La “scoperta” dell’America determinò anche la trasformazione dell’ordine economico mondiale: con l’allargamento dei commerci a ovest, la Penisola Iberica divenne nel XVI secolo il nuovo centro di riferimento finanziario e commerciale internazionale (si parla infatti di siglo de oro). In particolar modo, la città di Siviglia: e così l’economista sivigliano Tomás de Mercado, poteva scrivere nella sua opera “Suma de tratos y contratos” (1571): «La casa de Contratación de Sevilla (amministrazione coloniale spagnola che gestiva i commerci con le c.d. Indie spagnole) con i suoi affari, è una delle più celebri e ricche dei nostri giorni, ed è risaputo in tutto il globo terreste. È come se fosse il centro di tutti i mercati del mondo”.
Cinquecento anni dopo la scoperta del nuovo mondo, con la Spagna logorata da una lunga dittatura ed esclusa dalle rotte commerciali globali da secoli, Siviglia ha ospitato l’Esposizione Universale per rilanciare la sua immagine e la sua economia in crisi. La Isla de Cartuja era stata scelta come sito espositivo, perché nel Monastero visse e fu sepolto (per un periodo) Cristoforo Colombo. Per rafforzare questa nuova immagine, anche il Sevilla Fútbol Club decise un rilancio in grande stile: il nuovo allenatore era Carlos Bilardo, ex Ct dell’Argentina campione del mondo nel 1986; fu acquistato un giovane Diego Pablo Simeone, ma soprattutto dal Napoli arrivò Diego Armando Maradona, che ritornava a giocare dopo la sospensione.
In quella squadra, Maradona divenne amico del secondo portiere Ramón Rodríguez Verdejo «Monchi»: l’argentino poteva girare per la città solo all’alba, per non essere assalito dai tifosi; lo spagnolo era abituato a svegliarsi prestissimo. Durante le loro passeggiate mattutine per la città, forse avevano immaginato che ci sarebbe stato un prima e un dopo, per il Siviglia. Ma nessuno avrebbe mai pensato che il merito sarebbe stato di quel secondo portiere che non giocava mai, e non del più forte calciatore di sempre.
Il valore
“Nelle cose venali, ci sono la sostanza e il valore: come nel grano la natura e il prezzo”.
Tomás de Mercado
Monchi è nato e cresciuto a San Fernando, a pochi passi da Cadice, nel quartiere operaio di San Carlos: il padre lavorava come tornitore nella locale industria navale, la madre era casalinga. Una famiglia umile, in cui il padre lavorava anche la notte per non far mancare niente ai tre figli: Monchi era il più piccolo. Sempre in giro per il quartiere, a giocare con i più grandi, ed è questo dettaglio a decidere la sua carriera: lo mettono in porta perché più piccolo, e impara a non aver paura delle pallonate. Un’infanzia felice, secondo la sua stessa definizione, e fatta anche di ottimi voti a scuola. A 11 anni entra in una squadra giovanile locale, poi viene acquistato dal San Fernando e ci rimane fino a 20 anni.
Nel 1988, la svolta: viene chiamato dal Real Madrid per una prova di una settimana con la squadra B, all’epoca allenata da Vicente Del Bosque. Dopo due giorni di allenamento diede un ultimatum ai dirigenti della Casa Blanca: o firmavano subito il contratto, o se ne sarebbe andato. Entrambe le parti furono ben felici di interrompere la prova: Monchi voleva giocare a tutti i costi una partita fondamentale per la promozione in terza serie del San Fernando, che altrimenti avrebbe dovuto saltare. Una decisione completamente folle da un punto di vista strettamente professionale, un primo indizio della passionalità fuori scala di Monchi.
La scelta più incosciente si rivela anche la più fortunata della sua vita: a vedere quella partita del San Fernando c’era anche il direttore delle giovanili del Siviglia, molto più risoluto del suo omologo madrileno. Così ebbe inizio la storia d’amore tra Monchi e il Siviglia (anche se era tifoso del Cadice, da bambino).
Ramón entra nella squadra B mentre a Siviglia atterra uno dei più grandi portieri della scuola sovietica, Rinat Dasaev. I due diventano anche amici, e compagni di serate, ma non riusciranno mai a coincidere nella stessa squadra: dopo due anni pessimi, a causa di problemi alle caviglie e di dipendenza dall’alcol (finirà anche con la Citroen aziendale nel fosso del rettorato dell’Università di Siviglia, rompendosi un dito), il portiere russo diventa il quarto straniero della rosa, e non gioca più. Al suo posto arriva Unzué (attuale assistente di Luis Enrique al Barça), e Monchi fa il grande passo in prima squadra: esordisce nella Liga a gennaio del 1991, contro la Real Sociedad.
Riesce a giocare altre 6 partite in quella stagione, tra cui una disastrosa a Gijón: da quel momento nasce anche una parodia di Monchi in tv, con il comico Sergi Mas che lo rappresenta come un portiere sbadato dal fortissimo accento andaluso.
Non un grande portiere: si dispera e vorrebbe sotterrarsi per l’errore. Anche per colpa di quella sconfitta, il Siviglia retrocederà.
La carriera di Monchi giocatore è piena di aneddoti e povera di partite: diventa il classico secondo portiere degli anni ’90, quando le rotazioni erano una necessità lontana da venire, e gioca due partite di Liga nelle seguenti quattro stagioni. Era quasi solo il portiere di Coppa del Re.
La solitudine del numero uno è diventata tema letterario e poetico, ma quanto è profonda la solitudine del numero dodici? La storia di Monchi spiega bene quanto da una situazione così particolare possa crescere una grande personalità. La sua miglior stagione, come raccontato in una splendida intervista alla rivista Jot Down, è quella del 1992-93, in cui non gioca neppure una partita in Liga: l’anno di Maradona e Bilardo. Dal primo riceve un Cartier originale in regalo, per sostituire un Rolex falso che Monchi aveva comprato a Ibiza e che Maradona aveva notato durante una delle loro passeggiate (in trasferta a Barcellona); dal secondo, invece, eredita la maniacalità, la volontà di controllare ogni minimo particolare in maniera ossessiva.
Da Luis Aragonés, invece, il migliore allenatore avuto da giocatore, dice di aver appreso di più tatticamente: inoltre in quelle due stagioni, dal 1993 al 1995, Dasaev diventa allenatore dei portieri. Monchi è entusiasta di essere allenato dal suo idolo, che tuttora definisce “il miglior portiere della storia del calcio”, ma continua a giocare poco: appena due partite in quelle due stagioni. Forse è in quel periodo che si rende conto di non essere fatto per il campo.
In panchina diventa ben presto un riferimento anche per i compagni: gli piace molto studiare il calcio, e inizia ad analizzare gli avversari, non per una volontà precisa, ma per il gusto di farlo e per dare un contributo alla squadra. Allo stesso modo gli piaceva studiare sui libri. La vita da panchinaro gli ha permesso anche di laurearsi in giurisprudenza: la sua vera passione era (ed è tuttora) la politica, ma non c’era una facoltà di Scienze Politiche vicina a San Fernando, e quindi scelse Giurisprudenza, che continuò poi anche all’Università di Siviglia, laureandosi (ma senza mai esercitare la professione di avvocato).
Il Siviglia perde a Oviedo e retrocede in Segunda: Monchi era in panchina quel giorno, ma al ritorno negli spogliatoi si accascia e scoppia a piangere (si sente distintamente). Amare è anche soffrire.
Solo verso la fine della carriera comincia a giocare più spesso: vive da protagonista la retrocessione del 1997, ma anche la promozione di due stagioni dopo. Nell’agosto del 1996 gioca da titolare un’amichevole all’Olimpico contro la Lazio e si leva perfino l’assurdo sfizio di segnare: per stabilire la vittoria si arriva ai rigori ad oltranza, Marchegiani sbaglia, Monchi realizza.
La sua carriera da portiere termina nell’estate del 1999, con il soprannome di “Leone di San Fernando”, dovuto a una miracolosa partita contro l’Atletico Madrid del doblete, ma anche per essere stato decisivo nello spareggio contro il Villarreal che riportò il Siviglia nella Liga. Da qualche mese afflitto da problemi alla schiena, Monchi aveva già deciso di ritirarsi dopo la promozione, ma i tifosi lo convincono a continuare. Durante il ritiro estivo si accorge che i problemi fisici sono insormontabili: si chiude a soli 31 anni una carriera fatta di poche partite (solo 115 in tutto), ma ricchissima di tante altre cose: fama, amore dei tifosi, grandi giocatori e allenatori. In un attimo, senza neppure rendersene conto, Monchi entra in un mondo nuovo, che aveva sempre inconsapevolmente cercato.
Il prezzo
“Il prezzo è più variabile, come l’esperienza insegna, del vento; e mutabile, che sembra correre e cambiare a seconda dei momenti come fa il camaleonte”
Tomás de Mercado
“Un giorno il presidente Alés mi chiamò nel suo ufficio e mi disse che voleva coinvolgermi di più nelle decisioni tecniche. Se mi avesse detto di occuparmi della tinteggiatura dello stadio, avrei risposto comunque di sì. Perché all’epoca, per me, la gestione tecnica era la stessa cosa che imbiancare lo stadio: non avevo la più pallida idea di cosa fare”.
Nasce così, nell’estate del 2000, il nuovo millennio del Siviglia: Monchi diventa Direttore Sportivo, quasi come un piacere personale, da fare per puro sevillismo. Dopo il ritiro improvviso dell’anno precedente, quando ormai era capitano della squadra, Monchi era diventato dirigente accompagnatore, ma si occupava di tutto perché il Siviglia era a un passo dal fallimento: rapporti con la stampa, organizzazione delle trasferte, rapporti con i club. Smise di essere giocatore e si accorse subito che la bolla non esisteva più: quella totale disconnessione dei giocatori dal mondo reale, in cui anche il minimo problema è un fastidio insopportabile che altri devono risolvere. E invece toccava a lui, risolvere addirittura le grane di un club.
Nel suo anno da dirigente accompagnatore accadde di tutto: bottigliette e lattine contro gli arbitri, squadra in caduta libera e retrocessa praticamente a gennaio. Inoltre, il club non solo non aveva più denaro, ma aveva i conti bloccati dall’Agenzia spagnola delle entrate. In società si accorsero presto che Monchi ci sapeva fare e andava oltre le mansioni del suo ruolo, applicando l’eredità di Bilardo. Per diventare DS, però, è costretto addirittura a dimezzarsi lo stipendio: ma il Siviglia è in crisi, e accetta.
Retrocesso in Segunda, senza budget, senza praticamente impiegati, con la squadra da ricostruire, e senza avere un’idea di come svolgere il suo nuovo ruolo: solo partendo da questa base si capisce la difficoltà del progetto Monchi, 17 anni dopo.
L’ex secondo portiere si applica, fedele all’idea che negoziatori non si nasce, si diventa, anche attraverso la formazione continua: e così non solo acquisisce esperienza, ma anche conoscenze. Un master in Economia a Siviglia, poi a inizio 2014, in piena stagione calcistica, si trasferisce a Londra per 6 mesi a studiare l’inglese (parla un discreto francese) e valutare dal vivo i metodi dei club inglesi.
Monchi Ted Talk: decisione, coraggio e passione.
Il metodo Monchi nasce quindi da una necessità, e dalla consapevolezza dei propri limiti. Per aiutare un club dalle finanze disastrate, c’è bisogno di generare plusvalenze. Ma il vero obiettivo è mantenersi al di sopra delle proprie possibilità: è così che si inverte il problema, mettendo in prima battuta l’esigenza sportiva. È un metodo per essere sempre più competitivi, ed è molto rischioso: all’incirca come puntare sempre in un casinò per guadagnare abbastanza da vivere in un quartiere esclusivo. Eppure in tutti questi anni, Monchi è riuscito a coniugare le due esigenze: generare plusvalenze (per più di 200 milioni) per aumentare la competitività della squadra (vincendo 9 trofei)
Sul ruolo della fortuna, Monchi è categorico: conta molto, è vero, ma il compito di un Ds deve essere proprio quello di ridurne l’impatto. Per questo, il Siviglia ha creato una struttura per l’analisi e la selezione dei giocatori. Monchi, il suo vice, un coordinatore dell’area tecnica e 13 scout in sede studiano i campionati più importanti del mondo e creano una top 11 mensile, oltre a inserire dati in un database comune. Lo stesso Monchi, ad esempio, guarda almeno 3 partite di Ligue 1 a weekend. Da gennaio, si crea una lista dei migliori 350-400, e si cominciano a seguire i giocatori dal vivo, in partite diverse: in casa, in trasferta, contro una piccola, contro una grande. Una volta scelto un obiettivo, vengono mandati almeno 7 scout a rotazione per osservarlo dal vivo: ogni volta devono inviare report dettagliati e impreziosire il database con delle lettere, dalla A (da acquistare subito) alla E (giocatore che “dovrebbe tornare a scuola”). Krychowiak, ad esempio, aveva quasi tutte A.
Inoltre, ci sono valutazioni con team di psicologi e preparatori atletici. Ad aprile, la lista scende intorno ai 150 giocatori e a questo punto ci si riunisce con l’allenatore, per capire di quale profilo di giocatori abbia bisogno. “Il Direttore Sportivo deve essere uno strumento nelle mani dell’allenatore: se ti chiede un tavolino e gli porti una lampada, il fallimento sarà assicurato”, dice lui.
Monchi si fida totalmente di questa struttura, tanto da decidere acquisti senza esserne convinto personalmente; ma a volte è andato anche contro le evidenze per portare a Siviglia un suo obiettivo, come quando vide un disastroso Bacca contro l’Anderlecht ma decise di comprarlo comunque.
Ma non è solo una questione di database e struttura: Monchi non è solo metodo.
Il profitto
“Comprare e vendere è una questione di ingegno umano”
Tomás de Mercado
L’anno del primo acquisto Notario, l’anno di uno sconosciuto brasiliano con le orecchie a sventola chiamato Dani Alves, l’anno di un brasiliano senza collo soprannominato La Bestia, l’anno del terzino Adriano, l’anno della prima Coppa Uefa con Luis Fabiano ma senza più Sergio Ramos, l’anno delle tre coppe (Supercoppa Europea – Coppa Uefa – Coppa del Re) con Fazio e Poulsen, l’anno della morte di Puerta e dell’arrivo di Keita e Perotti, l’anno della cessione di Dani Alves per quasi 40 milioni, l’anno dello squalo Negredo, l’anno di Medel e Rakitic, l’anno del figliol prodigo Reyes, l’anno dell’arrivo di Unai Emery che aveva scritto un libro sulla mentalità vincente senza aver vinto nulla, l’anno della prima Europa League con Bacca e Gameiro, l’anno di Krychowiak e Banega e della seconda Europa League, l’anno di N’Zonzi e dell’incredibile terza Europa League consecutiva, l’anno di Sampaoli e Nasri: dietro ognuna delle ultime 17 stagioni calcistiche c’è la mano di Monchi.
Dopo la vittoria dell’Europa League del 2014, Monchi incita i tifosi da capo popolo.
Per riuscirci, c’è stato bisogno di tanto studio e di lavoro individuale. I suoi capisaldi: conoscere bene la persona che si ha davanti, avere ben chiari i propri obiettivi, cercare di accontentare le varie parti della trattativa e soprattutto avere sempre alternative a disposizione per non essere mai messo spalle al muro. E con le alternative spesso il Siviglia ha fatto anche affari maggiori rispetto alle prime scelte, col senno di poi: voleva Fred e alla fine pese Kanouté; puntava a Boateng e dovette “ripiegare” su Keita (era al Lens).
Dal suo punto di vista non esistono acquisti sbagliati, ma solo rendimenti negativi: ci sono troppi fattori che influenzano la riuscita del giocatore in una squadra, dall’adattamento ambientale all’ecosistema tattico in cui si trova. E così può succedere che il timidissimo Rakitic conosca la futura moglie andalusa al primo giorno in hotel, riuscendo poi a integrarsi perfettamente; e che invece Konoplyanka voglia scappare dopo solo un mese. L’esempio perfetto è Arouna Konè: acquistato per una cifra record dal Siviglia, segnò solo tre gol in tre stagioni, per poi passare al Levante e segnarne 17 tra campionato e coppa. Forse aveva bisogno di un ambiente con pressioni minori.
C’è un prima e c’è un dopo.
Anche Monchi, come tutti i dirigenti sportivi, a volte viaggia a vuoto e perde delle opportunità. Il suo più grande rimpianto è il mancato acquisto di Van Persie. Nel 2004 aveva ormai raggiunto l’accordo con il Feyenoord ed era in Olanda, in hotel, in attesa di Van Persie e del suo procuratore per la firma sul contratto. Poi, però, arrivò l’Arsenal.
Secondo Monchi, il ciclo ideale di un giocatore dovrebbe seguire il percorso di Dani Alves: acquisto a poco prezzo di un giocatore giovane e sconosciuto, ma con grandi potenzialità, tempo adeguato di ambientamento, buon rendimento, conquista di trofei, vendita a prezzo elevato (il più grande incasso nella storia del Siviglia) a uno dei club più importanti al mondo, proseguimento brillante della carriera, supporto al suo vecchio club.
Alla domanda se la priorità di un Direttore Sportivo dovrebbe essere comprare bene o vendere bene, Monchi ha risposto: “Nessuna delle due. La priorità è vincere titoli”, perché “non si è mai visto applaudire un bilancio in uno stadio”. E questa è la vera differenza di Monchi: 9 titoli e 16 finali in 17 anni; e se si escludono i primi anni di rifondazione ed assestamento, ben 9 titoli in 12 stagioni. Un palmares mostruoso per una squadra che in 116 anni di storia aveva vinto una Liga e tre Coppe del Re.
Una squadra che grazie a lui è riuscita anche ad uscire dall’ossessione provinciale dalla rivalità cittadina con il Betis: «Quando ero piccolo l’obiettivo della stagione era vincere il derby e questo ci rendeva mediocri. La nostra aspirazione non poteva essere questa: mi piace vincere il derby ma abbiamo altri obiettivi molto più grandi, come vincere trofei».
Monchi al Carnevale di Cadice, di cui è da sempre un grande amante, con la sua chirigota, gruppo musicale corale a tema umoristico.
Il lato umano di Monchi è anche quello che cerca nei suoi giocatori: nessun acquisto avviene senza una valutazione emotiva personale. È per questo che Monchi a volte intrattiene rapporti personali con alcuni obiettivi persino con anni di anticipo rispetto al loro acquisto: come Lenglet, terzino francese acquistato nell’ultimo mercato invernale, che ha confermato le telefonate di Monchi a lui e al padre da addirittura quattro anni; o come Gameiro, che giocava nel PSG, e che Monchi ha visitato a casa personalmente per circa un anno prima dell’acquisto: “Il contatto umano è l’unico modo per ridurre il rischio di commettere errori”.
Il leone di San Fernando vuole essere convinto della passione dei giocatori, la stessa che mette nel suo lavoro: 12 ore al giorno in sede durante una settimana normale, niente limiti durante le sessioni di mercato, una media di 5 agenti di calciatori incontrati al giorno.
La passione calcistica però gli è costata molto anche a livello familiare, con una figlia che praticamente non ha visto crescere, e con dei sacrifici enormi chiesti alla moglie.
Nel 2006 la storia di Monchi al Siviglia era già finita: a causa di problemi di salute della moglie, doveva allontanarsi dalla città e aveva già firmato con l’Almeria. La conferenza stampa di addio era già stata prevista per il mercoledì santo, ma Monchi contrasse la varicella il giorno della domenica delle palme. Nel frattempo il Siviglia giocava la semifinale di Coppa Uefa contro lo Schalke: in trasferta i tifosi lo acclamarono al grido di “Monchi quédate” (rimani). Al ritorno Antonio Puerta segnò il gol decisivo ai supplementari, raggiungendo la finale, e Monchi decise di non abbandonare.
Com’è successo con i suoi giocatori, adesso toccherà a Monchi riuscire ad ambientarsi in un nuovo paese. E per un uomo che ha vissuto 48 anni quasi sempre in un triangolo di pochi chilometri, quelli che separano Cadice, San Fernando e Siviglia, potrebbe essere molto difficile.
Come dichiarato spesso, Monchi era semplicemente logoro: nel 2016 aveva già deciso di abbandonare, ma il presidente si era opposto. Il direttore sportivo si era ormai mangiato l’uomo. Troppo difficile lavorare a lungo per la squadra per cui si tifa: troppo più grandi le delusioni, troppo forte il senso di responsabilità, anche se è difficile farlo capire ai tifosi, rimasti sgomenti. Persino il figlio, in una lettera di sostegno molto emotiva, sostiene di non aver capito bene i motivi di una stanchezza così grande. Ma dopo 29 anni al Siviglia, prima da giocatore poi da dirigente, Monchi ha deciso di lasciare: forse già da subito, si parla addirittura da fine aprile, dopo aver salutato il suo pubblico.
La storia di Monchi e il Siviglia è talmente intrecciata che non si può distinguere: è una storia di lavoro e di riscatto, anche per una città nel suo complesso. La storia di un modesto portiere diventato grande dirigente e di una squadra dal grande nome ma di secondo piano che in pochi anni ha raggiunto le più grandi vette internazionali (record storico di 5 Coppa Uefa/Europa League). La storia la cambiano i geni come Cruyff, e le divinità come Maradona, certo, ma anche i lavoratori passionali e metodici come Monchi: la storia la cambiano gli uomini che hanno una visione, ma soprattutto una passione infinita.