uomo più entusiasmante in progressione dell’inizio di millennio.

La sconfitta ha un impatto annichilente. Un vero colpo al cuore, perché è in quell’istante che le crepe cominciano ad allargarsi. I risultati incrociati impongono all’Argentina di vincere l’ultima partita. Uno scontro decisamente alla sua portata, in cui il dislivello tecnico è vistoso e che, in condizioni normali, l’Albiceleste avrebbe fatto suo con facilità. Ma la serenità si è dissipata: sul campo d’allenamento i volti dei giocatori non sprizzano più tutta quella sicurezza di sé. È come se l’incertezza, la sua essenza cancrenosa, avesse attraversato l’Oceano Pacifico su un cargo salpato da Buenos Aires, pronta a sbarcare, in tutta la sua viralità, sulle coste scogliose della prefettura di Miyagi.

L’ultima partita, la più importante, è contro la Svezia, che ha già eliminato l’Argentina dai Mondiali in due occasioni: nel 1962 e nel 1934, anche se quella era una formazione di dilettanti e non la squadra più forte che l’Albiceleste abbia mai avuto.

III atto - epilogo

A fine primo tempo, quando le squadre tornano nello spogliatoio, Bielsa dice ai suoi di non temere: «Andate avanti così, di sicuro faremo un gol. Non mi sento di cambiare niente, né di dirvi niente». Nel racconto di Pochettino non si capisce bene come dovremmo interpretare l’atteggiamento del “loco”. Era davvero soddisfatto della gara dei suoi, che nonostante stessero attaccando costantemente dal primo minuto avevano tirato nello specchio della porta una sola volta? O in quelle parole c’è una specie di mistica rassegnazione, e di preveggenza?

A giudicare dalla prossemica che inscena nel secondo tempo, dalle mani portate al volto con così tanta veemenza che sembra volerselo strappare via, quel volto, in preda al nervosismo, si direbbe che Marcelo Bielsa abbia realizzato più o meno al sessantesimo che non era il sorteggio, l’unico evento di quel Mondiale che non poteva in qualche modo indirizzare con le sue capacità.

La Svezia passa al primo vero tiro in porta. È un calcio di punizione, in procinto di calciare c’è Henke Larsson. Prende la rincorsa, si coordina, sembra proprio sia lui a impattare il pallone: invece, dalle sue spalle, spunta Anders Svensson, e l’Argentina finisce con un piede sul baratro.

Verón non è sceso in campo dal primo minuto, al suo posto c’è Pablo “el payaso” Aimar. Bielsa ha affidato il ruolo di regista al giovane del Valencia. È una bocciatura, per la “brujita”? Una punizione? I prodromi dell’epurazione?

Quando mancano dieci minuti alla fine, Verón sistema un pallone sulla trequarti. Lo ripone a terra con calma, pacato. Qualcuno dalla panchina gli intima di affrettarsi, probabilmente. Verón ruota il torace, fa cenno con la mano di «stare calmi». A dieci minuti dalla tragedia calcistica più grande dell’ultimo ventennio, lui dice di stare calmi. Bielsa compare negli ultimi frame di questa GIF. Compare e scompare subito, fa dietrofront dalla linea del fallo laterale verso la panchina, fuori dall’inquadratura.

Anche i telecronisti hanno i toni, e il vocabolario, della foga. «Metela! Metela!» viene ripetuto come un mantra. Il gol di Crespo, che riprende una respinta su calcio di rigore sbagliato da Ortega, illude soltanto. Quando arriva il fischio finale Marcelo Bielsa sta bevendo. Finisce il sorso, scuote la testa. La bottiglietta che cade è il suo personalissimo mic-drop.

Fracaso

Riguardare il Mondiale del 2002 dell’Argentina è un’esperienza avvilente. La scena più iconica dell’eliminazione è Gabriel Batistuta con le mani sui fianchi prima di crollare in un pianto a dirotto, accovacciato. Dice di essere particolarmente abbattuto perché «non avrò una vendetta, una rivalsa. Perché questo è il mio ultimo match con la Selección». Le reazioni a caldo sono un tentativo di affermazione del primato della mestizia. Burgos e Pochettino hanno abbandonato il campo abbracciati, con una bandiera argentina sulle spalle. Julio Grondona è entrato negli spogliatoi, un po’ a sorpresa. Ha cercato di sdrammatizzare il momento, ha ringraziato chiunque per gli sforzi.

Foto di Laurence Griffiths / Getty Images

«È stato un disastro e l’unico responsabile sono io». Sono le prime parole di Bielsa. «Il coinvolgimento di ciascun giocatore con la mia idea di gioco è stato irreprensibile. C’è stata una comunicazione assoluta. Non ci sono rimproveri per nessuno». Bielsa si immola per tutti. Perché «il dolore della sconfitta è qualcosa di personale, che non puoi condividere».

Il viaggio di ritorno da Miyagi a Naraha, su un autobus completamente silenzioso, dura mezz’ora in più di quella d’andata: tre ore che sono uno stillicidio. All’andata c’era ansia e tensione. Ora l’atmosfera è più: «Che vuoi che ti dica? La cosa a cui somigliava di più è un funerale», secondo il ricordo di una fonte citata dal Clarin.

I commentatori cercano assoluzioni consolatorie, ma soprattutto spicciole: parlano dei giocatori come fossero i propri figli, la stessa visione che credo avesse negli anni delle Guerre chi rimaneva a casa pensando ai propri soldati. Attribuiscono la tristezza dei calciatori al pensiero che là, nel Paese, c’è chi gli vuole bene ed è triste a sua volta. Bielsa, generale colpito a morte eppure redivivo, con le luci della notte ha raggiunto i soldati, ognuno nella propria tenda, per spiegargli, secondo lui, cosa non avesse funzionato. Mentre tutti cenavano, il “loco” si era riguardato per bene la partita in TV, cercando di dare un nome al fallimento.

Il calcio contempla per sua natura la possibilità che non sia necessariamente il migliore a vincere. Bielsa ne è fermamente convinto: «Avevo un materiale eccellente. Non sono riuscito a trasformarlo in una squadra da sogno». Il sole non è neppure sorto su Buenos Aires che si parla già di successione. Si fa il nome del “Virrey” Bianchi. Grondona, invece, propone il rinnovo a Bielsa: come un padre protettivo gli offre «una revancha», una vendetta.

Tristeza

«Siamo un tango, noialtri: nostalgici e disincantati, passionali e verborragici, drammatici, esagerati nei sentimenti» mi ha scritto un’amica quando le ho chiesto cosa conservasse di quei momenti, come ricordasse di essersi sentita. A me è salito un grande senso di impotenza, di vicinanza empatica a quei simboli così perfetti della fallibilità umana.

C’è chi ha scritto che «la tristezza è tanto essenziale per il calcio quanto i dribbling o i corner». Anche se è una frase posticcia, bisogna riconoscere la portata mitopoietica del cliché. Tutto è triste, in Argentina: il tango, lo sguardo di Evita, Messi quando non riesce a vincere. L’argentino, quando non riesce a vincere. Ma essere tristi, in quei giorni, per un argentino, era esserlo un po’ di più. Perché il calcio non era riuscito a nascondere del tutto la miseria che avanzava, a sfamare chi aveva fame, a restituire, o ricostruire, le certezze perdute.

Secondo un sondaggio di qualche giorno più tardi, sette argentini su dieci pensavano che l’eliminazione dal Mondiale non avrebbe influito sulla vita politica. Uno scollamento tra realtà e pallone che rievocava il Mundial del ‘78. Allo stesso tempo, paradossalmente, però, otto su dieci erano certi che Duhalde, il nuovo presidente, avrebbe risentito dell’eliminazione. Non foss’altro perché la gente, meno appassionata al Mondiale, avrebbe realizzato, come svegliandosi da un incantesimo, quanto profonda fosse davvero la crisi. Il lessico del pallone sarebbe stato presto soppiantato, in ogni fascia sociale, da parole come disoccupazione, salari bassi, sicurezza.

Con il ritorno alla realtà, con la dissoluzione della magia, i toni diventano più terreni, crudi, diretti. «Se abbiamo giocatori che costano così tanto… invece di mandarli a giocare il Mondiale vendiamoli agli Stati Uniti, così saldiamo il debito!», suggerisce qualcuno, ironico. Qualcun altro realizza con ritardo di esser caduto vittima di un grande inganno: «Dicevano che non avevamo niente da mangiare, ma che ci saremmo classificati per il Mondiale e l’avremmo vinto. Ora non abbiamo né un piatto con qualcosa da mangiare, né vinceremo». «Perché non facciamo qualcosa noi, anziché aspettare sempre che qualcuno ci invii l’allegria per posta?», si chiede qualcun altro ancora.

Questa eliminazione del 2002, in fin dei conti, è stato il punto più basso da toccare, necessariamente, per riprendere lo slancio dello sprint. Fuori ma soprattutto dentro un campo da calcio. Per cercare, e trovare, l’allegria, finalmente. Due anni più tardi, sempre con Bielsa alla guida tecnica, l’Argentina avrebbe conquistato l’oro alle Olimpiadi di Atene.

In quei momenti, però, di pensare al dopo c’era meno voglia che mai. L’idea di conquistare la Coppa del Mondo era svanita come il sole al tramonto, ironia della sorte nello stesso momento in cui, su Buenos Aires, quello stesso sole che riluce anche al centro della bandiera provava a svegliarsi.

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