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Io, la Lazio e Ciro Immobile
25 lug 2024
25 lug 2024
Lettera d'addio all'ex capitano della Lazio.
(foto)
IMAGO / Insidefoto
(foto) IMAGO / Insidefoto
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«Abbiamo da affrontare…» dice, nel video pubblicato dalla società per fargli dare l’arrivederci ai tifosi. Un lapsus. Si ferma, sorride e guarda in camera: «Avete da affrontare una stagione importante».

Tra i 207 gol segnati con la maglia della Lazio in 340 partite, quello che più mi dice di Ciro Immobile, e di lui in rapporto alla squadra per cui tifo, lo segnò l’11 gennaio del 2020. Non è il più bello né il più importante, non ha portato ad alzare una coppa (lui ne ha vinte tre con la Lazio) e nemmeno è uno dei parecchi che ha segnato alla Roma nel derby. È però un gol che ci diede l’impressione di poter vincere uno scudetto, questo sì, per la prima volta dopo una ventina d’anni.

Per me gli otto anni di Immobile alla Lazio sono tutti lì, a pochi minuti dalla fine di una partita col Napoli che non si schiodava dallo 0-0, in una fredda serata in cui ero andato all’Olimpico convinto che non avremmo potuto vincere la decima gara di campionato di fila. Com’era possibile, fare più punti nel girone d’andata di quelli del girone d’andata dell’ultimo Scudetto? Quella sera la Lazio era terza, incredibilmente vicina a Juventus e Inter.

E invece Immobile era andato in pressione sul portiere del Napoli, Ospina, che sul limite destro dell’area doveva gestire con i piedi un retropassaggio. Sembrava una situazione senza alcun potenziale: Ospina poteva facilmente lanciare lungo o appoggiarsi a due compagni – uno per lato. Immobile era andato deciso, invece, come se il potenziale ci fosse. Quella sua determinazione sembrava ottusa ed era visionaria. Aveva messo Ospina in uno stato di stupore, come di fronte a una forza capace di piegare gli eventi innaturalmente. L’incertezza del portiere gli aveva fatto lasciare la palla in uno spazio franco, per un attimo, subito prima che Immobile la facesse sua. Ma di spalle alla porta com’era, lontano dalla porta, al minuto 82 di una partita così importante che seguiva nove vittorie consecutive…

Dal mio posto nei Distinti Nord – ostacolato in parte nella visuale dalla maglia della rete e dal corpo di Ospina – non mi aspettavo niente. E invece Immobile aveva fatto una torsione e aveva tirato, senza guardare lo specchio, senza guardare gli avversari che correvano a difendere la porta sguarnita. E aveva tirato tanto forte che il difensore accorso sulla linea, Di Lorenzo, si era visto sbattere il pallone sulla gamba senza poterlo allontanare – lo aveva spinto in rete. 1-0. La partita era finita così.

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Nel dopogara, ai giornalisti che parlavano di corsa per lo Scudetto, Immobile aveva detto: «Non montiamoci la testa». Noi uscendo dallo stadio avevamo iniziato a guardarci tra noi come non ci guardavamo da vent’anni, senza usare parole che avrebbero rovinato tutto.

Due mesi dopo quel gol contro il Napoli (e dopo 6 vittorie e 2 pareggi della Lazio), il campionato era stato sospeso. Misure di contenimento del covid. L’irruzione della pandemia, a interrompere quel momento in cui di sospeso c’era la nostra incredulità, si allineava perfettamente alla storia. Un passaggio profondamente per laziali.

L’idolo risponde a un bisogno, e a noi un idolo mancava da tempo. Nella storia della Lazio ogni periodo ha avuto il suo riferimento o l’ha cercato. Di solito un attaccante da tanti gol, a volte un collettivo, una "banda". Di idoli, in dodici anni, cioè dall’inizio della presidenza Lotito all’arrivo di Immobile, sì, c’era stato Tommaso Rocchi, in una Lazio povera e convalescente, e c’erano stati Paolo Di Canio e Miro Klose, che però vivevano la coda – per quanto felicissima – della carriera. Ma mancava quell’idolo che per anni i bambini nominano tirando verso porte immaginarie, prima dell’arrivo di Ciro Immobile, il 27 luglio del 2016.

Immobile ha rappresentato la Lazio dei miei trent’anni. Il primo idolo più giovane di me (1990 lui, 1985 io): un’evoluzione necessaria ma anche destabilizzante. Per me non poteva insomma avere lo status di re, essere circonfuso di autorità, irraggiungibile: probabilmente quella figura può esistere una sola volta nella vita di un tifoso, ed è inesorabilmente legata all’infanzia.

In un pomeriggio di marzo del 2018, la Lazio era impegnata a Cagliari e vincere era quasi obbligato, in chiave qualificazione alla Champions League. A una manciata di secondi dal termine, invece, stava perdendo. Felipe Anderson aveva calciato un pallone inutilmente teso in area, verso Immobile e Milinković-Savić, entrambi di spalle alla porta. Ricordo di aver pensato che pareggiare non avrebbe cambiato nulla. Immobile era andato incontro alla palla, aveva sollevato la gamba e colpito con la parte esterna del piede. In quella fase frenetica di calcioni e palloni tesi, la parabola era stata sorprendentemente morbida. Aveva scavalcato il portiere del Cagliari, reso deforme da un allungo disperato per respingere la palla, che invece era entrata in rete.

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Quel pareggio in effetti non era bastato per accedere alla Champions League, eravamo rimasti fuori per un punto solo. Eppure quell’idea di giocata di Immobile, col carico di determinazione che si portava dietro, con l’ambizione di intervenire sulla realtà fin dove possibile – darsi fino alla fine, utile o inutile che sia… tutto questo era stato una lezione, e una dimostrazione della persona Ciro Immobile, prima che del giocatore capace di un tocco così istintivo e raffinato insieme.

Alla fine della stagione, Immobile era stato capocannoniere della Serie A (ex aequo con Mauro Icardi) con 29 gol. Due anni più tardi fu capocannoniere con 36 gol in 37 partite. Una cifra che solo Gonzalo Higuaín aveva raggiunto nella storia del campionato, e che diede a Immobile la Scarpa d’oro come miglior marcatore d’Europa 2019/20.

Di nuovo fu capocannoniere della Serie A nel 2021/22. La terza volta con la Lazio e la quarta in assoluto, perché ci era già riuscito col Torino nel 2013/14. Quattro volte capocannoniere: solo Gunnar Nordahl aveva potuto tanto (cinque, lui, tra 1949 e ‘55).

Eppure era ammaccato, Ciro Immobile, quando arrivò alla Lazio. Frustrato dalle esperienze in Europa, al Borussia Dortmund e al Siviglia, club prestigiosi e vincenti che l’avevano scaricato come se non fosse alla loro altezza.

In Germania, pagato 18,5 milioni come ventiquattrenne capocannoniere della Serie A, aveva perso il posto da titolare a febbraio, con 3 gol fatti in Bundesliga e la squadra diciottesima. Il Siviglia non l’aveva schierato neanche una volta da titolare per due partite di fila. E nell’inverno 2016 addirittura l’aveva girato in prestito al Torino, dove nel 2013-14 Immobile aveva vissuto la sua stagione migliore, prima appunto di provarsi all’estero. Come se in un anno e mezzo non fosse progredito e dovesse ricominciare dal punto di partenza.

Era un acquisto perfetto, per noi, per neanche 10 milioni. Non è un caso e non è piaggeria se Immobile, in quel video d’arrivederci, dice: «La gente mi ha fatto sentire a casa mia dal primo giorno». Arrivava subito dopo che la società, in un arco di tempo ridicolo, aveva ingaggiato Marcelo Bielsa come allenatore e poi clamorosamente ripiegato su Simone Inzaghi.

Quando firmò, Immobile andava ormai per i ventisette anni – anagraficamente era al giro di boa della carriera. Aveva segnato 32 gol nel nostro campionato e sembrava un ex giovane di grande talento (l’esordio da pro con la Juventus, i fasti di Pescara con Insigne e Verratti, la stagione magica al Torino da capocannoniere) che aveva mancato il salto successivo. Nessuno avrebbe pensato di vederlo diventare l’ottavo marcatore della storia della Serie A (201 gol).

Sì, era nel giro della Nazionale anche prima di esplodere con la Lazio. Ma agli Europei 2016 faceva panchina a Eder e Pellé, mentre agli Europei successivi avrebbe giocato da titolare fino alla vittoria finale.

Personalmente (la mia soggettività è determinante perché per molti tifosi della Lazio vederlo con la maglia azzurra è stato quasi bello quanto vederlo con la nostra) consideravo la Nazionale come una fonte di distrazione per Immobile, se andava bene, e una fonte d’ostilità e quindi di sofferenza se andava male.

All’origine avevo, e ho, la ferita del trattamento riservato a Signori da Arrigo Sacchi, il senso di un’oltraggio, e quindi la convinzione che la Nazionale non se li merita, i nostri eroi. Immobile insomma era roba nostra, e la trascuratezza o lo scetticismo di chi tifava per lui solo in Nazionale erano solo una conferma.

Ho provato un senso di protezione quando, nel 2023, ha fatto l’incidente così novecentesco con l’auto contro il tram. Un incidente alle otto di mattina, a seicento metri dalla piazza romana dove la Lazio venne fondata nel 1900. Con la famiglia a bordo, con un eccesso di velocità che corrispondeva a 65 chilometri orari.

Quel momento richiama la nostra storia, che tanto bene si esprime nella tragedia, perché essere laziali significa sapere di non poter essere felici a lungo, vedere la fine nel pieno di un amore.

Nel primo video che ho visto di Immobile a Istanbul, sta uscendo dall’aeroporto ed è circondato da fotografi e tifosi. Un uomo gli va incontro di fianco, con una sciarpa in mano da mettergli al collo. Ma Immobile è preso alla sprovvista e incassa la testa, a difendersi.

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Il video è preso in modo che la dinamica sia più chiara a noi di quanto potesse esserlo a lui in quel momento – dopo ore di volo, nell’euforia rumorosa che aveva intorno – eppure a me è venuto da preoccuparmi.

Ha firmato un contratto fino al 30 giugno 2026, saranno dieci anni esatti dal suo arrivo alla Lazio.

Per la maggior parte dei tifosi non è stato uno shock, ma un movimento comprensibile. Ha trentaquattro anni (esordì in A nel 2008/09 sostituendo Alessandro Del Piero) ed è già incredibile quanto abbia saputo dare dopo i trenta e col suo calcio generoso, sfiancante. E poi la stagione scorsa è stata tormentata, ha avuto un infortunio dopo l’altro, ha perso la Nazionale e l’Europeo. L’ultimo contratto è un’opportunità, gli vogliamo troppo bene per non accorgercene. E poi il Beşiktaş ha l’aquila come simbolo, e Istanbul è lontana dagli occhi.

Ho aperto con un gol oggettivamente importante, chiudo con una doppietta importante soprattutto sul piano emotivo.

È la sera del 28 novembre 2023, la Lazio affronta il Celtic Glasgow nel girone di Champions League e deve vincere per qualificarsi agli ottavi di finale. Immobile siede in panchina, viene da mesi difficili, tarlati dal dubbio – indicibile ma vivo – che ormai sia un dio decaduto. Dopo un’ora, la Lazio non è riuscita a segnare e Immobile entra in campo. Trascorrono venti minuti, e ancora il risultato è fermo. Al minuto 82 una palla sporca, deviata da un difensore del Celtic, rimbalza davanti a lui che è appostato in area, concentratissimo, e si lancia per prenderla. Serve un tocco solo: lo esegue incrociando, mandando il pallone sotto la traversa, in rete.

Due minuti più tardi, con un fine movimento del corpo manda a vuoto un avversario, poi finge di tirare, dribbla un altro avversario, e chiude sul primo palo: 2-0. Va verso la panchina, ma i suoi compagni con i giacconi e le braccia alzate lo raggiungono – entrano sul terreno di gioco – prima che lui ne esca. Un grande abbraccio collettivo lo circonda, sul bordo del campo – sulla soglia – ai piedi di uno stadio che festeggia una bella storia.

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