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L'importante è stare nel presente, intervista ad Ambra Sabatini
14 nov 2023
Una lunga chiacchierata con la campionessa paralimpica e primatista mondiale.
(articolo)
5 min
(copertina)
credits: IMAGO / Mika Volkmann
(copertina) credits: IMAGO / Mika Volkmann
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Un prima e un dopo esiste sempre, anche per i più piccoli cambiamenti. Ce lo insegnano da sempre: tutto muta ed è in divenire, figuriamoci quando i cambiamenti sono invece giganteschi ed esistenziali. Ci penso quando affronto la storia di Ambra Sabatini, sprinter paralimpica nata a Livorno il 19 gennaio 2002, che per arrivare fino a dove è arrivata, è stata costretta ad adattarsi a un enorme stravolgimento.

Sabatini conduceva una vita sostanzialmente ordinaria fino al 5 giugno 2019. Fin da piccola ha praticato un qualche sport: prima il tentativo con il pattinaggio, poi il passaggio alla pallavolo, infine la passione per l’atletica e il mezzofondo. Quel giorno, però, prende lo scooter per andare agli allenamenti quando un’auto proveniente dal senso opposto la colpisce, causando un grave incidente. Lei si salva ma la gamba sinistra le viene amputata fino al ginocchio. Leggendo la sua storia sembra che questo evento drammatico non abbia scalfito nemmeno per un secondo la sua ambizione nel mondo dello sport. Subito si rituffa negli allenamenti: prima nuoto e poi ciclismo. Poi, ottenuta la protesi per la gamba nel corso del 2020, torna nuovamente all’atletica.

Inevitabilmente, quindi, alle Olimpiadi di Tokyo di quello stesso anno, in gara nella categoria T63 (dove la T sta per le gare su pista e salti e il 63 per amputazioni monolaterali transfemorali con protesi), ci arriva con poca preparazione. Alla fine, però, è suo l’oro, e per di più col record del mondo: 14.11. Al suo fianco altre due atlete italiane si abbracciano in un arrivo tricolore senza precedenti: sono Martina Caironi e Monica Contraffatto, rispettivamente seconda e terza. Le tre ripetono il copione quest’anno ai Mondiali di Parigi 2023, dove Sabatini si è ripresa il record del mondo (13.58) che la Caironi le aveva “rubato” (14.02, a Eugene 2022).

Nel frattempo la sua vita è cambiata di pari passo alla sua carriera da atleta. Sabatini è entrata nelle Fiamme Gialle, vive in caserma a Castel Porziano (in provincia di Roma). Sento un leggero pudore ad entrare nel suo mondo, ma è una cosa mia, perché lei, come farà durante tutta la telefonata di circa 30 minuti, è tranquilla, ride, mi trasmette leggerezza.

Tutto è iniziato con la vittoria a Tokyo 2020, poi è arrivata la conferma al Mondiale di quest’anno.

Riconfermarsi è ogni volta difficile. Quando raggiungi un risultato come quello di Tokyo bisogna creare nuovi stimoli. Per me non è mai stato un problema. Mi sono messa in testa di abbattere quel 14.11 [il tempo che aveva fatto segnare alle Paralimpiadi, nda] e di scendere sotto la barriera dei 14. Non a caso ho preso delle decisioni per migliorare e c’è voluto del tempo. Mi sono trasferita a Castel Porziano al centro delle Fiamme Gialle, dove mi alleno. Questa scelta è maturata a seguito dei Giochi Paralimpici e dopo un cambiamento del genere non è stato tutto immediato. Dovevo mettere delle basi che prima non avevo: ero un’atleta ancora inesperta, nonostante avessi appena vinto l’oro ai Giochi. È arrivato tutto in modo improvviso, ho fatto un anno di preparazione ed è stato pochissimo. Poi c'è stato un periodo di assestamento. Martina [Caironi, ndr] mi aveva ripreso il record [14.02, ndr]. Ai Mondiali di quest’anno volevo rifare a tutti i costi il primato e salire sul gradino più alto. Mi sono anche detta che l'obiettivo più grande sarebbe stato quello dei Giochi Paralimpici del 2024. In ogni caso volevo dare il massimo. Questo risultato è frutto pure del lavoro fatto con il mio allenatore Pasquale Porcelluzzi, con cui ho intrapreso questa avventura.

La cosa più difficile è confermarsi e avere una certa continuità, ma tu dici “per me non è un problema”: non soffri il peso delle aspettative?

No, forse non mi sono spiegata bene. La questione è che a volte si può pensare che chi raggiunge un certo risultato non riesca a trovare nuove motivazioni. In questi termini non ho mai avuto particolari intralci. Penso sempre di poter fare qualcosa in più. Gli stimoli non mancano, ma ognuno ha il suo percorso di atleta. In passato ho sentito il peso delle aspettative: quando non arrivavano i risultati ero scoraggiata, ma sapevo che presto le cose sarebbero cambiate.

Pensi di avere più talento o dedizione?

Questa è la domanda più facile. Dedizione, perché soprattutto con l'atletica è sempre stata una lotta. Ho iniziato in seconda media e ho fatto tre anni di pallavolo. Poi, mi sono dedicata alla tecnica, avevo questa corsa che era, come dire: orrenda! Le mie ginocchia erano basse, facevo mezzofondo, quindi gare lunghe e faticose con tanto lavoro di testa. Pian piano, sono migliorata tantissimo, ho corretto tutti gli errori tecnici. Penso che la mia qualità sia più la passione anche perché talento, in termini sportivi, non ne ho mai avuto tanto. Forse l'ho avuto nella fatica, nell’andarci d’accordo e nel puntare tutto su quello.

Hai parlato del passato da pallavolista. In diverse occasioni e interviste hai sostenuto di non essere adatta a uno sport di squadra, come mai?

Non sono portata per gli sport di squadra semplicemente perché mi piace che il risultato dipenda solo da me. Ho fatto pallavolo per tanto tempo e sentivo che quello che accadeva in campo non sempre era condizionato dal mio rendimento. È una cosa bella poter contare su altre persone, ma il fatto che ciò che raggiungi è merito tuo e anche ovviamente dello staff che ti sta intorno, mi fa stare meglio. Non mi sento sola perché ci sono i compagni di allenamento, il coach, il tecnico della protesi. È una sorta di lavoro “d’insieme” anche se non sembra, visto che quello che appare alla fine è l'atleta. Nel momento della gara sai che devi contare solo sulle tue forze, ma mi piace questa sensazione.

A proposito di questo, corri più contro te stessa, contro gli altri o contro il cronometro?

Vorrei dire contro me stessa, però ormai è diventata una sfida al cronometro. Ho l’obiettivo di abbassare il più possibile questo record e avvicinarmi alla categoria un po' più avvantaggiata, quella del T64 e quindi abbassare tantissimo lo standard. Sì, è una lotta contro il tempo.

Voi sportivi venite visti spesso come eroi, ma siete umani. Come gestisci le tue debolezze?

Tutti ne abbiamo, io non ne ho di particolari. Ci sono situazioni in cui sei parecchio sotto stress, come può capitare prima delle gare o in stagione, quando non arriva il risultato, oppure pensi di aver fatto qualcosa di sbagliato. Credo che, in quei casi, una figura che possa aiutare sia quella dello psicologo sportivo, anch'io me ne avvalgo. Bisogna cercare di creare un clima di tranquillità: alla fine è il nostro lavoro, la nostra passione. Questo è quello che conta di più di per un'atleta.

Ho tirato in ballo questo termine - eroi - perché in un’intervista a La Stampa avevi detto che ai Giochi Paralimpici arrivano gli eroi.

[Ridendo, nda] Quella intervista mi perseguita! Facevo riferimento al docufilm Rising Phoenix [che ripercorre la storia delle Paralimpiadi, nda] in cui viene utilizzato questo claim [“The Olympics is where heroes are created. The Paralympics is where the heroes come”, nda]. Io non ritengo che l’atleta paralimpico sia proprio un eroe, non credo nell'eroismo. Siamo persone normali, affrontiamo sfide, abbiamo ostacoli in più da superare e lo facciamo pure durante la quotidianità. Ci sono più barriere, ma nel momento in cui si sorpassano si acquisisce più forza.

Lo so che può sembrare strano chiedertelo ma quanto ha cambiato la tua vita l’incidente?

Ho sempre identificato quel 5 giugno come un secondo compleanno, una seconda vita. Credo che ci sia un'Ambra prima e dopo, però il fatto che il mio dopo sia così bello - anche il mio prima lo era ovviamente - mi fa pensare che, per adesso, non ci sia niente che possa andare male.

Ho letto che durante l’incidente non hai mai perso conoscenza: l’essere consci ti ha aiutato?

Sì, in quel momento ho deciso di essere presente per combattere, volevo a tutti i costi restare cosciente, aggrapparmi alla vita. Poi ricordare o comunque capire quello che mi stava succedendo e quello che è successo… sì, secondo me in qualche modo mi ha aiutato a ricostruire tutto, a comprendere che è stata una cosa tragica, però è andata bene così, ci sono purtroppo altre storie che non hanno questo lieto fine.

Volevi rimanere presente e capire quello che stava accadendo e infatti so che hai tenuto una sorta di diario, sempre per essere consapevoli di tutto…

La cosa che ho fatto è stata fare delle foto e metterle in questa specie di diario che però era fotografico, sentivo di voler ricordare. Sapevo che sarebbe stato un percorso di un qualcosa di bello, di una rinascita. Volevo fissare questi momenti, come delle istantanee. Penso che anche le situazioni più brutte siano degne di essere vissute.

Tu hai un fratello gemello, lui, invece, cos’ha provato quando ha saputo dell’incidente? La tua famiglia so che è stata fondamentale.

Devo dire che lui l'ha vissuta in maniera abbastanza tragica. In quel momento si trovava a Firenze, giocava nella Fiorentina e quando ha saputo dello scontro, pensava che mi fossi rotta qualcosa come un braccio. Mi hanno portato all’ospedale Careggi e mi ha raggiunto lì. Ha capito che la situazione era un po' diversa. Tra me e lui c'è un rapporto speciale e ogni volta che possiamo ci consigliamo, ci raccontiamo tutto. Poi, certamente la famiglia ha avuto un ruolo unico.

Nel tuo caso c'è un filo conduttore che è l'atletica, però c'è stato inevitabilmente un cambiamento, come vivi l’evoluzione delle cose?

Credo che l'uomo abbia una capacità di adattarsi incredibile e, basandomi su questo principio, mi adatto molto facilmente. Spesso cerco di mettermi in circostanze che ancora non riesco a gestire, come nuove esperienze, avventure o imparare a fare qualcosa di nuovo. Ricordo, ad esempio, quando ho ripreso a fare tutte le attività della vita quotidiana: dall’andare in bici o sui pattini. Mi mettevo in queste situazioni ancora prima di sapere come fare. Questo credo sia un sintomo di forza. Il cambiamento alla fine ha portato qualcosa di meglio. Noi paralimpici abbiamo solo qualche ostacolo in più.

Quali sono stati in questi anni quelli un po’ più complessi da gestire?

Senz'altro imparare a camminare, stare al passo con la vita di tutti giorni non è stato subito agevole. Ci è voluto un po' di tempo, però essendo giovane e con tanta voglia di rimettermi in pari e di tornare in pista, in fondo, è stata abbastanza facile, non so come dirlo…

La cosa che mi colpisce è proprio che fai sembrare tutto semplice.

[Ride, nda] Sì, lo so… poi è vero che ci sono degli intoppi: gestire le protesi, andare dal tecnico. Ci sono questi fattori di cui devi tenere conto e in questo ambiente tanti atleti devono farci caso. I problemi esistono: il corpo è come se fosse una macchina da corsa che ha bisogno dei settaggi. Cerco sempre di vedere il lato positivo, soprattutto quando mi trovo davanti a una situazione di stress che non vorrei dover affrontare.

Come funziona con la protesi? Io me la immagino come una scarpa che deve calzare a pennello ma forse non è così.

Non è stata una passeggiata, perché la zona è molto sensibile dopo una amputazione. Ci sono nervi che si devono ancora abituare, la gamba a volte cambia forma. Succede tutt'ora quando è estate, con il caldo, la protesi va un po’ più larga e allora va aggiustata, oppure cammino e sudo di più, piccoli fastidi. Va detto che la tecnologia ha fatto dei passi in avanti immensi, un tempo era inimmaginabile pensare di poter fare tutto questo.

Tecnologia sì, ma costi elevati, o sbaglio?

Io mi sono rivolta all’Associazione Art4Sport, fondata dai genitori di Bebe Vio. Loro sono stati i primi che mi hanno dato le protesi da corsa. Successivamente, è subentrata l'INAIL che le fornisce a tutti coloro che fanno parte della Nazionale. È stato grazie ai loro tecnici che sono riuscita ad abbassare tantissimo il mio primato personale e a fare il primo record del mondo di 14.59 [nel 2021, nda]. È un bene che ci siano realtà che riescano a investire sui ragazzi. La protesi dell’INAIL arriva quando si raggiunge un determinato risultato e si è di interesse nazionale. In quel caso puntano su di te.

In generale, però, una persona che ha avuto un'amputazione non sa da dove iniziare. Le protesi da corsa costano meno di quelle quotidiane, almeno per adesso. Hanno componenti meccanici, non elettronici. Il mio ginocchio da cammino quotidiano è elettronico e costa 77mila euro… quello da corsa dovrebbe essere in tutto tra i 15 e i 20mila. L’ASL passa una piccola parte per le pratiche d'uso dilettantistico sportivo, fino all'anno scorso, mi sembra, non era così. Ora dovrebbero esserci fondi per chi vuole fare sport a tutti i livelli, altrimenti esistono varie associazioni.

Dicevi che spesso dopo un’amputazione non si sa dove iniziare, tu da dove sei partita?

Appena ho fatto l'incidente il mio unico pensiero era tornare a correre, anche perché mi trovavo in una fase della vita in cui l'unica cosa che contava era fare l'atleta. Ero mezzofondista con un livello regionale abbastanza buono, a livello nazionale potevo cavarmela e quindi pensavo soltanto a quello. Sapevo di poter gareggiare ancora perché ero a conoscenza dell’esistenza delle protesi. Durante tutto il ricovero mi sono informata su ogni cosa, così come sul percorso di Martina [Caironi, nda] e Monica [Contraffatto, nda]. Nel frattempo, quando mi hanno dimesso ho iniziato a fare quello che potevo.

Prima di tutto, nuoto: pensa che avevo intenzione di gareggiare ai campionati studenteschi, poi c'è stato il Covid e purtroppo non li ho potuti fare. Pian piano mi sono data al ciclismo: ho legato al pedale, con una sciarpa, il piede della protesi perché altrimenti sfuggiva. Ho iniziato a fare giri nel cortile di casa, perché in quel periodo c’era il lockdown. Poi, mi sono procurata una bici da corsa su strada grazie ad alcuni amici di famiglia e quindi un'altra passione è diventata questa. Quando la situazione con il Covid si è assestata, sono andata a Budrio [dove c’è il Centro Protesi Vigorso, nda] per fare la mia prima protesi da corsa, un anno dopo l’incidente.

Le protesi vanno a coprire delle cicatrici, ma cosa sono per te? Che rapporto hai con il tuo corpo?

In realtà a me le cicatrici piacciono tantissimo, raccontano qualcosa di noi, è quasi come un tatuaggio. Tra l'altro, penso che siano un segno di vittoria: ne ho alcune sul braccio e non me ne sono mai vergognata. Inizialmente, ho fatto un po' fatica ad accettarle, ma ad un certo punto le ho viste come qualcosa che mi rendeva unica e speciale, che raccontava una storia. Questo è il mio rapporto con il mio corpo: mi sento in qualche modo speciale.

Ho parlato con vari atleti paralimpici, tutti mi hanno detto che bisognerebbe lavorare sull’accessibilità dello sport partendo dai più piccoli, tu che idea ti sei fatta?

A livello paralimpico stiamo compiendo passi da gigante. L’accesso allo sport dovrebbe partire dalle scuole e non solo per noi ma in generale. Il problema riguarda tutti. Secondo me si dovrebbe cominciare da lì per insegnare certi valori che lo sport può dare ai ragazzi. Grazie all'atletica ho avuto un “dopo” molto più facile. Avevo una motivazione, voglia di fare qualcosa, di uscire, andare al campo, ritornare a muovermi. Il corpo è fondamentale, va curato, è la nostra casa, è importante che si insegni il tutto in tenera età: l'esercizio fisico va fatto per bene.

L’hai citata prima: che rapporto hai con Martina Caironi?

Unico, intanto perché siamo compagne di squadra ma anche avversarie. Ma andiamo d'accordissimo, sia con lei che con Monica. Per me sono fonti di ispirazione. Non ne avevo bisogno, sapevo di voler tornare a far atletica. Però mi hanno dato una spinta in più. Vedendo che ce la facevano, ero ancora più fiduciosa. Questo è difficile da trovare anche in altri Paesi: il podio tutto tricolore è arrivato perché siamo un'eccezione rispetto al resto del mondo.

Lo sport ti ha portato molta popolarità, come vivi questo aspetto?

Bene direi, mi piace. All’improvviso sono stata catapultata in questo mondo, però devo ammettere che avere l'opportunità di fare esperienze e di poter aiutare qualcuno è molto bello. A volte mi arrivano messaggi bellissimi di persone che dicono: “Mi hai ispirato, mi hai cambiato la vita”. Rispondo: “Scusate, non sto facendo nulla, sto solo correndo”. Però è bellissimo… anche tutto l'affetto che ricevo dopo essere andata ad alcuni eventi. Sapere che c’è gente che conosce la mia storia è emozionante.

In che senso stai “solo correndo”?

Lo dico in senso positivo. Vorrei che quella fosse la principale fonte di ispirazione per gli altri. Secondo me non servono tante parole quando succedono certe cose. Sono senza una gamba, sto correndo, sto facendo alcuni tempi, sono un'atleta professionista. Il messaggio più forte che posso trasmettere è la mia stessa storia. Penso che quello che faccio sia davanti a tutto. Per il resto sto provando a studiare [è iscritta all’Università LUMSA di Roma in Scienze della comunicazione, marketing e digital media, nda], anche se è molto difficile perché ci sono impegni pubblici, e poi gli allenamenti che si fanno sempre più pesanti. Vedo gli amici e torno a casa. Appena posso cerco di andare in Toscana per godermi la mia famiglia e il mio territorio, che è bellissimo. Abito a Monte Argentario [in provincia di Grosseto, nda], un piccolo paradiso».

Non so se lo sai ma sei anche sulla Treccani online. Se fossi tu a raccontarti agli altri come lo faresti?

Le persone che mi conoscono per descrivermi come prima parola usano “testarda”. Secondo me è il termine giusto, sono così. Nonostante tutto quello che mi possa succedere vedo che alla fine riesco sempre a rialzarmi e a ricostruire la vita partendo da me stessa, dalle mie passioni, da tutto.

Hai progetti a lungo termine?

Sto già pensando a Brisbane 2032… [ride, nda] Adesso però è meglio concentrarmi su Parigi. L'importante è stare nel presente, le cose possono cambiare in un attimo. Meglio goderci quello che abbiamo adesso.

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