Se siete qui a leggere questo pezzo, molto probabilmente è perché nel corso della vostra vita vi siete imbattuti in un pezzo di Grantland. Noi, sinceramente, non abbiamo mai nascosto la nostra ammirazione: «Grantland è la totale e assoluta mamma-a-distanza dell’Ultimo Uomo», ha scritto Tim Small quando abbiamo parlato con Francesco Pacifico del mancato rinnovo di contratto tra Bill Simmons e ESPN—che poi si è rivelato, purtroppo, l’inizio della fine del sito a cui ci siamo ispirati, e come noi tanti altri in giro per il mondo.
Come era facilmente immaginabile, l’annuncio di venerdì scorso ha sconvolto la normale vita social dell’ultimo weekend: non ho idea di come si siano sviluppate le vostre timeline negli ultimi giorni, ma se è stata invasa di post, link e foto di Bill Simmons o la testata del sito, allora potete darvi una pacca sulla spalla perché vi siete circondati di buone persone... una consolazione troppo magra, però. Ho letto più o meno tutto quello che sono riuscito a trovare a riguardo—e gente ben più in gamba di quanto io sarò mai in grado di fare ne ha scritto meglio, tipo questo pezzo sul Washington Post, o questo su New Republic, o sul New York Times, o su Sports Illustrated. E più ho letto, più mi sono sentito triste, arrabbiato, fondamentalmente deluso.
La prima cosa che ho pensato è che il cassetto dove tenevo chiuso il mio sogno era stato divelto dal mio comodino, preso a potenti colpi di martello e lasciato lì in mille pezzi. L’unica cosa che sono riuscito a twittare è stato “Lutto”. E l’unico modo che trovo per raccontare cosa ha rappresentato per me Grantland è, appunto, attraverso le cinque fasi di rielaborazione del lutto, teorizzate da Elisabeth Kübler-Ross nel 1970 per motivi ben più seri e importanti rispetto a quelli per cui la sto citando io (scusa, Eliz).
Negazione: Non possono averlo chiuso davvero
«In principio si nega il lutto come naturale meccanismo di difesa». L’inizio della mia “carriera” da giornalista è coincisa quasi esattamente con la nascita di Grantland, datata 11 giugno 2011. A quel tempo avevo appena iniziato come stagista a Rivista Ufficiale NBA e di Bill Simmons non sapevo assolutamente nulla. Quando il mio direttore Mauro Bevacqua mi ha chiesto di recuperare un tweet dello "Sports Guy" per un pezzo, ho palesato senza alcuna vergogna la mia ignoranza sul personaggio e sull’argomento. Quando gli ho chiesto cosa fosse Grantland e perché la notizia della sua nascita fosse così importante, lui mi ha risposto «perché Simmons ha fatto quello che tutti noi avremmo sempre voluto fare: unire sport e cultura pop». Lo sguardo che ne è seguito—una roba tipo “e ci saresti dovuto arrivare già da solo”—mi ha fatto capire che avrei dovuto rimettermi in pari, e pure in fretta.
Da quel giorno sono abbastanza certo di aver letto tutto quello che è stato scritto di basket su Grantland—e il mio modo di pensare, oltre al mio stile di scrittura, inevitabilmente ne sono rimasti influenzati, anche a costo di sembrarne una brutta copia come a volte mi sono sentito rimproverare (non senza ragione). L’idea che unire sport e cultura pop fosse la cosa giusta da fare è sempre rimasta ben piantata nella mia testa. Alla fine è lo stesso ragionamento della chiusura di The Book of Basketball di Simmons: «The secret of basketball is that it’s not about basketball». C’è di più rispetto a dieci giocatori che cercando di mettere un pallone dentro a un cesto, e vale lo stesso per tutti gli altri sport. E nessuno come Grantland è stato in grado di rendere realtà questo concetto così astratto, per di più creando un prodotto che trasudava creatività, autorialità, passione, e anche una certa dose di follia.
Mi faceva impazzire che gli scrittori potessero proporre idee assurde, che avessero la possibilità di scrivere (più o meno) tutto quello che volevano, con una libertà senza precedenti in un mondo giornalistico in cui alla fredda cronaca sportiva del beat writing si univa la ricerca della breaking news, intervallati qua e là da qualche profilo in cui un agente dava accesso privilegiato al proprio assistito da “pompare”.
La notizia della fine di Grantland mi ha colpito, ma non era del tutto inaspettata. Quando Zach Lowe ha aperto il suo podcast dicendo: «Benvenuti al Lowe Post, che è un podcast su Grantland.com, che è un sito che esiste e continua a esistere e porca merda se sono state due settimane difficili ma tiriamo avanti», tutti i campanelli d’allarme possibili nella mia testa erano già scattati. E sapevo anche che la situazione finanziaria era quella che era. E che senza Simmons il timer della bomba era già stato azionato sotto gli uffici di L.A.. Ma che di punto in bianco ESPN decidesse di chiudere tutto da un giorno all’altro, beh, no. Non me l’aspettavo. O perlomeno non ero pronto.
Rabbia: Ma possibile che non capite?
«Quando si realizza la perdita, subentra un enorme carico di dolore che provoca una grande rabbia alle volte rivolta verso sé stessi o persone vicine o, in molti casi, verso la stessa persona defunta». C’è una frase dello stringato comunicato di ESPN sulla fine di Grantland che mi ha colpito più di tutte: «Abbiamo deciso di indirizzare il nostro tempo e energie in futuro verso progetti che crediamo possano avere un impatto più ampio e più significativo nella nostra azienda». Quello che leggo io in quei “Più ampio e più significativo” è “Questa sciocchezza è durata fin troppo, perché non ha spostato nulla all’interno di ESPN. Avete fatto una cosa da impallinati per impallinati, il mondo là fuori è un’altra cosa”.
L’idea che mi sono fatto è che Grantland venisse considerato più come una scocciatura che come un reale asset dei “Worldwide Leader in Sports”. E che se non fosse stato per Simmons (la principale penna “portatrice di click”, che peraltro ha detto cose molto simili una volta passato a HBO), il sito sarebbe stato chiuso ben prima di quando è stato. Questo la dice lunga della direzione in cui vuole andare ESPN—che allunga milioni di dollari agli Stephen A. Smith e gli Skip Bayless di questo mondo per gridarsi addosso e decretare se LeBron James abbia il “clutch gene” oppure no, facendo peraltro ottimi dati di ascolto ogni mattina. Sigh.
La cosa che mi fa più rabbia però è il messaggio che ESPN ha mandato al mondo con questa scelta: il caro e vecchio “Stick to Sports”. Non provate a essere più di quello che siete. Non provate a mischiare lo sport con qualcosa di più significativo (come rivelato da CNN, un dirigente senior dell’azienda ha dichiarato: «Ci tiriamo fuori dal business della cultura pop»). Non provate a essere creativi, sfrontati, intelligenti—perché non è quello che la gente vuole, né quello che genera profitti. Che è un discorso che ha perfettamente senso da un punto di vista economico (sappiamo tutti senza bisogno di ripetercelo che Grantland era in rosso e non produceva abbastanza traffico per essere autosostenibile), ma che è anche tremendamente triste e vecchio, perché Grantland non era un prodotto da vendere per farci profitti—e questo lo sapevano tutti anche prima che il sito venisse aperto.
Allo stesso tempo, però, non ho l’arroganza di dire che un’azienda che muove miliardi di dollari ha sbagliato una sua scelta. Vorrei poterlo fare, ma non sono nemmeno in grado di tenere in ordine le mie notule, quindi non mi azzardo. In questo post sul suo blog, Sean Fennessey—uno dei quattro che a inizio ottobre ha lasciato Grantland per seguire Simmons a HBO, insieme a Chris Ryan, Juliet Litman e Mallory Rubin—ha dato una lettura della vicenda sulla base della sua esperienza personale: «Grantland changed irrevocably in May, and that’s important for me to emphasize. Bill Simmons was a weathervane, and the tropical storms that consumed the region after his departure were unpredictable and unnerving. What happened to Grantland yesterday is the product of cosmically upsetting corporate maneuvering and I hate that, as I’ve hated it forever».
Quelle “manovre aziendali” possono essere viste in due maniere. La prima, quella economica: la Disney ha effettivamente dato ordine a ESPN di tagliare fino a 350 dipendenti, ovvero quasi il 5% della forza lavoro. La seconda, quella “opportunistica”: dato che il principale difensore di Grantland era già stato allontanato e sopra di lui anche l’executive content John Walsh, ritiratosi a inizio anno, e il CEO John Skipper avevano perso fiducia nel progetto, la richiesta di mamma Disney è stato il pretesto perfetto per troncare di netto non solo un sito in perdita, ma anche la creatura dell’odiato e rinnegato Simmons. Come dire, tremenda vendetta.
Negoziazione: Però gli scrittori migliori continueremo a leggerli da altre parti, non è la fine del mondo
«Si tenta di reagire all’impotenza cercando delle risposte o trovando soluzioni per spiegare o analizzare l’accaduto». Cercare di trovare comunque dei lati positivi di questa vicenda è l’unica cosa che ha salvato la mia sanità mentale negli ultimi giorni. Uno di questi è che gli scrittori di Grantland non verranno lasciati in mezzo a una strada: alcuni di questi hanno già trovato nuovi lavori—oltre ai quattro della diaspora verso HBO, hanno cambiato testata anche Rembert Browne al New York Magazine, l’impressionante Wesley Morris al New York Times e il direttore editoriale Dan Fierman a MTV News—e le penne più importanti di sport verranno riutilizzate su ESPN.com almeno fino alla fine dei loro contratti (che verranno tutti rispettati, e ci mancherebbe).
Anche quelli dell’Hollywood Prospectus, Andy Greenwald e Mark Lisanti, troveranno sicuramente posto in un’altra redazione per il semplice fatto che sono way too good per rimanere a spasso. Quindi, almeno per il momento, continueremo a poter leggere l’impressionante mole di talento allestito negli anni da Simmons, in un modo o nell’altro.
Quello che mi chiedo è: quando mai ritroveremo un assembramento di penne di questo calibro tutte assieme? Nel pezzo che abbiamo pubblicato ieri abbiamo risposto in dieci e siamo riusciti a trovare una ventina di pezzi diversi per dimostrare che Grantland era un sito irripetibile. Io per motivi professionali leggevo principalmente quello che veniva scritto di basket, e già lì si poteva trovare un'offerta super differenziata su più livelli e per tutti i gusti.
Sei uno a cui piace andare in profondità e capire il senso di ogni movimento della NBA, dentro e fuori dal campo? Eccoti Zach Lowe. Hai una passione per le analytics e l'applicazione della matematica allo sport? Eccoti Kirk Goldsberry. Ti piace approcciare la NBA just for fun? Eccoti Andrew Sharp, o Chris Ryan (di cui sono stati tolti i pezzi dopo il passaggio a HBO), o Jason Concepcion. Ti piacciono i profiloni lunghi di storie dimenticate? Che problema c'è, abbiamo Jonathan Abrams. Vuoi sapere cosa è successo ieri sera? Ecco lo shootaround. I giovani e futuri prospetti NBA? Li trattiamo con lo stagista-diventato-editor-anche-se-dimostra-12-anni Danny Chau. E la NCAA? Il mercoledì è il giorno di Mark Titus. Sei malato di Filippine? C'è Rafe Bartholomew. Poi ogni tanto passa di lì Brian Philipps a scrivere di Westbrook come mai nessuno prima, o Chuck Klosterman su un po' di tutto, o Shea Serranosugli Spurs, o Rembert sui suoi Hawks. Non hai tempo di leggere e vuoi solo ascoltare? Ci sono i podcast di Lowe, quelli di Jalen & Jacoby, oppure puoi farti quattro risate con NBA After Dark con Juliet Litman che sbava per Chandler Parsons.
Senza nemmeno considerare Bill Simmons—di cui si possono dire molte cose, ma non che non abbia cambiato il giornalismo sportivo online, che non sappia scrivere o che non sappia riconoscere e coltivare il talento. E questo solo per il basket, che era tipo un isolotto all’interno di un arcipelago di contenuti, tutti i giorni, tutto il giorno. Quando mai ci ricapita una roba del genere? Poi però c’è da considerare la terrificante prospettiva che non tutti potrebbero continuare col giornalismo. Prima di Zach Lowe, a scrivere di basket c’era Sebastian Pruiti, che dopo un anno a Grantland è stato assunto dagli Oklahoma City Thunder. E prima di diventare capo allenatore degli Warriors, Steve Kerr disse in un B.S. Report che se fosse tornato nella NBA con un ruolo attivo avrebbe assolutamente cercato di portare via Lowe e assumerlo per la sua squadra.
Chi ci dice che ora questo non possa succedere e privarci della migliore penna in circolazione? Quello che io ho trovato in Grantland è la stessa cosa che ho provato la prima volta che ho ascoltato Giorgio Gaber: non mi ha solamente fatto esplodere il cervello, ma dopo averlo fatto mi ha costretto a pensare. Leggere quei pezzi mi ha aiutato ad avere una migliore comprensione di quello che succede in campo, alla fruizione della partita, e anche al divertimento che ne provo. Grantland mi ha reso un tifoso e uno scrittore migliore.
Non voglio arrivare a dire che senza Grantland non avremmo compreso l’importanza dello spacing, della difesa dei tiri al ferro, delle triple, delle minuzie del salary cap e dell’utilizzo di certi schemi. Però di sicuro non hanno guastato, ecco. Nel mio piccolo, poi, rimango convinto che senza il terremoto giornalistico provocato dal primo anno di Lowe a Grantland, a fine stagione Marc Gasol non sarebbe mai riuscito a vincere il premio di difensore dell’anno—un riconoscimento che, banalizzando, per anni è andato a “chi prendeva più rimbalzi e faceva più stoppate”.
Con i suoi pezzi secondo me Lowe ha aperto gli occhi a molti addetti ai lavori, facendogli notare le rotazioni perfette, la vocalità e la cerebralità di un giocatore che non salta un foglio di giornale, ma che riesce comunque a dominare le partite.
E il mondo del professionismo stesso si è rivolto a Grantland in cerca di opinioni e consigli: nei suoi podcast Lowe raccontava che J.J. Redick dei L.A. Clippers non si perdeva nemmeno uno dei suoi pezzi, o anche che alcuni GM lo chiamavano per chiedergli cosa ne pensasse di un certo giocatore o di un certo scambio. Pratica abbastanza normale nel mondo americano, all’interno del quale la ricerca del benché minimo vantaggio competitivo diventa quasi ossessivo, ma che risulta quasi aliena alle nostre orecchie.
Allo stesso modo, ormai non si può più fare un’analisi seria di una squadra citando le statistiche “grezze” come i punti a partita—perché tra una squadra che gioca 90 possessi e una che ne gioca oltre 100 c’è la distanza tra il giorno e la notte. Nel 2015 è obbligatorio ricalibrare tutto in funzione del tempo e dei possessi, altrimenti non è un’analisi che possa ritenersi accettabile. Nell’epoca in cui la Sloan Sports Conference fa registrare ogni anno numeri sempre migliori, Grantland si è distinto come luogo in cui le statistiche avanzate sono state rese accessibili a tutti, specialmente i professionisti del settore (giornalisti, dirigenti e giocatori), ma anche i semplici appassionati.
Questa secondo me è la prova tangibile dell’impatto che ha avuto Grantland sul nostro modo di lavorare e pensare pallacanestro: ci ha costretti ad alzare l’asticella, a spingere i limiti un po’ più in là, a migliorarci e a studiare per rimanere al passo. E lo stesso discorso si può fare per tutti gli sport, tutte le serie tv, tutti i film: insomma, tutti gli ambiti in cui Grantland si è immerso. E se questo non è quantificabile in click e profitti per ESPN, di sicuro lo è in esperienza umana e professionale.
https://twitter.com/kirkgoldsberry/status/660850654441660416
Depressione: Se non ci sono riusciti loro, chi?
«Il momento nel quale il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire». La domanda che mi ha tormentato negli ultimi giorni è stata: se non ci sono riusciti loro a imporre e rendere vincente un modo diverso di fare giornalismo sportivo pensato… chi può riuscirci? E non mi riferisco solamente al long journalism—che è stato il cuore dell’esperienza Grantland all’inizio, ma che è stato un po’ smussato con il passare del tempo, forse anche per venire incontro alle necessità di ESPN, aprendosi anche ai podcast e ai video—ma al giornalismo approfondito, di qualità, strutturato e completo con una forte vena ironica e di divertimento. Che i pezzi di Grantland fossero lunghi secondo me è una conseguenza, non una causa: se si vuole scrivere bene di una cosa, andando in profondità e cercando di analizzarla dal maggior numero di angolazioni possibili, non lo si può fare in 3.500 battute o in pezzi confezionati in 20 minuti.
Io su questo aspetto ho basato un bel po’ del mio “modo di fare giornalismo”, e da venerdì sera ho la testa piena di dubbi. Ho la tremenda sensazione che la fine di Grantland sia un po’ anche la fine di un certo modo di fare giornalismo sportivo. Ho paura di aver puntato su un cavallo sbagliato.
Se perfino loro—che avevano le migliori penne disponibili sul mercato per talento e genialità, con alle spalle un’azienda da miliardi di dollari come Disney/ESPN e che grazie alla lingua inglese potevano rivolgersi a tutto il mondo trascendendo i confini degli Stati Uniti—raggiungevano a malapena i 5/6 milioni di visitatori unici al mese prendendo schiaffi in faccia da tutti i principali concorrenti (che poi, siamo sicuri che Deadspin e SB Nation fossero davvero i loro competitor?), chi può rendere sostenibile questo tipo di editoria online? Poi per carità, c’era il giornalismo prima di Grantland e ci sarà anche dopo. Però diciamo che per “noi” che stiamo da questa parte della barricata, venerdì è stato decisamente un brutto giorno.
Accettazione (… a cui in realtà devo ancora arrivare)
«Si accetta l’accaduto, riappacificandosi con esso, spesso sperimentando fasi di depressione e rabbia di natura moderata, volte a riconciliarsi definitivamente con la realtà». Che cosa dovrei imparare allora dall’esperienza dei quattro anni di Grantland? La prima risposta rabbiosa sarebbe “Che il mondo è una merda”, e per due giorni interi mi sono sentito così. Però poi ragionandoci un attimo mi rendo conto che, pur provando ancora delusione per quello che successo, poteva andarmi molto peggio.
Se fossi nato in un’epoca passata avrei sicuramente trovato altri modelli “di qualità” a cui ispirarmi, ma sono felice di aver iniziato la mia “carriera” con Grantland e che abbia avuto questo impatto su di me. E stando a quello che ha scritto Simmons sulla sua pagina Facebook, ispirare un ragazzo italiano di 20 anni a intraprendere questa strada era anche uno dei loro obiettivi quando hanno creato il sito. E sono certo che tantissimi altri ragazzi in giro per il mondo si sentono così in questi giorni: delusi, arrabbiati, ma anche più ricchi.
Allo stesso modo, anche il mondo del professionismo ha perso una voce autorevole: non solamente perché Grantland era il sogno-diventato-realtà di ogni giornalista (essere pagato profumatamente per scrivere quello che ti pare senza limiti di spazio, con budget per viaggiare e redazione a L.A.? Dove si firma?), ma anche perché le opinioni dei suoi scrittori indirizzavano il discorso verso certi aspetti del gioco piuttosto che altri, alzando il livello della conversazione, e nemmeno di poco.
Se c’è una lezione che possiamo imparare da Grantland, è che è giusto essere liberi di sperimentare, di sbagliare, di non accontentarci di scrivere solamente di quanto è successo, ma di andare oltre e cercare una storia, un angolo autoriale, una battuta, una metafora che possa, a nostra volta, arricchire noi stessi e lasciare qualcosa a chi verrà dopo di noi. Qualcosa che renda meritevole di essere letta l’incredibile mole di parole che produciamo, che alla fine ti faccia dire “Oh, sono contento di aver investito il mio tempo nel leggere questo pezzo, mi ha fatto sentire meglio”.
Grantland ha avuto questo effetto su di me, ogni singola volta. E se questo non è “un impatto ampio e significativo”, allora vorrei proprio sapere che cosa lo è.