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Il volo di Gianmarco Tamberi
02 ago 2021
Una rincorsa partita da un crudele infortunio prima di Rio.
(articolo)
13 min
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«Sono stati anni difficilissimi. E finalmente posso dire che ne è valsa la pena». La vittoria dell’oro di Gianmarco Tamberi nel salto in alto non è soltanto la storia del primo oro olimpico dell’atletica azzurra dal 2008, il primo vinto nello stadio da Los Angeles 1984 con pochi minuti di vantaggio su Marcell Jacobs. È la storia di un’ossessione, di una rivincita inseguita per cinque anni e raggiunta quando meno sembrava possibile. Soprattutto, è la storia di un atleta che nell’atto decisivo ha rinunciato a molte delle cose che lo avevano reso celebre. Perdendo qualcosa di quella sbruffoneria che, in cinque anni di sconfitte, gli aveva alienato molti tifosi. E convincendosi ad affidarsi solo alle proprie forze, senza cercare rifugio nelle mezze barbe e nel pubblico, limitando – per quanto gli era possibile – gli effetti scenografici che lo avevano reso una star.

«A dire la verità a me il salto in alto non piace». Così diceva Tamberi, nell’aprile 2016, in un’intervista a Sportweek pochi mesi prima dell’inizio delle Olimpiadi di Rio e poche settimane dopo la vittoria di un titolo mondiale indoor, quando era iniziata la sua scalata verso la celebrità. «Detta così è un po’ forte, lo so, ma lo faccio perché sono bravo, non perché lo amo. Non mi ha mai appassionato come per esempio il basket». All’epoca di quell’intervista, Tamberi era un saltatore di nemmeno 24 anni che si dedicava a tempo pieno all’atletica solo da sette. Non gli piacerebbe sentirselo dire, visti i pesanti screzi tra i due, ma sono parole che lo avvicinano ad Alex Schwazer, nell’unico punto di contatto possibile fra i due. Il marciatore altoatesino, nella conferenza stampa che seguì la notizia della sua positività a Londra 2012, disse più o meno le stesse cose.

Per Gianmarco Tamberi la possibilità di vincere un oro olimpico non era solo un sogno. Era l’unico traguardo possibile per dare un senso alla scelta di sacrificare la sua passione per l’atletica. O, almeno, ai tempi lui diceva così. Sarebbe stato il frutto di un sodalizio fortissimo, quello con il padre Marco, suo allenatore e finalista dell’alto a Mosca 1980. Era stato il padre a convincerlo – senza tuttavia costringerlo - a mollare il basket per inseguire un sogno che, per molti versi, aveva più l’aspetto dell’obbligo. Ed era stato il padre, quando Gianmarco nel 2013 sembrava un talento alla deriva ed era pure tornato a giocare a basket in serie D, a metterlo davanti a un bivio: o stai alle mie regole, o te ne vai. Il figlio se ne andò di casa (trasferendosi da sua madre), ci pensò un mese e tornò con l’unico tecnico che potesse allenarlo, quello che aveva investito tutto su una rincorsa velocissima in grado di spararlo ad altezze siderali. Stette alle regole (sveglia alle nove, luce spenta alle undici e mezza, va detto che c’è di peggio) e da lì iniziò il crescendo, fino all’oro indoor ai Mondiali di Portland 2016. «È molto bello ma sinceramente vedo gli altri più felici di quanto non lo sia io. Non vorrei essere monotono, ma ho Rio come unico obiettivo e le vittorie ottenute finora le considero solamente tappe in vista dei Giochi», disse sempre a Sportweek. Il Brasile doveva essere l’apoteosi: «Questa è l’Olimpiade mia. Non esiste altro, non può andare male. Voglio vincere».

Quell’oro avrebbe potuto giocarselo, perché nel 2016 era in uno stato di grazia paragonabile a quello che ha attraversato Marcell Jacobs nel 2021. Con una differenza: Tamberi, in quei mesi di avvicinamento, era diventato uno dei pochissimi volti noti al grande pubblico oltre a Usain Bolt. Non solo per meriti sportivi (che erano molti), quanto per quel modo di porsi in pedana, di cercare il tifo del pubblico, di apparire a tutti i costi. Il rito della ‘half shave’, la mezza barba tagliata prima delle finali o comunque delle gare importanti, l’interazione col pubblico, le esultanze spesso eccessive. Tamberi in pedana era e sarà sempre un istrione. Intanto, man mano che l’inverno cedeva il passo alla primavera e poi all’estate, alzava sempre più la sua asticella, in una progressione da mettere i brividi. Prima i 2,35 indoor in Slovacchia a febbraio, record italiano alla pari – nella stessa gara – con Marco Fassinotti. Poi, ancora a febbraio, il nuovo volo a 2,38, sempre in sala. Quindi il titolo mondiale a marzo, prima di cominciare le gare all’aperto e di aggiungere il titolo europeo, guadagnando sempre più centimetri e popolarità.

Fino all’Herculis, uno dei meeting più importanti del mondo, a Montecarlo. Il 15 luglio 2016, in un tempio dell’atletica leggera, si poteva entrare gratis: bastava presentarsi con la mezza barba di Tamberi. Furono un trionfo e una tragedia sportiva. Tamberi dominò quella gara, ridicolizzando gli avversari che, incidentalmente, erano i migliori saltatori del mondo. Superò i 2,37 metri alla prima misura, quando il qatariota Mutaz Essa Barshim era già fuori. Alla terza valicò pure i 2,39, segnando il nuovo record italiano e vincendo la gara. A quel punto aveva due scelte: accontentarsi di un dominio assoluto o chiedere di portare l’asticella a 2,41, per provare a superare anche la miglior prestazione mondiale dell’anno, segnata proprio da Barshim. Tamberi decise di giocarsela. Sbagliò il primo tentativo. Riprovò e si accasciò sul materasso tenendosi la caviglia e urlando. Lesione del legamento deltoideo, una sentenza tombale sui sogni olimpici. Due operazioni chirurgiche e un trapianto di tessuto, per ritornare a camminare con le stampelle e, col tempo, a saltare. Nel frattempo era andato a Rio, a vedere Derek Drouin innalzarsi fino a 2,38 e a comparire, con frequenza giornaliera, sugli schermi Rai. Un protagonismo, dettato pure dal fatto che fosse l’unico volto celebre dell’atletica azzurra oltre a Schwazer, anche sgradevole.

Inutile trarre giudizi sulla persona: sempre al centro del palcoscenico anche quando i risultati avrebbero suggerito maggior cautela, appariscente in maniera eccessiva, sbruffone oltre i propri mezzi, capace spesso di dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato. A migliaia l’hanno criticato (compreso chi scrive), anche duramente, per le sbruffonate e le esagerazioni. Va detto che in pedana pochi hanno avuto tanti amici tra i rivali quanti ne ha avuti lui. Ma questo conta poco. Perché a fianco della persona, che riguarda lui, c’era pure l’atleta che portava a ripartire, centimetro dopo centimetro, facendo cadere l’asticella più spesso del solito, ad altezze molto più umane di quelle a cui aveva abituato. Ai Mondiali di salto in alto del 2017, a Londra, uscì in qualificazione. L’anno dopo, agli Europei di Berlino, arrivò quarto. Poi, ad agosto, il ritorno a 2,33, ma ormai la stagione era andata. Quindi i Mondiali di Doha 2019, chiusi da comprimario all’ottavo posto, e le inquadrature solo per vederlo festeggiare la vittoria di Barshim, reduce anche lui da un tremendo infortunio l’anno prima. E il dubbio, almeno per chi lo guardava in tv, che ormai del Tamberi migliore non fosse rimasta che un’ombra. Che fosse ancora un atleta eccellente e che però sarebbe mai più stato in grado di lottare con i migliori. Poteva, questo sì, finire in mezzo alle telecamere nella festa di qualcun altro. C’era una sola eccezione: l’oro vinto agli Europei indoor di Glasgow del 2019, qualche mese prima di Doha, l’unica fiammella per illudersi che Tamberi potesse tornare lui.

Quest’anno, già prima dei Giochi, stava facendo la sua stagione migliore post infortunio. Agli Europei indoor di Torun ha lottato a livelli altissimi. È arrivato a giocarsi l’oro a 2,37, dopo aver saltato 2,33 e 2,35 alla seconda misura. Un’altezza siderale, per il Tamberi post 2016. Ma ha dovuto cedere a Maksim Nedasekau, che si è inventato un miracolo a 2,37 dopo due errori a 2,35. Quel giorno Tamberi non aveva la mezza barba, un rituale scaramantico che lo aveva accompagnato fin dalle gare giovanili. Però si era tinto i capelli biondo platino, come un Super Sayan. Non gli era bastato. La stagione outdoor proseguiva fra alti e bassi, ma mai sopra i 2,33 metri. E sempre a guardare quel gruppetto di quattro o cinque atleti che avevano una marcia in più. Intanto, facevano rumore anche i cambi di società: prima l’addio alle Fiamme Gialle, nel 2020, per tornare civile con Atl-Etica, poi nemmeno un anno dopo il ritorno ai gruppi militari, stavolta con le Fiamme Oro.

Tamberi a Tokyo non era tagliato fuori ma gli serviva una gara perfetta e un po’ di fortuna per andare a medaglia. Per arrivare all’oro, gliene sarebbe servita molta. Il giorno delle qualificazioni aveva sporcato la sua ‘fedina’ con un errore a 2,28. Il salto in alto concede tre prove a ogni misura, ma evitare gli errori inutili è fondamentale, perché in caso di pareggio vince chi ha fatto meno errori nell’ultima misura saltata. E in caso di ulteriore pareggio, chi ha fatto meno errori in assoluto in finale. Sbagliare, per chi vuole vincere, non è concesso, se non sei il più forte del mazzo e, quindi, è ben difficile che tu possa saltare qualche centimetro in più dei favoriti. In quel caso la strategia è semplice: passa tutto quello che puoi al primo turno e spera che gli altri non facciano lo stesso. Il salto in alto concede tre tentativi a misura, si diceva, e al terzo errore sei fuori. Tamberi era alla terza Olimpiade. La prima volta, a Londra, era un ragazzino e più in là delle eliminatorie non poteva andare. La seconda volta, a Rio, vide la pedana appoggiato alle stampelle. L’1 agosto 2021, per un atleta di 29 anni, aveva tutta l’aria di essere l’ultima chiamata.

Tamberi, nelle gare che contano, è sempre sceso in pedana con la mezza barba, con i capelli platinati, con le scarpe di colori diversi. A Tokyo, l’unico vezzo era quello dei calzini spaiati. Tamberi, in ogni finale, ha sempre cercato il sostegno del pubblico. A Tokyo gareggiava in uno stadio vuoto. «Da un anno a questa parte sto facendo una fatica enorme a scendere in pedana sapendo che non ci sarà il pubblico – raccontava prima dei Giochi a Runner’s World -. È il mio punto forte. È come se una squadra di calcio non avesse gli attaccanti». La mezza barba l’aveva abbandonata da tempo, anche se non del tutto perché in finale compariva, stilizzata, sui suoi calzini: «Sto cercando di uscire da questi schemi mentali». A Tokyo ha anche dovuto convincersi che affidarsi alla carica del pubblico non fosse indispensabile. E che chi vuol vincere deve trovare dentro di sé la forza per passare l’asticella, prima che fuori. Insomma, a Tokyo in pedana c’era un uomo cinque anni più vecchio del ragazzo che sognava Rio. Sempre appariscente, sempre capace di sbruffoneria, ma convinto – un po’ per maturazione, un po’ per forza - ad affidarsi alle proprie capacità e non a qualche feticcio.

Non ha regalato nulla, per quella che era la sua parte. La sua gara è stata semplicemente perfetta. La prima misura, 2,19, era semplice, ma l’ha saltata lasciando un’enormità di luce tra sé e l’asticella. Nedasekau, il bielorusso che l’aveva sconfitto agli Euroindoor, ha sbagliato il primo tentativo. Al secondo salto, la luce tra lui e l’errore era calata. Se n'è accorto e, una volta sul materasso, ha fatto un gesto di disappunto. Ma intanto il percorso era ancora netto. Al terzo giro, 2,27, è passato con una facilità estrema, per poi esultare davanti a poche centinaia di persone come se fosse davanti a uno stadio pieno. E a 2,30 si è ufficialmente iscritto alla corsa per le medaglie: ancora percorso netto, a quel punto erano solo in cinque a poterlo vantare. Il turno successivo è la prima vera svolta. Tamberi ha eguagliato la sua miglior misura stagionale all’aperto e si è trovato in vetta da solo con Barshim, che nel frattempo continuava a volare e planare senza sforzo apparente, in corsa solo con se stesso. A 2,35 si sono presentati in sette. Uno, l’americano JaVaughn Harrison, in corsa anche per la finale del lungo, ha deciso di rischiare e passare immediatamente a 2,37. In quattro hanno saltato al primo tentativo: Tamberi, Barshim, l'australiano Brandon Starc e il coreano Sanghyeok Woo, che prima della finale aveva un personale di 2,31 e in teoria era il più scarso del lotto. Tamberi ha fatto ballare l’asticella per alcuni attimi interminabili, ma la fortuna gli ha strizzato l’occhio e l’ha mantenuto in testa con Barshim. Nedasekau, dopo il primo errore, ha deciso di cercare di far saltare il banco a 2,37. Lo stesso ha deciso il russo Mikhail Akimenko, dopo due errori.

A quel punto Tamberi aveva fatto tutto quello che onestamente gli si potesse chiedere. Aveva segnato la sua miglior misura all’aperto da cinque anni e l’aveva fatto senza errori. Accettando il fatto che non fosse quello del 2016, aveva fatto la migliore delle gare possibili. Poteva uscire a 2,37 e sperare che almeno quattro degli altri atleti in gara sbagliassero, cosa tutt’altro che improbabile visto che già in due avevano un piede fuori. Barshim ha saltato la prima, mettendo il piede sul podio. Meno prevista, ma tutto sommato non impossibile, era la resurrezione di Nedasekau, che con le spalle al muro è riuscito comunque a saltare posizionandosi al secondo posto. Assolutamente impronosticabile il miracolo di Tamberi, che al suo turno è decollato. L’asticella si è mossa lievemente, ma meno di prima. «È la mia Olimpiade, mia, mia», ha detto in faccia alla telecamera. Di nuovo: spaccone oltre ogni limite e ciascuno è libero di trovarlo gradevole o no, ma si stava giocando una medaglia olimpica da sfavorito dopo cinque anni a mangiare la polvere. Lui e Barshim erano di nuovo pari. L’asticella è stata portata sul 2,39, perché tutti gli altri hanno sbagliato la prima prova a 2,37 e a quel punto hanno deciso di andare giocarsi tutto.

E proprio Barshim, che fino a quel momento sembrava in giornata dal record del mondo, ha iniziato a sbagliare. Come lui Nedasekau e come loro due tutti gli altri, che erano oggettivamente ormai fuori dalla lotta per le medaglie. Tamberi si è trovato con il match point in mano e ha affrontato l’ultimo salto mettendo in pedana il gesso che lo aveva accompagnato a Rio nel 2016. Nella scritta «Road to Tokyo 2020» aveva corretto la data, aggiornandola al 2021. Lo conservava da cinque anni solo per sbatterlo in faccia alle telecamere, al momento del salto decisivo. Non gli è bastato per tornare a 2,39, perché cinque anni fa Tamberi forse era un filo più forte di oggi.

Ma poco importa. Al terzo errore lui e Barshim erano pari. È rarissimo che succeda e il regolamento prevede due possibilità: o lo spareggio, o l’ex aequo, se entrambi gli atleti lo accettano. «Se lo spareggio non viene effettuato - dice il regolamento -, incluso il caso in cui gli atleti, in ogni fase, decidano di non saltare ulteriormente, la parità per il primo posto sarà confermata». In quel momento, in parità, c’erano due atleti con infortuni gravissimi alle spalle. Né Barshim né Tamberi avevano mai vinto un oro olimpico. Sono amici di vecchia data e si sono dati manforte negli anni. Nel 2017, dopo che a una gara Tamberi aveva sbagliato per tre volte la misura, Barshim era andato a rincuorarlo: «Quando non volevo parlare con nessuno dopo il disastro di Parigi è rimasto mezz’ora a bussare fuori dalla mia stanza d’albergo finché non l’ho lasciato entrare. Mi ha parlato a lungo per farmi reagire, e ci è riuscito».

Che Tamberi avrebbe accettato un pareggio, non c’erano dubbi. L’unica incognita era se Barshim, il più forte saltatore degli ultimi vent’anni, avrebbe accettato di dividere il gradino più alto del podio con qualcuno. Il resto è storia. «Can we have two golds?», chiede Barshim al giudice. «It’s possible». Tamberi e Barshim si abbracciano. E poi sono lacrime: il qatariota rompe una maledizione, l’azzurro chiude un cerchio iniziato otto anni fa, quando decise che sì, sarebbe stato a tutte le regole pur di vincere un oro olimpico. Diventa il primo italiano a vincere un oro olimpico nell’alto dai tempi di Sara Simeoni, 41 anni fa. Ironia della sorte, sarebbe difficile trovare un’atleta più lontana da lui come modo di porsi. «Per me è qualcosa di incredibile. Lui (Barshim, ndr) è il saltatore più forte di tutti i tempi, è inutile dirlo – ha detto alla Rai -. Ha dimostrato in questi anni di essere veramente il numero uno in assoluto. Per me vincere un’Olimpiade dopo quello che ho passato è una cosa stratosferica. Lui se lo meritava. Io sinceramente credo di aver realizzato un sogno, un pezzo di storia che rimarrà per sempre con me. Non vedo l’ora di raccontarlo ai miei figli quando li avrò, se li avrò. Non dormirò mai più».

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