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Il corpo di Imane Khelif ci insegna che non siamo pronti
03 ago 2024
03 ago 2024
Le domande che dovremmo farci in questa storia hanno risposte complesse.
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IMAGO / ABACAPRESS
(foto) IMAGO / ABACAPRESS
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Oggi, della pugile algerina di 25 anni Imane Khelif, pensiamo di sapere tutto.

Dall’Algeria all’Italia, dal mondo della boxe a quello della politica, attraverso un racconto mediatico, sportivo (forse), che è passato per giornali, televisioni, social, smartphone; bar, uffici, tavoli da pranzo, aperitivi al mare. L’abbiamo osservata bene attraverso lo scanner del genere alla ricerca della femminilità perduta: «È una persona con cromosomi maschili, con corpo e fisicità maschili» (Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità); le abbiamo guardato dentro le mutande, verificato i geni, i cromosomi, i valori ormonali, stabilito cosa può o non può fare: «È un fatto che con i livelli di testosterone presenti nel sangue dell’atleta algerina la gara in partenza non sembra equa» (Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio). Poi, abbiamo guardato un match di boxe per 46 secondi, il tempo intercorso fra l’inizio dell’incontro e il ritiro della pugile italiana Angela Carini, atleta, avversaria, rivale, alterego: «Ero salita sul ring per combattere. Non mi sono arresa, ma un pugno mi ha fatto troppo male e dunque ho detto basta».

Abbiamo fatto tutte queste cose collettivamente, un’entità unica, come il pubblico davanti ad un evento sportivo, una sfida fra le squadre dei buoni e dei cattivi. Abbiamo fatto tutto consapevolmente, pensando fosse chiaro l’accaduto, il contesto, gli interessi in campo, i diritti in gioco per chi c’è adesso e chi verrà dopo.

Dentro ad ognuna delle cose che abbiamo fatto c’è un pezzo di questa storia: un corpo conteso, al centro di una matassa di informazioni reali o presunte; uno spazio fatto di principi, regole e categorie proprie, quello sportivo; un dualismo Khelif/Carini, non più solo olimpico, ma identitario, politico: due facce della stessa medaglia, i confini di giusto o sbagliato, dell’accettabile o dell’inammissibile.

Ma di cosa stiamo parlando davvero?

Un corpo conteso

Fino a qualche giorno fa la pugile algerina Imane Khelif era una dellə 10.714 atletə che partecipano alle Olimpiadi di Parigi 2024. Alla sua seconda esperienza olimpica, sarebbe stata l’avversaria di Angela Carini nella categoria 66 kg dei pesi welter, nell’incontro per gli ottavi di finale di questi giochi. Khelif è nota alle pugili azzurre, perché compagna di allenamento in un’occasione. Khelif non è al primo torneo della sua vita: ha già partecipato a Tokyo 2020 venendo eliminata ai quarti di finale; ai mondiali del 2018 era arrivata 17esima, a quelli del 2022 aveva perso in finale.

In 24 ore l’atleta algerina diventa però qualcos’altro: «Pugile trans dell'Algeria - bandito dai mondiali di boxe - può partecipare alle Olimpiadi e affronterà la nostra Angela Carini. Un'atleta messicana che l'aveva affrontata ha dichiarato "i suoi colpi mi hanno fatto molto male […]» (Matteo Salvini su Twitter, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti). La notizia inizia a circolare sui social, sulle testate giornalistiche, per poi essere presto rettificata, perché Imane Khelif non è un’atleta transgender.

Poi una rincorsa, le notizie si sovrappongono: Khelif nel 2023 era stata squalificata, insieme all’atleta Lin Yu-ting di Taipei Cinese, dai Campionati mondiali di pugilato femminile IBA (International Boxing Association) a Nuova Delhi. Perché? Se non è un’atleta trans allora la domanda diventa: cos’è Imane Khelif?

Verbale della seduta del Consiglio di Amministrazione dell’IBA del 25 marzo 2023: “[…] Le atlete algerine Imane Khelif e Lin Yu-ting di Taipei Cinese che, gareggiando ai Campionati Mondiali di Pugilato Femminili IBA in India, non hanno rispettato le regole di eleggibilità, a seguito di un test condotto da un laboratorio indipendente […] Il Consiglio direttivo ha chiesto di chiarire perché la questione sia stata sollevata alla fine dei campionati, quando le atlete interessate avevano già superato le varie fasi dell'evento. Il Segretario Generale e CEO dell'IBA ha spiegato che i test sono stati condotti su richiesta del Delegato Tecnico e della Giuria Medica dei Campionati. I risultati sono stati resi disponibili in sette giorni e il Segretario Generale e Amministratore Delegato dell'IBA, agendo per conto dell'IBA, ha notificato immediatamente alle atlete la loro squalifica […]”. Le atlete erano state ammesse ai Campionati mondiali perché ritenute idonee a partecipare, ma la situazione cambia durante la stessa competizione.

Comunicato ufficiale della Federazione internazionale di box del primo agosto 2024: “La squalifica è stata motivata dal mancato rispetto dei criteri di ammissibilità per la partecipazione alla competizione femminile, come stabilito dal Regolamento IBA. Questa decisione […] era estremamente importante e necessaria per sostenere il livello di equità e la massima integrità della competizione. Da notare che le atlete non sono state sottoposte a un esame del testosterone, ma a un test separato e riconosciuto, i cui dettagli rimangono riservati. Questo test ha indicato in modo definitivo che entrambe le atlete non soddisfacevano i necessari criteri di idoneità e sono risultate avere vantaggi competitivi rispetto alle altre concorrenti femminili”.

Insomma, dalle stesse parole dell'IBA, la federazione internazionale di boxe da qualche anno in lotta con il CIO che la considera corrotta e troppo coinvolta con il regime russo di Vladimir Putin, a oggi non conosciamo le motivazioni per cui Imane Khelif sia stata squalificata, né conosciamo i “criteri” che il suo corpo non ha rispettato. Nel regolamento IBA le indicazioni relative all’eleggibilità a competere per le categorie femminili sono riferite all’auto-dichiarazione di non essere in stato di gravidanza, e alle più generiche richieste di passaporto, di certificato di nascita, di modulo di iscrizione presentato dalla propria federazione. C’è poi un riferimento alla possibilità di poter effettuare il sex testing, la verifica del sesso, nelle categorie femminili, senza ulteriori specifiche su come e con quali condizioni.

Non sappiamo nulla di che tipo di test sia stato effettuato su Imane Khelif e Lin Yu-ting né dei suoi esiti. Il Segretario Generale e amministratore delegato dell'IBA aveva rilasciato una breve dichiarazione pubblica dove ha parlato di presenza di cromosoma XY nelle due atlete, dato che non compare in nessun documento ufficiale.

Non c’è traccia di verifica di livelli di testosterone “elevati”, né di altro tipo di differenza dello sviluppo sessuale ascrivibili alla definizione di intersex (iperandroginia, insensibilità agli androgeni, eccetera). Solo dalle dichiarazioni del Segretario Generale della Federazione internazionale di boxe possiamo presuppore che Imane Khelif e Lin Yu-ting siano due atlete intersex, ma non conosciamo né la condizione né come eventualmente questa generi un vantaggio competitivo.

“Sono state pubblicate informazioni fuorvianti su due atlete che parteciperanno ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. Le due atlete hanno partecipato per molti anni a competizioni internazionali di pugilato nella categoria femminile, tra cui i Giochi Olimpici di Tokyo 2020 […]. Queste due atlete sono state vittime di una decisione improvvisa e arbitraria dell'IBA. […] L'attuale aggressione nei confronti di queste due atlete si basa interamente su questa decisione arbitraria, presa senza alcuna procedura adeguata […]. Le regole di eleggibilità non devono essere modificate durante le competizioni in corso, e qualsiasi modifica delle regole deve seguire processi appropriati e basarsi su prove scientifiche”. Sono parole del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), che da Tokyo organizza direttamente le gare di boxe senza passare per l'IBA, che dopo le polemiche per il ritiro di Carini con un comunicato ha sottolineato come la squalifica sia stata arbitraria, e non abbia seguito alcuna procedura, criterio chiaro o prova scientifica.

Ancora il CIO: “Il Consiglio direttivo dell'IBA l'ha ratificata solo in seguito [la squalifica, nda] e solo successivamente ha chiesto che venisse stabilita una procedura da seguire in casi simili in futuro e che venisse riflessa nei regolamenti dell'IBA. Il verbale dice anche che l'IBA dovrebbe "stabilire una procedura chiara sui test di genere". Che la federazione internazionale di box non aveva nel 2023, come abbiamo visto, e non ha tutt’oggi.

Il CIO ha ammesso le due atlete alle competizioni di Parigi perché eleggibili secondo i criteri di ammissibilità, gli stessi di Tokyo. “La PBU (Paris Boxing Union) ha utilizzato le regole di Tokyo 2020 come base per sviluppare i regolamenti di Parigi 2024. Questo per ridurre al minimo l'impatto sulla preparazione di atleti e atlete e garantire la coerenza tra i Giochi Olimpici. Le regole di Tokyo 2020 si basavano su quelle successive a Rio 2016, in vigore prima della sospensione della Federazione internazionale di pugilato da parte del CIO nel 2019 e del successivo ritiro del suo riconoscimento nel 2023”.

Questi sono i fatti che conosciamo. Eppure una parte dell’opinione pubblica e della politica ha raccontata questa storia in modo diverso, come una vicenda di “inclusione” ingiusta da parte del CIO (verso quelle che si considerano donne “vere”). Documenti alla mano, però, quella passata dell'IBA è una squalifica poco motivata da parte di una federazione sportiva e quindi poco comprensibile finché non si avranno ulteriori motivazioni.

D'altra parte non è la prima volta (e purtroppo forse nemmeno l'ultima) che il genere di una donna viene messo in discussione per motivi poco chiari. Il primo sex testing della storia olimpica risale al 1936, e fu ai danni di Helen Stephens, vincitrice dei cento metri alle Olimpiadi di Berlino ("E tu cosa pensi: questo è un uomo o una donna?" scriveva la rivista LooK). Ma questa è una storia lunga. Passa per María José Martínez-Patiño, ostacolista spagnola testata alle Universiadi di Kobe nel 1985 e arriva a Caster Semenya, velocista e mezzofondista sudafricana, e Dutee Chand, velocista indiana. Tutte vittime del sex testing e di lunghe vicende giudiziarie nel 2009 e nel 2015 rispettivamente. L'ultima, per l'appunto, Imane Khelif, 2023.

In mezzo molte altre, che a partire dagli anni 2000 hanno quattro cose in comune: sono tutte donne, sono nere o BIPOC (Black, Indigenous and People of Color), provengono dal cosiddetto "Sud del Mondo", e soprattutto non hanno terminato le loro carriere sportive per loro scelta.

La verifica del vero sesso, i regolamenti, le linee guida CIO

Questa rappresentazione della donna “vera” nello sport, di un corpo univoco, bianco, performante ma non troppo, atletico ma non “mascolino”, in realtà però dimentica tanti dettagli. A partire da quelli che racconta la bioeticista Silvia Camporesi nel libro Partire (S)vantaggiati (Fandango). "Il processo di differenziazione sessuale nella specie umana è estremamente complesso, e non si può far risalire a un solo gene o molecola o proteina che sia. Qualsiasi test genetico o biologico che vada a ricercare tale "Santo Graal" del binarismo sessuale è destinato a fallire”. Eppure ispezioni fisiche e ginecologiche, test cromosomici o genetici, continuano a caratterizzare la storia dello sport femminile. Come mai?

A partire dal 2011, i livelli di testosterone sono diventati il confine per accedere alle competizioni femminili per chi subisce il sex testing: 10 nanomoli per litro di sangue (2011), 5 nanomoli per litro di sangue (2018), 2,5 nanomoli per litro di sangue (2022), questi i parametri da rispettare nel tempo a discrezione delle singole Federazioni sportive. Il CIO, che emana (è importante ricordarlo) linee di indirizzo e non regolamenti vincolanti per le federazioni, inizialmente si allinea al parametro ormonale.

Poi a partire dal 2021 le strade fra quest’ultimo e le Federazioni sportive internazionali, rispetto ai criteri di ammissibilità all’interno delle competizioni femminili, si separano: Il Comitato Olimpico Internazionale pubblica una guida per le Federazioni su come definire criteri di ammissibilità che funzionino per il proprio sport/contesto, tenendo però conto dei principi di equità, inclusione e non discriminazione.

Il CIO abbandona i criteri ormonali per accedere alle competizioni: le atlete dovrebbero essere in grado di competere nelle categorie che meglio si allineano con la loro identità di genere autodeterminata (punto 3.2), in linea con le indicazioni della giurisprudenza internazionale (e con la carenza di prove scientifiche rispetto ad un inconfutabile vantaggio competitivo generato da alti tassi di testosterone naturale). Diverse federazioni non hanno risposto positivamente a queste indicazioni, emanando regolamenti restrittivi rispetto all’accesso alle competizioni da parte di atlete con differenza dello sviluppo sessuale e atlete transgender. Ma quella di boxe non è stata una di queste.

Oggi ci troviamo davanti a questo scenario: la possibilità di testare le atlete (e solo le atlete) per verificare il “vero sesso”; quattro federazioni (quelle di atletica, nuoto, ciclismo e rugby) con regolamenti escludenti o con criteri restrittivi per accedere alle competizioni (livelli di testosterone sotto i 2,5); il CIO che riconosce il principio di autodeterminazione di genere e/o criteri di accesso che però tengano conto dei diritti umani, della salute, dell’integrità delle atlete. In questo quadro di regole si inscrive la storia di questi ultimi giorni.

In questi confini abbiamo costruito e raccontato la sfida Khelif/Carini, che in realtà è una battaglia identitaria di una parte della politica.


Sorvegliare i confini del genere dentro e fuori dallo sport

Una atleta italiana contro una algerina. Una donna “vera”, l’altra la rappresentazione di una presunta ideologia dell’inclusione portata alle estreme conseguenze; una l’incarnazione della triade identitaria donna/corpo/sport, l’altra la minaccia all’equilibrio competitivo.

Una con il pugno troppo forte; l’altra preoccupata per la sua incolumità. Una l’immagine rassicurante della biologia come equazione esatta scritta nei cromosomi, negli ormoni; l’altra sfida alle caselle di sesso/genere come destino.

In questo romanzo identitario collettivamente scritto, diretto da una certa politica, mediaticamente rappresentato, abbiamo lasciato due donne, le loro carriere, lo scenario olimpico sullo sfondo. Khelif vince senza combattere, e il suo percorso sarà caratterizzato dal presunto vantaggio che ha, perché tanto donna “vera” non è (non si sa bene sulla base di cosa). Carini non combatte e si ritira, da atleta diventa, senza averlo scelto, la figlia d’Italia, consolata per gli esiti di una storia che sta fuori dal ring, dal torneo, dalla competizione.

Carini ha negato di essersi ritirata per motivi "politici", ha parlato dei pugni presi e del pericolo che ha sentito. Una scelta che è personale e che chissà da cosa deriva. Prima del suo incontro, però, le dichiarazioni da parte della politica sono state molte, impossibile pensare che non abbiano avuto un peso. Il suo allenatore ha detto che «molte persone in Italia hanno provato a chiamarla e a dirle: ‘Non andare, per favore; è un uomo, è pericoloso per te». Chi erano queste persone? Amici o politici? Dopo l'incontro Carini ha incontrato Giorgia Meloni e ricevuto i complimenti per la sua scelta da alcune delle più alte cariche dello stato (Salvini, La Russa)

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Eppure, questa rimane una storia di sport, che parla dello spazio sportivo perché parla di noi, di come questo spazio lo costruiamo, dei significati che gli diamo. Quando sorvegliamo i confini di cosa è donna e cosa non lo è non ci dimentichiamo di farlo dove le regole sono fondamentali e il corpo è visibile, come nello sport.

Perché il modo in cui funziona lo sport ci sembra semplice, ci consegna vittoria o sconfitta, cosa si può o non si può fare, lecito e illecito; categoria maschile o femminile. Così, nello sport, anche le domande diventano semplici e la ricerca di risposte approssimativa: è giusto o sbagliato che Imane Khelif gareggi con le donne?

Questa vicenda dovrebbe insegnarci che la domanda giusta non è questa, quello che dovremmo chiederci è: come facciamo a tenere insieme il diritto a competere, a partecipare a una competizione, e l’equilibrio competitivo? Come facciamo a farlo rispettando i diritti umani, senza gravare sull’incolumità fisica e mentale delle atlete e riconoscendole nella loro identità? Come facciamo ad essere consapevoli del fatto che nello sport si può partire dalla stessa linea, ma condizioni socio-economiche, attributi di nascita (altezza, reattività muscolare, ossigenazione del sangue, resistenza al dolore, eccetera) producono costantemente (e non solo per i casi di donne “sospette”) dei vantaggi competitivi?

Sono queste le domande complesse, faticose, difficili, poco rassicuranti da farci. Per cui non siamo prontə, ce lo dice questa storia.

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